mercoledì 30 novembre 2011

Mi Ami - Watersports (2009)/Steal your face (2010)


I Mi Ami, da San Francisco, nascono dalle ceneri dei Black Eyes (il bassista Jacob Long), con l'aggiunta di Daniel Martin-McCormick (voce, chitarra) e di Damon Palermo (batteria).
Un tempo – in un tempo felice per i poveri di spirito – i Mi Ami sarebbero stati catalogati come crossover, incrocio di generi diversi, quando il richiamo ad un genere ancora garantiva la significazione e la comprensibilità. Oggi, perse di vista le bussole orientative (una critica autorevole e riconosciuta come tale, i poli magnetici anglosassoni, i ruoli strumentali definiti ...), si è costretti, per rendere conto al lettore della complessità dei richiami sonori, ad una serie di rimandi che, spesso, rendono il garbuglio ancor più inestricabile; non sempre, infatti, chi legge ha ben presente le sonorità a cui viene indirizzato, per tacere poi delle citazioni mentula canis tra sfoggio esibizionista e provocazione.
Pop Group, Jah Wobble, Contortions sono i vati cui si ricorre per dar ragione dei Mi Ami: il basso pulsante e quasi funky di Long, le percussioni di Palermo, tribali o trottanti, la nervosissima chitarra e il falsetto isterico di McCormick (versione maschile di Yasuko Onuki dei Melt Banana) sfociano negli eccitati quadretti di Watersports, in special modo nei primi cinque pezzi (tra cui rilevano The man in your house ed Echononecho); negli ultimi due, Peacetalks downer e White wife, anche in virtù anche della lunghezza (otto-nove minuti), la frenesia viene attutita e la iniziale carica galvanica, pur conservandosi integra, rimane sottotraccia: sono i momenti migliori del disco.
Steal your face non fa che confermare tale dicotomia: Harmonics, Latin lover, Secrets tengono altissimi i ritmi esacerbati dalla vocalità di McCormick, ma sono la sinuosa Dreamers (8'07'', col cangiante tam tam di Palermo) e la tiratissima Slow (8'44'', in cui la linea della chitarra, abbandonati gli spasmi elettrici di prima, può quasi formalizzarsi in assoli canonici) a rubare la scena.

Presto per ritagliare ai Mi Ami un ruolo preciso nelle gerarchie anche recenti: molte promesse e molti primi ascolti entusiasti svaporano in fretta; l’esordio e il subitaneo seguito sono, tuttavia, davvero rimarchevoli.

martedì 29 novembre 2011

Peter Frohmader - Homunculus (1987-1988)


Peter Frohmader, tedesco di Monaco, ci consegna con Homunculus, strutturato in quattro sinfonie permeate di elettronica, uno dei vertici della propria produzione.
Già dal titolo affiorano i toni gotici e perturbanti propri del compositore germanico: l’homunculus, essere asessuato ed umanoide, dalle parvenze di feto e dotato di poteri sovrannaturali, è una creazione alchemica. Lo stesso Paracelso (1493-1541), in una sua opera, ne descrive il processo di realizzazione; lui stesso fu ritenuto il fattore d’una di queste entità ch’egli custodiva in un’ampolla nutrendola di sangue umano (Frohmader è anche pittore, seguace dello svizzero H.R. Giger, disegnatore di Alien, e dei rinascimentali tedeschi come Bosch e Grünewald).
Q
uesto richiamo ad un sapere premoderno è l’unico tratto in comune con la produzione dei Lightwave: mentre i francesi dipanano lentamente le proprie atmosfere avvolgenti, la musica di Frohmader, infatti, continuamente cangiante, vive di incessanti trasformazioni generate dai vari strumenti, dai cori e dall’uso dei droni; in 1 (22’44’’), ad esempio, gli interventi del piano e del flauto, l’inquietudine delle tastiere, il breve irrompere delle percussioni, si succedono senza soluzione di continuità garantendo, paradossalmente, nonostante l’assenza di qualsivoglia indugio meditativo, una convincente unità emozionale all’insieme.

