domenica 30 marzo 2014

Early psychedelia vol. 15 (My mind goes high. Psychedelic pop nuggets from WEA vaults/West Coast Pop Art Experimental Band/Jake Holmes)

Jake Holmes

VV. AA. - My mind goes high. Psychedelic pop nuggets from WEA vaults (2004; recordings 1967-1968). Bella compilazione, che segue Original artyfacts from the first psychedelic era 1965-1968 (e che pubblicheremo se il dio dei blogger ci conserva dopo il 31 marzo). Nella raccolta rilevano i Monkees (il pezzo è della coppia Goffin/King), la West Coast Pop Art Experimental Band con l’altro hit Smell of incense, Electric Prunes, lo sciroccato Kim Fowley e Association (bravi). C’è parecchio da godere per i cultori del genere.

West Coast Pop Art Experimental Band (USA, Los Angeles, California) - Part one (1967). Prodotto di livello della Bay Area: si comincia con l’hit Shifting hands, non si disdegna la melodia rilassata, a volte si cade nel pop nazionale da American pie: in generale ci si mantiene entro il cortile ispirativo Byrds nonostante qualche ardita incursione nel campo freak (Help I’m a rock di Frank Zappa, nientemeno); il tono, però, non è mai banale e, a distanza di quasi mezzo secolo, il disco riesce a rendersi riconoscibile nella legione psichedelica di fine anni Sessanta.


Jake Holmes (USA, San Francisco, California) - The above sound of Jake Holmes (1967). Opera prima di un folksinger e, per questo, abbastanza trascurata dai cultori psych. Se è vero che le epidemie note come ballo di San Vito e le conseguenti allucinazioni religiose erano da ricondursi, prosaicamente, all’ergotismo (derivante dall’infezione delle graminacee, segale in particolare), chissà se anche la psichedelia e il fenomeno hippie non possano dirsi che degenerazioni folk dovuta a un consumo smodato e contagioso di LSD … Il folk di Jake Holmes (anche ottimo interprete) risente di questa obliqua atmosfera del tempo e si può classificare, con cautela, nel faldone psych. Eccellenti Lonely, Too long, Genuine imitation life e, ovviamente, il capolavoro Dazed and confused, brano scippato dai Led Zeppelin due anni dopo (Page e compagnia neanche risposero al vero autore che reclamava i talleri); e così Dazed divenne una canzone dei Led Zeppelin. “Nel West se la leggenda diventa realtà è la leggenda a vincere”, afferma un protagonista di L’uomo che uccise Liberty Valance. Amen.

giovedì 27 marzo 2014

Violent Femmes - Violent Femmes (1983)/Hallowed ground (1984)


1983 ... 1984 .. due dei dischi simbolo di quegli anni. Anni che non credevo di poter rimpiangere ... Da Milwaukee, Wisconsin, le Pappemolli Violente. Gli anni Ottanta: solo a riconsiderare le cotonature delle femmine e le imbottiture delle spalle nei vestiti ... ragazzi: sono anni irrecuperabili. E il cinema poi: tutti pazzi per Ghostbusters e Ritorno al futuro. Primi brividi erotici: La chiave, con Stefania Sandrelli, e Fotografando Patrizia con Monica Guerritore: il convento questo passava ... Chissà cosa portarci appresso da questi di anni: nulla, posso anticiparlo. Anni Ottanta, allora: esce (quasi sicuramente su Ciao 2001) la recensione di Hallowed ground. Entusiastica o giù di lì. A questo punto scatta la ricerca ... oggi, lo ripeterò all'infinito, nessuno può immaginare cosa significasse, trent'anni fa, cercare un disco: niente Internet, niente cataloghi, libri fermi con le lancette sugli anni Settanta ... un deserto ... indagini al buio ... si assediavano i commessi dei negozi ... qualcuno aveva notizie di prima mano ... sì, dovrebbe arrivare nei prossimi giorni ... oppure no: solo d'importazione ... oppure la sentenza: costa ventimila: una mazzata. Oppure, quando avevi sganciato una somma ragionevole (dalle tredici alle quindici mila), e te andavi con la tua busta quadrata, gialla o bianca o nera (sopra i caratteri immaginifici del logo della rivendita), scattava, perfida, la coltellata del bastardo dietro il banco: "Bel disco quello, bello ... però, non me lo ricordavo, non te l'ho detto prima ... ma quello che hanno fatto l'anno scorso ... eh sì, il primo ... come si chiamava? Ehhhh ... boh ... mi sa lo stesso ... Violent Femmes ... sì sì ... omonimo, insomma ... quello ce l'ho su cassetta ... l'ho riversato ... eh, quello sì ... nooo e certo, se lo do a tutti sto fresco ... chissà ... forse la prossima settimana ... bisogna controllare in magazzino ...". E si ricominciava. 
Ahi serva Italia di dolore ostello, cosa mi fai rimpiangere ... no, non rimpiango la mia giovinezza, rimpiango quell'Italia lì.