A
nche in 2 (22’14’’) l’iniziale aria di soprano viene ben presto prevaricata dalla minacciosità delle tastiere ed infine dileguata dall’attacco deciso della batteria che cede il posto, a metà del brano, nuovamente ai tappeti elettronici, con motivi insistiti e ripetuti, sottolineati dagli archi; il sottofondo finale è incupito da brandelli di motivi di pianoforte, echi arcani, sgocciolii tastieristici.

3
(24’03’’) vive delle medesime trasmutazioni: l’iniziale accenno di melodia, pesantemente scandita, genera un breve intervento di chitarra che annega gradatamente nel clangore dei droni elettronici su cui, inopinatamente, a due terzi del brano, galleggiano i gargarismi d’un sassofono. 4 (24’00’’) dà prova, ancora una volta, del virtuosismo di Frohmader: come le schiere degli storni, formate da centinaia di animali, si infittiscono per creare affascinanti geometrie aeree, per poi disperdersi improvvisamente solo allo scopo di riorganizzare nuove figure, così la musica del compositore di Monaco vive della propria interna mercurialità.

È impossibile riuscire a rendere con la parola scritta la complessità di queste orchestrazioni, notturni inquietanti e rapsodici.

domenica 27 novembre 2011

Genesis - BBC live sessions 1970-1971/1972


22.02.1970 (broadcast 01.04.1970; Maida Vale 4; Night Ride; Gabriel, Rutherford, Banks, Phillips, Mayhew) 

- The Shepherd
- Pacidy
- Let Us Now Make Love
- Stagnation
- Looking for Someone
- Dusk
 


10.05.1971 (Studio T1; Sounds of the Seventies; Gabriel, Rutherford, Banks, Hackett, Collins) 

- The Musical Box
- Stagnation
 

09.01.1972 (broadcast 28.01.1972 except Harlequin 17.03.1972 and Harold the Barrel (mix 2) + The Fountain of Salmacis 14.03.2008; Studio T1; Sounds of the Seventies; Gabriel, Rutherford, Banks, Hackett, Collins) 

- The Return of the Giant Hogweed
- Harold the Barrel
- The Fountain of Salmacis
- Harlequin
- Harold the Barrel (mix 2)
 


02.03.1972 (Paris Theatre; BBC in Concert; Gabriel, Rutherford, Banks, Hackett, Collins) 

- The fountain of Salmacis
- The Musical Box
- The Return of the Giant Hogweed
 


25.09.1972 (broadcast 07.11.1972; Studio T1; Top Gear; Gabriel, Rutherford, Banks, Hackett, Collins)

- Watcher of the SKies
- Twilight Alehouse
- Get 'em Out by Friday


sabato 26 novembre 2011

Amerika über Alles - Punk hardcore 1980-1983 (9 compilations)

L'incendio hardcore negli Stati dell'Unione con varie gradazioni di calore: la California è l'epicentro





Scrive Steven Blush nel fondamentale American punk hardcore: "L'hardcore è stata la risposta dell'America dei sobborghi alla rivoluzione punk di fine anni Settanta ... [che] gettava nel cesso la cultura rock dominante. L'unica regola vigente era quella di infrangere sempre le regole ... [poi] le major hanno inventato una versione annacquata del punk, smerciata sotto l'etichetta new wave, in modo da ammorbidirne l'immagine per il consumo di massa ... [finché] è arrivata una generazione di adolescenti stanchi che volevano il furore del punk senza la zavorra da accademia d'arte della new wave. Erano stati gettati i semi dell'hardcore". 
Si può essere d'accordo sulla nascita del genere, pur tratteggiata a grandi linee; ma Blush non spiega perché, nel breve volgere di un lustro, quei pochi adolescenti stanchi, stimolati dai focherelli inglesi, si diedero ad appiccare roghi devastanti nella nazione dove la felicità è garantita dalla Costituzione. Quale elemento favorì questa rapida e devastante combustione? La sconfitta degli ideali dei Settanta, la brutale competizione sociale, lo smantellamento reaganiano del welfare, il militarismo, la propaganda dei media mainstream alleati col conformismo più soffocante riuscirono, forse, a coagulare, seppur fugacemente, il frontismo latente in parte della società. Asociali, fricchettoni, agitatori politici, provocatori, snob, demagoghi, semplici goliardi (tutti giovanissimi), trovarono in uno stile aspro ed elementale il mezzo per dire no. Come Bartleby: I would prefer not to.
Una moltitudine di kids, eterogenea, presentì, in modo immediato e apolitico, l'ingiustizia profonda del sistema americano che tende ad espellere i non allineati come lebbrosi; la risposta può essere condensata nell'icastico "They hate us, we hate them". Non mancarono modaioli, pagliacci, epigoni dell'ultima ora, ma l'ondata fu inarrestabile come il ballo di San Vito nel Medioevo: durò circa sei anni, 1980-1986, il tempo dei Black Flag, anche se notevole fu il primo triennio; il riflusso lasciò sulla battigia, come dopo un naufragio epocale, rifiuti e relitti di valore, bizzarre conchiglie, mostri marini, reperti scheggiati di indecifrabile provenienza. Centinaia di gruppi improvvisati nacquero in pochi mesi lasciando una discografia sterminata che attende, almeno da noi, una filologia accurata: a volte gruppi dignitosi incisero semplici 7'' o, addirittura, lasciarono traccia solo su bootleg. Molti di noi hanno sicuramente ascoltato Dead Kennedys o Misfits, ma già Saccharine Trust e Adolescents dicono poco ad alcuni; Secret Hate, Rejectors, Silly Killers, Fu's dicono quasi niente a parecchi. Lo stile hardcore, a differenza del melodismo inglese, fu sguaiato, ruvido ed offensivo. Urtante. Molti musicisti non sapevano da che parte tenere la chitarra, Henry Rollins era un gelataio; le loro produzioni furono miserabili, i tour portati avanti tra debiti, privazioni e pestaggi. Fu vera controcultura e, per questo è doveroso ascoltarli con attenzione, nella loro totalità: perché la critica è continua risistemazione estetica del passato; occorre scavare, riconsiderare, svalutare, sottolineare, in alcuni casi dimenticare e, in vista di ciò, sentire TUTTO (non tutti i generi, proprio TUTTO).
Per sturare propedeuticamente le orecchie ecco dieci compilazioni di varia natura, che coprono la scena da Ovest a Est. In seguito si cercherà di creare una compilazione che inglobi TUTTE le band stato per stato.
Buon ascolto.

 

giovedì 24 novembre 2011

Hash Jar Tempo – Well oiled (1997)/Under glass (1999)


Incontro tra Robert Montgomery e i Bardo Pond, Hash Jar Tempo è il progetto più puro della moderna psichedelia e, sicuramente, uno dei più audaci tentativi di creare un suono universale attraverso gli strumenti propri della musica rock.
Le sette improvvisazioni strumentali di Well oiled, giustamente senza titolo, sono episodi indefinibili in cui le chitarre disegnano panorami ricchi di echi, riverberi, feedback - panorami sostanzialmente immutabili: solo l’uso della batteria, come di consueto, imprime un moto e una direzione e, in questo senso, una finalità classica alle composizioni (finalità lineare, occidentale); negli episodi sostanziati dalle sole chitarre (specialmente 3, 5, 7), invece, i Nostri raggiungono eccezionali punte di astrazione psichedelica; si può davvero parlare di suono cosmico ovvero del rendiconto sonoro d’uno stato psichico in cui l’anima individuale rifluisce nell’universo, vi si immedesima e può contemplare misticamente la totalità in cui non sussiste più né moto né successione temporale. In questo senso gli Hash Jar Tempo sono davvero figli dei Bardo Pond (a differenza di Subarachnoid Space e Doldrums) e degli episodi maggiori del loro Bufo alvarius*: d’altronde il sostantivo bardo rimanda esplicitamente alla negazioni buddiste del reale a favore dell’esperienza di un mondo fantasmagorico sospeso fra vita e morte di cui si parlò a proposito di Transmigration dei Voice of Eye. Non solo, ma il successivo Under glass conferma anche la visione musicale di Robert Montgomery, delineata nell’album This is not a dream: l’australiano, infatti, cercava in quell’opera di ricreare atmosfere fluttuanti ed oniriche e, in vista di ciò, egli alterava sapientemente ogni traccia sino a renderla indefinita come una figura scorta attraverso le smerigliature d’un cristallo: figura, quindi, (e musica) percepita come nello stato di sonno. Non è meraviglia, quindi, che il secondo lavoro degli Hash Jar Tempo si intitoli in tal modo: d’altra parte le esperienze ultraterrene del Bardo Thodol non sono forse fallaci ed evanescenti come sogni?
Anche in Under glass le percussioni sono ridotte alla sottolineatura essenziale** (quasi rituale) come nelle straordinarie Atropine e Präludium und Fuge. A prevalere è il groviglio elettrico ordito dai chitarristi (Gibbons e Montgomery) attorno alla cui massa ruotano assoli e feedback la cui risultante, come detto, è quella di indurre ad una sensazione di stasi nonostante le incessanti, ma ingannevoli progressioni strumentali. Un grado stazionario della musica che aspira a riprodurre l’eternità e l’immutabilità.
           