domenica 23 marzo 2014

Ministry of Love/Red Temple Spirits - Wide awake and dreaming (1987)/Dancing to restore an eclipsed moon (1988)


Un altra meravigliosa meteora durata lo spazio di due album.
Uno sfrecciare fulmineo non infrequente alla fine degli anni Ottanta. I californiani Red Temple Spirits (William Faircloth, voce; Dallas Taylor, chitarra;  Dino Paredes, basso; Scott McPearson, batteria) attinsero con devozione ai padri psichedelici (il nome deriva da una canzone di Roky Erikson, Two headed dog/Red temple prayer), ma ne attenuarono la carica acida preferendo officiare preghiere da sacerdoti lunari. Tutte le canzoni si caratterizzano, anche nel titolo, per una predisposizione ad uno spiritualismo languido; al lato morbido e notturno, e dilatato, del sogno: Dreamings ending, Moonlight, Liquid temple, Lost in dreams, Dark spirits.
La cosa più incredibile è che i Red Temple abbiano raggiunto tale perfezione atmosferica (alla base precipua del loro fascino) con una formazione ridotta all'osso; parte del merito va attribuito alle cadenze impartite dalla voce di Faircloth, uno dei tanti sciamani che la California ha battezzato dagli anni Sessanta in poi. 
L'unico episodio incongruo, e pleonastico, è la cover omaggio di The Nile song dei Pink Floyd, ma si può soprassedere.
Il precedente lavoro di Fairclogh, Wide awake and dreaming, coi Ministry of love di Mark Nine, anticipa le ballate atmosferiche di Dancing senza riuscire a toccarne la forza visionaria e melodica.

venerdì 21 marzo 2014

True detective - The complete soundtrack 1^ parte/2^ parte


True detective: otto puntate e fine.
Ma è finito oppure no?
Afferma il detective Rustin Cohle: "Come accade a molti sogni, alla fine d'essi si trova un mostro".
Il Minotauro.
Teseo uccide il Minotauro. E tuttavia: è finita?
Afferma ancora Cohle: "Tutto quello che abbiamo fatto o faremo lo rifaremo ancora e ancora e ancora. Capite, tutto ciò' che e' fuori dalla nostra dimensione e' eternità. L'eternità che ci scruta dall'alto. Ora, a noi sembra una sfera. Ma per loro e' un cerchio".
E ancora inganni, mezze verità, indizi, fili che pendono.
Lo ripeto: è finita?

Opening

Handsome Family - Far from any road 

Episode 1 - The long bright dark

Bob Dylan - Rocks and gravel
McIntosh County Shouters - Sign of the judgement
Black Angels - Young men dead

Episode 2 - Seeing things

John Lee Hooker - Unfriendly woman
John Lee Hooker - One bourbon, one scotch, one beer
Vashti Bunyan - The train song
McIntosh County Shouters - Sign of the judgement
Reverend C. J. Johnson and Family - You better run to the city of refuge
Steve Earle - Meet me in the alleyway
Cuff The Duke - If I live or if I die
13th Floor Elevators - Kingdom of heaven (is within you)

Episode 3 - The locked room

The Staples Singers - Stand by me
Buddy Miller - Does my ring burn your finger
Johnny Horton - I'm a one woman man
Jo-El Sonnier - The heart that you own
Jo-El Sonnier - Evangeline

Episode 4 - Who goes there

Bo Diddley - Bring it to Jerome
Melvins - The brain center at whipples
Boogie Down Productions - Illegal business
Blind Uncle Gaspard - Sur le borde de l’eau
Lucinda Williams - Are you alright
Slim Harpo - Rainin’ in my heart
Melvins - History of bad men
Primus - American life
Sleep - Holy mountain
Wu-Tang Clan - Clan in da front

Episode 5 - The secret fate of all life

Kris Kristofferson - Casey’s last ride
Kinks - Tired of waiting for you
Bosnian Rainbows - Eli
Grinderman  - Honey bee (let’s fly to Mars)

Episode 6 - Haunted houses

Waylon Jennings - Waymore’s blues
Bobby Charles - Les Champs Elysee
Father John Misty  - Everyman needs a companion
Glenn Gould  - Goldberg variations; BMV 988: aria
Emmy Lou Harris - The good book
Ike & Tina Turner  - Too many tears in my eyes

Episode 7 - After you’ve gone

Juice Newton - Angel of the morning
School of Seven Bells - Trance figure
Gregg Allman - Floating bridge
Vincent & Mr. Green ft. Ravenbird  - Red light
Black Rebel Motorcycle Club - Fault line
Richard & Linda Thompson  - Did she jump or was she pushed
Townes Van Zandt - Lungs
Meredith Monk  - Core chant