* Bufo Alvarius e Well oiled furono registrati nello stesso anno.
** Lo stesso vale per le tastiere.


mercoledì 23 novembre 2011

Gentle Giant - BBC live sessions 1970-1973/1974-1978


21.07.1970 (broadcast 17.08.1970; ?; D. Shulman, P. Shulman, R. Shulman. Green, Minear, Mortimer) 

- City Hermit
- Isn't It Quiet and Cold


12.12.1971 (broadcast 07.01.1972 except Funny Ways 04.02.1972; Studio T1; D. Shulman, P. Shulman, R. Shulman. Green, Minear, Mortimer) 

- Alucard
- Plain Truth
- Giant
- Funny Ways
 


13.06.1972 (broadcast 14.07.1972; Studio T1; D. Shulman, P. Shulman, R. Shulman. Green, Minear, Mortimer) 

- Mr. Class and Quality
- Prologue
- Schooldays
 


08.08.1972 (broadcast 05.09.1972; Maida Vale 4; D. Shulman, P. Shulman, R. Shulman. Green, Minear, Mortimer) 

- Funny Ways
- Plain Truth
- The Advent of Panurge
 


11.12.1972 (broadcast 14.12.1972; Langham 1; D. Shulman, P. Shulman, R. Shulman. Green, Minear, Mortimer) 

- Prologue
- The Advent of Panurge
- Cry for Everyone
 


28.08.1973 (broadcast 28.09.1973; D. Shulman, P. Shulman?, R. Shulman. Green, Minear, Mortimer) 

- DJ's Presentation
- The Advent of Panurge
- Way of Life
- The Runaway
 

16.11.1973 (broadcast 08.12.1973; Golders Green Hippodrome; D. Shulman, R. Shulman. Green, Minear, Mortimer) 

- Introduction
- Way of Life
- Funny Ways
- Nothing at All
- Octopus (Excerpts)
 


04.12.1973 (broadcast 08.01.1974; Langham 1; D. Shulman, R. Shulman. Green, Minear, Mortimer)

- Octopus (excerpts)
- Way of Life
 


10.12.1974 (broadcast 17.12.1974; ?; D. Shulman,R. Shulman. Green, Minear, Mortimer) 

- Proclamation
- Experience
- Aspirations
- Cogs in Cogs
 


16.09.1975 (broadcast 13.10.1975; Maida Vale 4; D. Shulman, R. Shulman. Green, Minear, Mortimer) 

- Just the Same
- Free Hand
- On Reflection
 


05.01.1978 (broadcast 21.01.1978; Golders Green Hippodrome; D. Shulman, R. Shulman. Green, Minear, Mortimer) 