Episode 8 - Form and void

The Hat ft. Father John Misty & S.I. Istwa - The angry river

Marco, 1 41: "Mosso a compassione, stese la mano,
lo toccò e gli disse: 'Lo voglio, guarisci!'"
Per una storia delle influenze e delle suggestioni letterarie di True detective, vedi questo post.

mercoledì 19 marzo 2014

Nurse With Wound list vol. 34 (Pataphonie/Jean François Pauvros & Gaby Bizien/Pere Ubu/Pierrot Lunaire/Der Plan/John Lennon-Plastic Ono Band)

NWW list vol. 34. Pere Ubu
Indice generale/General index


202. Pataphonie (Francia) - Pataphonie (1975). Ancora un attentato anticommerciale. Due lunghi strumentali: Pataphonie, 18’50’’ e Structure poubelle, 22’22’’; due improvvisazioni sommesse, ma inquiete: itinerari in cui l’ascoltatore (specie in Structure) fluisce lentamente cogliendo un mondo ricco di echi e rintocchi incantati. Da sentire. André Viaud, chitarra; Bernard Audureau, tastiere; Pierre Demouron, basso; Gilles Rousseau, percussioni.

203. Jean François Pauvros & Gaby Bizien (Francia) - No man’s land (1976). Si comincia con una bella aerofagia per trombone, poi si entra nel vivo dell’azione: improvvisazioni snervate per chitarra elettrica (quali sarebbero state partorite di lì a qualche anno alla corte della no wave americana, Arto Lindsay in testa) con sottofondo onnicomprensivo e terroristico delle percussioni di Bizien; quindi stasi; sibili ominosi; fiati mediorientali; e si ricomincia. Da sentire. Jean-François Pauvros, chitarra, tromba; Gaby Bizien, trombone, percussioni.

204. Pere Ubu (Stati Uniti) - Datapanik in the year zero (1978). EP capolavoro edito nello stesso anno di grazia di Dub housing e The modern dance. È rock, sicuramente: e della lega migliore. Eppure tale incedere, riconoscibilissimo e familiare alle orecchie di noi tutti (chitarre, sezione ritmica, tastiere), e addirittura piacevole per certi brandelli melodici che si acchiappano qua e là, convive, come l’anima e il corpo platonici, con una sensibilità straniante, aliena, psicopatica. Le vette sono Heart of darkness e 30 seconds over Tokyo; la quarta traccia, Untitled, diverrà The modern dance; Heaven anticipa, invece, pur nei toni più rilassati, Humor me. Da mandare a memoria. David Thomas, voce; Peter Laughner, chitarra; Tim Wright, chitarra, basso; Allen Ravenstine, tastiere; Scott Krauss, batteria.

205. Pierrot Lunaire (Italia) - Gudrun (1977). Opera dall’ispirazione tanto varia quanto contrastante. Il brano eponimo (11’30’’; più compatto nella versione inedita di sei minuti) è un pout-pourri che miscela arie rinascimentali, incongrui recitativi infantili, minimal music à la Terry Riley, incursioni stranianti della soprano Darby; Giovane madre lambisce territori Gong (con la Darby a gorgheggiare sbarazzina); non mancano momenti rilassati (Dietro il silenzio); altrove sembra d’ascoltare lacerti di Curved Air e Amon Düül e, forse, proprio di Schönberg, autore dell’autentico Pierrot. Derivazioni di levatura che non riescono a precipitare in un’unità emozionale coinvolgente. Belli, comunque, i singoli episodi. Jacqueline Darby, voce; Gaio Chiocchio, chitarra, mandolino, tastiere, sitar, zither; Arturo Stalteri, chitarra, tastiere, flauto, violino, percussioni Massimo Buzzi, batteria.

206. Der Plan (Germania) - Geri Reig (1980). Prima fatica del gruppo elettronico pubblicata sul fatidico crinale fra Settanta e Ottanta. A conferma dei più vieti simbolismi epocali: le radici sono nobili, ma la dispersione di talento operata dalla fine dell’impegno politico (non partitico!) genera frutti insapori. Alcune tracce non mancano d’interesse (Hans und Gabi), ma la profonda lucidità metafisica dei padri è vanificata dall’attitudine verso un pop dai limiti angusti (facilmente confondibile con decine di prodotti coevi). I richiami al fascino obliquo della malattia (Ich bin Schizophren, Gefaehrliche Clowns/Manische-Depressiv), una volta naturalmente immanenti alla musica germanica kraut, non trascendono, purtroppo, il superficiale ammicco. Frank Fenstermacher, Moritz R, Pyrolator, elettronica.