- Introduction
- Two Weeks in Spain
- Free Hand
- On Reflection
- I'm Turning Around
- Just the Same
- Playing the Game
- Memories of Old Days
- Betcha Thought We Couldn't Do It
- Special Presentation by John P.Weathers
- Funny Ways
- For Nobody
- Mountain Tim


lunedì 21 novembre 2011

Timothy Leary & Ash Ra Tempel - Seven up (1972)


Ultimo capitolo della trilogia ordita da Rolf-Ulrich Kaiser, Seven up* si avvale della voce narrante di Timothy Leary (1920-1996) ripetendo, in tal modo, la struttura di Tarot e di Lord Krishna von Goloka, coi recitativi, rispettivamente, di Walter Wegmüller e Sergius Golowin. In virtù della personalità coinvolta, il disco, al netto delle benemerenze musicali, diviene paradigmatico di certi aspetti della controcultura di quegli anni.
Turn on, tune in, drop out” è il pensiero di Leary ridotto in un guscio di noce; liberarsi dai vincoli fisici, accordarsi col fluire di una realtà sovraindividuale e dimenticare, per ciò stesso, i lacci sociali che impediscono una vita autentica fu il credo dello psicologo di Harvard che, consapevolmente o meno, ripercorreva i diuturni tentativi dell’uomo di emanciparsi dalla dannazione del principium individuationis: litanie, droghe, digiuni, flagellazioni furono da sempre il viatico per un annullamento delle coordinate spazio-temporali e il rifluire (attraverso il passaggio a stadi sempre più ‘evoluti’ di coscienza) in entità sovraindividuali (Dio, inconscio collettivo, verità archetipica, Nulla …). In realtà Leary, abbronzato e sorridente, col bell’aspetto da istruttore di tennis fedifrago, fu un teorizzatore mediocrissimo, quando non goffamente bislacco, e un incosciente di primo livello. Egli volgarizzò l’uso di sostanze che, svincolate da uno stretto controllo medico, finirono per distruggere (anche politicamente, poiché provocarono la reazione puritana – quindi bene accetta – del Sistema) quegli stessi aneliti di libertà che allora fiorivano spontaneamente come risposta alla massificazione in atto ed al turbocapitalismo incipiente. Di ben diverso spessore i pensieri di Albert Hofmann (1906-2008, il vero scopritore, nel 1938, della dietilamide, LSD 25**), che in un suo libretto***, con sobrietà e sensatezza, oltre a rendere conto di incontri eccellenti (Aldous Huxley, Karl Kerényi, Ernst Junger), delinea i corni del dilemma:
  1. le sostanze allucinogene vanno necessariamente assunte in modo controllato.
  2. la risposta alla sostanza varia da paziente a paziente e può sfociare in una estatica beatitudine o in un horror trip angosciante (la variazione è dovuta a fattori psicologici, il cosiddetto set, ma anche a condizioni esterne, il setting, ovvero il luogo in cui consuma l’esperienza, i volti dei partecipanti al ‘viaggio’ …). La coscienza è interazione tra soggetto ed oggetto: poiché l’acido opera a livello biochimico sul cervello, ogni essere umano altera il proprio rapporto col reale e lo fa chiuso nella propria individualità; ogni più tenue sfumatura di coscienza, quindi, può potenzialmente esperirsi con tale droga. Non esistono viaggi collettivi, ma solo personali. Ogni singola esperienza può “assumere i tratti demoniaci del puro terrore” o sprofondare nell’unione mistica col Tutto o contemplare le infinite variazioni intermedie. L’abbattimento delle barriere tra soggetto conoscente e realtà**** ci riconcilia, nell’esperienza più felice, con la Natura, la madre perduta, liberandoci dai rapporti di dominio che intratteniamo con Essa. Ne consegue la svalutazione del pensiero occidentale di origine greco-romana a favore di buddismo ed induismo (evidentissimi nella cultura lisergica).
Il che ci porta a brevi considerazioni:
  1. gli effetti della droga esaltano l’individualità, quindi sono antipolitici, disgregatori di un’azione contestatrice comune o, semplicemente, alternativa. La disfatta dei movimenti dei Sessanta è nota. Occorrerebbe una droga collettiva, ma a questo hanno pensato proprio coloro contro cui combattevano gli hippies: la propaganda pubblicitaria e mediatica è ora davvero globalizzante e totale. I pensieri, le estasi, l’immaginario, i desideri sono unici e planetari. Altro che il panteismo lisergico!
  2. Le droghe accompagnano i periodi di decadenza: esse sorgono quando decresce lo spirito sorgivo.
  3. Il decantato rifluire del soggetto nella realtà, l’unificazione del Tutto, il Nirvana lisergico, è una regressione. Durante il viaggio i sensi sono meno acuti, si prova indifferenza per il pericolo, l’attività intellettuale (ragionamento astratto, rammemorazione, capacità aritmetiche) crolla*****; come nelle esperienze di deprivazione sensoriale, si è trasportati ad un grado umano minimo – a livello di rettili sciaguattanti in pozze antidiluviane. La rinuncia alla coscienza assume, quindi, toni decadenti, antistorici, fondamentalmente quietisti, conniventi col potere, quasi ebeti******.
Sul disco c’è poco da dire: questi sono gli Ash Ra Tempel. Due composizioni: Space, che alterna inaspettate cadenze blues e le consuete smaterializzazioni sonore; Time (21’40’’), il vero capolavoro, un classico del rock tedesco, ricco di accenti arcani generati da tastiere e chitarre. Buon ascolto.
                                                  