207. John Lennon/Plastic Ono Band (Gran Bretagna) - John Lennon/Plastic Ono Band (1970). Il White album dei Beatles senza l’ingombro di Harrison e McCartney. Coesistono l’afflato populista di Power to the people e Working class hero, prodotti DOC come Well well well e Love, song scorticate dal rock come Do the Oz, ciarpame glicemico, ma anche eccezionali estroversioni come God e Mother, suoi indiscussi vertici compositivi. Yoko Ono, come di consueto, non fa nulla, si accaparra meriti non suoi e sovraintende al tutto dietro le quinte, con impassibile e manipolatore sadismo levantino. Doveroso l’ascolto, anche per i detrattori dei Bitolz. John Lennon, voce, chitarra, tastiere; Yoko Ono, fiati; Klaus Voormann, basso; Ringo Starr, batteria.

domenica 16 marzo 2014

Nine Inch Nails - The downward spiral (1994; deluxe ed. 2004) 1^ parte/2^ parte


Questo è un ottimo album.
Gustato nell'edizione deluxe aggiunge, al piacere dell'ascolto, la piena soddisfazione dell'ansia da completezza.
Eraser è eccezionale, e così almeno la metà dei brani (The downward spiral, Hurt); l'elettronica straziata si piega a mostrare il dolore del mondo postmoderno, asettico e anempatico. Perfetto.
Solo mi chiedo: non sarà che tale classificazione critica, assurta a luogo comune, surclassi la nostra considerazione estetica?
Mi spiego meglio: non sarà che ogni volta che s'incontra industrial music di tal fatta, accelerata o rallentata psicopaticamente, improvvisamente urlata, irta di strappi, risonante di clangori, si sia istintivamente portati (sulla scorta del giudizio precedente) a parlare di prodotto rimarchevole? Pur in assenza di qualsivoglia qualità artistica.
Non sarà, insomma, che il concetto faccia premio sulla semplice bellezza delle tracce?
L'arte postmoderna, ad esempio, si regge su tale patto fra autore e fruitore. Prendiamo un caso preclare: la merda d'artista di Piero Manzoni. Manzoni defecò in novanta barattoli; li numerò; li espose; li vendette. Il patto era: in tal modo io significo la mercificazione dell'artista; oppure la creazione profonda dell'artista; oppure la provocazione insana; o la stupidità del compratore; o del critico; o la fine dell'arte in quanto tale.
Una ridda di interpretazioni si scatenarono: duchampiano, neodadaista et cetera. Ciò che era quello che era (merda in una scatoletta di alluminio), divenne, grazie alla mediazione concettuale, qualcosa d'altro: arte insomma, degna di considerazione estetica, gonfia di sottintesi metaforici, venerabile persino; e foriera di bei soldi, alla fin fine.
Nessuno a chiedersi: tale oggetto che si sottopone al mio giudizio è o non è bello?
E spesso anche noi ci cadiamo: allettati dall'aura maledettista di un disco, sedotti dalla sua qualità apocalittica, inebriati dalle folate millenariste ritmate da instancabili percussioni sataniche, finiamo per accettare prodotti francamente inascoltabili.
Non è il caso di Trent Reznor e compagnia, s'intende.

giovedì 13 marzo 2014

Out of Blue - Sulle tracce di Ulisse (benvenuti al Sud)


Naviganti raminghi tra Mediterraneo e Mali.
Imbarchiamo un altro naufrago, e non potevamo farne a meno: Bart, autore di Viaggiatori nella Notte e curatore del blog Dustyroad. Amico – virtuale, ma molto meno di altri in cane ed ossa – di vecchia data.
Attenzione: qui non è luogo di elogi ad Eric Clapton o elegie per B.B. King; qui sono banditi l’accademismo e lo storicismo.

Contributi di:

Evil Monkey

Massimiliano Manocchia

Vlad

Bartolo Federico

immagine di copertina a cura di Mr. Hyde

* * * * *

Bart: Il blues è refrattario come gli anarchici.
Nella scrittura, duri e puri, lo sono stati Cèline, Bukowski.
Nella musica, Captain Beefheart è quello che, tramite la ruvidità del blues, ha mostrato al mondo il suo delirio interiore. Per questi artisti potete usare qualunque aggettivo, insolenti, provocatori, eccessivi, geniali, vedrete che gli calzerà a pennello.
Il blues è l’uomo nella sua reale miseria. Qualunque essa sia.
È la sua reazione a quello stato che non sopporta più, che genera il blues. Il blues non è la lista della spesa, i buoni o i cattivi, il bianco o il nero. Il blues è la desolazione senza sbocco, il sapere che nessuno oltre te, può fare qualcosa per la propria esistenza. Per questo il blues non è di sinistra. Come invece hanno cercato di farci intendere i critici musicali di quell’area politica, mettendone in risalto solo la condizione sociale, da cui scaturiva. Il blues si è sempre abbeverato nella disperazione, nel pessimismo. Il blues è abdicazione al potere. Il blues non è rivoltoso. Chi lo ha pensato si è sbagliato di grosso. Un tempo ho fatto anch’io questo errore. Può arrivare da qualunque parte, il blues. Ma chi lo canta ha bisogno di cose materiali, ha bisogni veri. Perché è in quel momento che ha cessato di essere rispettabile all’occhio del mondo. Il blues del Delta è musica pura, di uomini puri, che ancora non si sono massificati, perché suonavano se stessi. A quel tempo il blues era tutto istinto. E l’istinto è poesia. Almeno per quanto mi riguarda. Poi il blues come ogni cosa che cammina, è diventato qualcos’altro. Ma non sta a me giudicare.
Safe As Milk, ha dentro di se quella purezza primordiale.

E.M.: Cosa c’è veramente di primordiale nel blues?
Ripenso ad Ulisse, a Schwingungen degli Ash RaTempel; e ad una riga scrittami da Mr. Hyde per mail “Mi sono lasciato suggestionare da Omero e dai contenuti 'blues' dell'Odissea, il girovagare, le donne, il vino e il loto”.
A suo tempo scrissi qualcosa sul disco degli Ash RaTempel:
“Quando la melodia getta finalmente l'ancora, i naufraghi del cosmo trovano la loro casa. Una voce suadente, fascinosa, carezzevole; che non è più il subdolo canto della Canzone delle Sirene di Buckley, ma la melodia che Odisseo udì appena poggiato il piede sulla spiaggia sassosa di Itaca.
Il canto di casa.”
Empatia?
Allora, quanto è “blues” questa Odissea? C’è il vagabondare: con una meta, ma senza una strada. C’è una donna da ritrovare, che lungo il percorso però viene tradita, perché le circostanze sono forti e la carne eternamente debole. C’è il vino, c’è l’oblio, i compagni di viaggio.
Eppure faccio un’enorme fatica ad associare in qualche modo la mitologia classica alla mitologia blues, che affonda le radici in un passato molto più prossimo e in un territorio che tutt’al più può essere quello del bacino del Congo, piuttosto che del Mediterraneo.
Non è la “primordialità” di Odisseo la stessa del blues, con buona pace di Tales Of Brave Ulysses dei Cream, una minima coincidenza puramente accidentale.
Forse è primordiale per tecnologia (o non tecnologia), anzi forse è quel suo essere intrinsecamente anti tecnologico.
O magari è primordiale nella voce, nella forma più che nei contenuti, nell’espressione, nel lessico con la sua fissità da fossile vivente.
O forse abbiamo solo scelto l’Ulisse sbagliato.(Massi gradirà questo assist…)
E poi c’è una cosa che vorrei sapere da Bart: è possibile un blues svincolato dal “sud”?
Di qualunque “sud” si tratti: geografico, politico, sociale. Dovunque si trovi.
South Side Blues Jam di Junior Wells suonerebbe altrettanto bene come North Side Blues Jam?
Il profondo “sud del Sud dei santi”.
E’ lì che nasce tutto, anche nella nostra piccola penisola?

Bart: Il blues ha tempi lenti, dilatati. A dispetto dei suoi esecutori, si muove poco è pigro, sonnecchia svogliato di fronte alla palude, o al grande fiume, o scrutando il mare. È nelle corde di chi nasce, dimenticato dal mondo nei luoghi dove il tempo sembra non esistere, dove tutto viene rimandato a dopo, dove non c’è molto da fare, che il blues è nato. Nella polvere del sud, nelle comunità rurali della gente di colore. Il nord è solo la terra promessa. Dove c’è lavoro pagato per tutti (una volta)…
“Il blues è nato nei campi di cotone dove si lavorava duro e il padrone non pagava”. (Sonny Terry)
Il blues per come lo sento nella mia anima, resta ancorato ai paesaggi, ai colori, alle sensazioni, che solo il sud possiede. Poi è possibile anche un blues fuori da quei luoghi. Certo che è possibile. Ma suona in un altro modo. E’ un'altra cosa.  Vlad la scorsa volta ha fatto la differenziazione tra quello che per lui è blues, è quello che non lo è. Parlava in prevalenza di bianchi, se non erro. Ma chi è più blues tra: Blind Willie Mctell, e Sleepy John Estes?
Il blues del delta è musica ostica ,difficile da digerire, non è adatta al mercato radiofonico. Non tutti hanno la pazienza di ascoltare quei suoni sghembi, ossessivi, che non seguono alcun tempo,e vanno a ruota libera. Quando si parla di blues, si parla sempre del blues elettrico, per giunta fatto dai bianchi. Ma quella è la Musica Blues. Non è il Blues. Il blues tradizionale non si può trascrivere, è strano, dopo tre pezzi ti rompi i coglioni. Certo se non c’erano i musicisti bianchi, anche Robert Johnson non sarebbe diventato una leggenda. Ma quanti fruitori di musica hanno davvero ascoltato Robert Johnson? Il blues tradizionale è quello meno conosciuto, il più declassato.
Per questo è nato Dustyroad. Scrivo i miei racconti con la speranza che chi legge, si possa innamorare di quei pezzenti, e andare anche per un solo attimo ad ascoltarli. Il mio compito è questo. In nome del Blues. Del sud.

Massi: Eccome se gradisco l’assist, caro Evil. Vorrei prima però soffermarmi su un’affermazione di Bart che trovo tanto sorprendente quanto vera: “[…] il blues non è di sinistra.” Sorprendente perché va senza dubbio contro corrente rispetto alla convenzione (o luogo comune) che vorrebbe la cultura appannaggio della sinistra; vera perché se oggi, nel 2014, siamo ancora qui a parlare di blues - e non, ad esempio, di ragtime o di twist - la ragione va forse ricercata proprio in quel suo non essere ideologico che lo rende universale: pur mutando, o meglio, proprio in virtù della sua capacità di mutare, il blues va nutrendosi della propria continuità, della propria “adattabilità” al momento, ben lontano dalle banalizzazioni modaiole del carpe diem o da certo “compassionismo” estetico, tanto in voga in una società come la nostra dove il politically correct è ancora d’obbligo. Il bluesman – il vero bluesman, intendo – se ne fotte del politically correct e se ne fotte anche della legge. Cito ancora Bart: “Il blues è l’uomo nella sua reale miseria. Qualunque essa sia.”
Ed è qui che raccolgo l’assist fornitomi da Evil per spostarmi su un terreno che mi è caro tanto quanto quello della musica: la letteratura.
Splendide le suggestioni omeriche di Mr. Hyde, e forse il collegamento tra “mitologia classica” e “mitologia blues” potrebbe trovarsi in quello che ritengo essere il libro più importante del Novecento e che delle peregrinazioni di Ulisse dà una lettura parodistica, ricostruendo in chiave modernista l’intera epopea omerica. Una delle innumerevoli chiavi di lettura di Ulysses è il neanche troppo velato sberleffo al vittoriano “eccesso di civiltà.” Mr Bloom è un outsider, è l’eroe moderno colto “nella sua reale miseria.” Umana, aggiungo io. Joyce recupera un mito classico (quello, appunto, di Ulisse), ne decostruisce l’ellenicità e lo trasforma - parodiando un altro mito, quello dell’ebreo errante - nell’eroe moderno. Lo sottopone a continue umiliazioni, sfide e derisioni; lo colloca in situazioni complicate e fastidiose; ce lo mostra nei suoi momenti più vulnerabili, umani, ordinari (mentre defeca leggendo il giornale, ad esempio) e ci regala il flusso costante dei suoi pensieri, guidati dal bordone di una malinconia incessante e, a tratti, dolcissima. Come il suo creatore, ebreo di origini ungheresi in terra d’Irlanda, Mr Bloom è un esiliato in patria. I continui richiami alla fascinazione per l’oriente nei suoi monologhi hanno la stessa profondissima essenza delle “lamentazioni” del delta del Mississippi.
Costretto a soffrire il trauma emotivo e psicologico del tradimento della moglie, dell’antisemitismo, di un’esistenza vissuta ai margini della società, Mr Bloom sostituisce lo stoicismo greco con l’umana imperfezione. Joyce ne dettaglia le più banali attività quotidiane e mette in evidenza, talvolta con tocco di compiaciuto feticismo, peccati e tabù dell’essere umano: defecazione, minzione, golosità, masturbazione, voyeurismo, alcolismo, sadomasochismo, ecc.
Se – in aggiunta a quanto teorizzato nelle precedenti conversazioni – il blues è anche uno stato d’animo, allora Mr. Bloom è uno dei personaggi più blues di sempre.
Non credo sia possibile un blues “svincolato dal sud,” se per “sud” intendiamo i confini connotativi tracciati in precedenza da Vlad, e condivido l’acutissima distinzione di Bart tra “blues” e “musica blues” (bellissimo tema, peraltro, da sviluppare); tuttavia un blues iperboreo è possibile, ma sarà sempre derivativo, e gli Ash Ra Tempel sono lì a dimostrarlo.
Alla stregua dell’apprendista che, all’inizio del suo percorso iniziatico, viene posto davanti al bivio tra “via umida” e “via secca”, Il blues(man) rappresenta l’eterno dubbio dell’uomo che non ha ancora deciso se seguire il “canto di casa” o lasciarsi avvolgere nel dolce oblio del “canto delle sirene.”

Vlad: il blues non è di sinistra. Bene. Il blues non è rivoltoso, non è di sinistra. Non è attivo. Son d’accordo: infatti appartiene a chi ha già perso. Come ho già detto: si cerca di riguadagnare la propria patria (la propria cultura) nelle terre del vincitore; spesso con gli strumenti stessi del vincitore. I canti di guerra non sono blues; le trombe dell’attacco di cavalleria nemmeno; gli inni di vittoria neanche. Al blues appartiene la sconfitta, inevitabile. In un certo senso: il blues si crogiola nella sconfitta e nell’elegia; non gli è indifferente, tuttavia, lo sberleffo per il vincitore.
Blues e sud. Nei limiti tracciati sopra: se al blues appartiene la sconfitta, per Sud occorre intendere gli sconfitti, gli esiliati, gli immigrati, i senza patria. I nordici emigrati a Pittsburgh avevano i loro canti di lavoro blues: erano Sud anch’essi. Andrew Kurely (operaio slovacco immigrato autore di American land) è Sud e blues; i Blues Brothers no. Andrew Kurely, come Robert Johnson, è blues; i Blues Brothers fanno musica blues.
Odisseo. Ulisse alla corte di Circe o di Nausicaa ha improvvisato sicuramente canti blues. Ne ho la certezza. Appena rientrato a Itaca avrà deposto l’elegia e cantato un inno di guerra: era a casa, infatti.
I Greci, distrutti dall’economia di rapina, esiliati in patria, suoneranno blues. Presto intoneremo blues anche noi.
A margine di Odisseo. C’è un libercolo interessante in giro: Felice Vinci, Omero nel Baltico. Più che un libro è una affascinante congettura. In esso l’autore ipotizza che l’Iliade e l’Odissea fossero originariamente ambientate nella regione baltica (Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia) e quindi, dopo la migrazione dei popoli nordici verso il Sud (lungo le direttrici dei fiumi russi), riadattate al contesto mediterraneo. Omero sarebbe, perciò, un bluesman situato a Sud che rimpiange elegiacamente il Nord; e in tal caso il Nord sarebbe davvero un Sud.
Una proposta: considerare il blues come l’elegia cantata dei poveri, dei diseredati, dei senza patria, dei nostalgici. Dei sudisti dell’anima.

PLAYLIST

Captain Beefheart & His Magic Band - Safe as milk (1967)
Cream - Tales of brave Ulysses da Disraeli gears (1967)
Junior Wells - South side blues jam (1970)

mercoledì 12 marzo 2014

King Crimson - Red (1974)


Uno dei capolavori della nuova frontiera Crimson. 
Come accade nei primi due lavori del gruppo il primo brano è l'epitome dell'album, e ne racchiude il significato profondo, mentre il secondo addolcisce la carica eversiva con un soffice romanticismo abbastanza comune nel primo progressive inglese.
Red, la prima traccia, è quasi inclassificabile; se ne avverte, al di là dell'irruenza e dell'empito strumentale, la potenza nichilista. Il suono è aspro, ma come può esserlo un'entità postmoderna, a mezzo fra macchina e umano: i Crimson si configurano quale power trio del nuovo millennio (dopo il licenziamento di Cross erano, di fatto, ridotti a tre: Robert Fripp alla chitarra; John Wetton alla voce e al basso e Bill Bruford alla batteria), come se l'hard rock dei primi Settanta fosse stato razionalizzato e reso alieno dal fuoco della creazione con una fredda e calcolata lobotomia.
Come detto, non manca il lato romantico e sognante (tributario della voce di Wetton); nella finale Starless i due corni dell'ispirazione convivono: sino al minuto 4'28'' domina Wetton, quindi sopravvengono gli spettrali accordi oltreumani di Fripp a gelare l'empatia: uno stillicidio che si trasforma in sarabanda e quindi riprende, nell'ultimo minuto, il tono iniziale enfatizzandolo sino a un turgore quasi epico.
Red si spinge in territori psicologici poi esplorati, con programmatica decisione, dalla no wave americana o dall'avanguardia dei Throbbing Gristle.

sabato 8 marzo 2014

Julian Cope - Japrocksampler vol. 10 (Rallizes Dénudés/Flower Travellin' Band/Blues Creation)

Blues Creation

20. Rallizes Dénudés - Yodo go-a-go-go (Flightless bird) (2006; recordings 1967-1982). Chi ha già degustato il Live ’77 e December’s black children (JPR31) sa cosa aspettarsi: lunghe jam, distorsioni parossistiche, ritmica catatonica, noise puro. Nel rigido rispetto del lo-fi e dell’anarchia filologica (l’album è un bootleg). Flames of ice, tuttavia, è notevolissima: peccato si intuisca, più che sentirsi.

19. Karuna Khyal - Alomoni 1985 (1976). Già recensito qui.

18. Flower Travellin’ Band - Made in Japan (1972). Dopo l’incendiario album di cover Anywhere (JPR28) e la non entusiasmante collaborazione con Kuni Kawachi (JPR25), i Nostri aggiustano il tiro regalandoci un piccolo capolavoro (e uno sbeffeggiamento ai Deep Purple). Dopo l’efficace blues iniziale Unaware, parte l’uno-due Give me air e Kamikaze; il giro di boa arriva con Hiroshima, picco della loro psichedelia hard; il resto del lavoro vive di conserva, ormai stabilizzato sul tono medio alto. Grandi, come di consueto, Joe (Yamanaka) e Ishima. Joe, voce; Hideki Ishima, chitarra; Jun Kozuki, basso; George Wada, batteria.

17. Blues Creation - Demon & eleven children (1971). Hard blues di conio genuino. I Black Sabbath restano l’ovvio punto di riferimento, ma l’anno di pubblicazione li esalta come complici della rocciosa ondata rock dei primi Settanta, invece di relegarli al ruolo di epigoni. Non mancano omaggi puristi (Mississippi mountain blues, pleonastica) e sdilinquimenti (One summer day), ma, nel contesto incendiario, congiurano alla riuscita dell’insieme. Preme dirlo: gruppi così in Italia, di quei tempi, non li abbiamo avuti. Grande l'eponima sarabanda finale. Merita un orecchio anche il live con Carmen Maki (JPR44)Hiromi Osawa, voce; Kazuo Takeda, chitarra; Masashi Saeki, basso; Akiyoshi Higuchi, batteria.

mercoledì 5 marzo 2014

Sonic Youth - Slaapkamers met slagroom (1997)/Anagrama (1997)/Invito al cielo (1998; with Jim O'Rourke)


I Sonic Youth inaugurano la loro label personale (SYR, Sonic Youth Records) e si concedono da subito ad un sperimentalismo piuttosto cauto, poiché già contenuto nelle premesse del cacofonico rock and roll suonato nel meraviglioso quindicennio precedente.
Slaapkamers vanta tre strumentali (a parte qualche vocalizzo di Kim Gordon su Herinneringen); il primo brano, eponimo (17'44''), è un condensato SY privo di qualunque fascinazione da forma canzone: sferragliamenti, accelerazioni ritmiche, lenti avanzamenti tintinnanti, feedback, risucchi elettrici, reiterazioni. Teen age riot senza il rock, insomma.
Anagrama conferma la scelta estetica del precedente: ancora quattro strumentali in cui risalta l'ipnotica cantilena schizoide Tremens.
La svolta arriva con l'ingresso nel gruppo (Thurston Moore, chitarra; Lee Ranaldo, chitarra; Kim Gordon, basso; Steve Shelley, batteria) di Jim O'Rourke che traghetta i Nostri verso le lande del pieno post rock: Invito al cielo (20'56'') annega i fraseggi chitarristici che ancora residuavano dai precedenti due EPs in un oscuro fondale d'avanguardia; Radio Amatoroy (29'24'') vanta una progressione noise ascrivibile con sicurezza al nuovo arrivato.

domenica 2 marzo 2014

Karuna Khyal - Alomoni 1985 (1974)


Perfetto stile nipponico. Pseudonimo (Takahashi Yoshihiro), nessuna menzione dei musicisti (il Nostro dovrebbe essere un cuoco autarchico), edizioni introvabili, ristampe in capo al mondo, unico disco pubblicato, mistero biografico et cetera.
Due tracce anonime (24'35''; 22'58'') perse nelle more della storia. Mentre qui si cominciava, timidamente, ad ascoltare Captain Beefheart (in attesa della glorificazione artistica postuma), un tizio che conoscevano in dieci elargiva questa follia.
I due brani sono, in realtà, collages in cui si avverte lo scarto brutale d'ispirazione: Alomoni 1985 part 1 parte lenta con una nenia blues nipponica che precipita d'improvviso in un incedere ossessivo e postmoderno, allietato da una slide ipnotica e da un'armonica da finis terrae ... chissà cosa ne avrebbe pensato il Capitano ... quindi il silenzio; ma la musica riprende subito, inopinatamente, addentrandosi nei territori dell'avanguardia: una sorta d'inquietante psychedelic-space; il filo si rompe ancora: si ritorna al blues iniziale annientato da tape-loops e dalla consueta, rugginosa novena vocale.
Alomoni 1985 part 2 si avvale ancora di tape-loops grattugiati, spetezzi fiatistici: una voce maledice da fondocampo; il finale si concede un saturnale selvaggio, una danza psych-blues in cui la reiterazione entra in parallelo colle nostre pulsazioni vitali.
Sembra (sembra!) che questi scriteriati siano anche gli artefici, come Brast Burn, del coevo Debon (che ha l'onore d'apparire sia nella Nurse With Wound list al numero 44 che nel Japrocksampler al numero 26). 
Due gioiellini scivolati nelle pieghe del tempo e della considerazione. Da rivalutare.