* Forse il titolo si riferisce agli otto stadi di coscienza teorizzati da Leary a cui si poteva accedere grazie all’uso degli allucinogeni.
** Sostanza prodotta nei laboratori svizzeri Sandoz: Lysergsaüre-diäthylamid, detta LSD-25 perché venticinquesimo derivato dell’acido lisergico.
*** Albert Hofmann, LSD. Il mio bambino difficile, 2005.
**** Si cita, a tal proposito, Gottfried Benn che esecra proprio la dicotomia fra Io e Natura. Che lo stesso Benn fosse fautore dell’identificazione fra genio e pazzia (e depravazione in senso lato) è una conseguenza  del primo assunto. Se la coscienza classica, infatti, ci fossilizza e rende inautentici, qualsiasi stato mentale che diverta da essa è positivo. Lo stesso Benn, infatti, mantenne coerentemente, per tutta la vita, il proprio Io diviso tra ossequio borghese e arte, non rendendosi conto, però, della portata storica e sociale di tale disagio avvertito, con tale intensità, dalla sola classe intellettuale moderna.
***** Ugo Leonzio, Il volo magico, 1997
****** Come avvertiva Nietzsche ne La nascita della tragedia, lo scatenamento dionisiaco deve essere sempre vigilato da Apollo; col “beveraggio delle streghe” non c’è catarsi liberatoria e produzione artistica.


sabato 19 novembre 2011

Steve Roach - Dreamtime return (1998)


Steve Roach, californiano di nascita (La Mesa, nei pressi di San Diego), ci consegna con Dreamtime return uno dei maggiori capolavori di sempre della musica world. Nel disco viene supportato da Kevin Braheny e Robert Rich (tastiere e percussioni e coautori, rispettivamente, di The other side e Songline/Airtribe meets the dream ghost), da Chuck Oken, David Hudson (al didjeridoo, tradizionale strumento a fiato aborigeno) nonché, per le parti più scopertamente etniche, da Percy Trezise, studioso, come Hudson, della musica primitiva australiana.
Roach, che pervenne a Dreamtime return influenzato occasionalmente da una visione cinematografica sulla cultura aborigena*, opera non solo una ricognizione colta della mitologia del quinto continente (osservata, quindi, ab partibus infidelium), ma una discesa profondissima in essa tanto da consentirgli di ridisegnarne musicalmente la straordinaria complessità evocativa.
Gli aborigeni non hanno dei in senso classico; essi distinguono fra un passato mitico e remoto, liquido e multiforme, ove gli eroi-fondatori della stirpe (imparentati con uccelli e pesci) sancirono leggi e cerimonie, e il presente attuale. Non esiste, tuttavia, divisione netta fra i due mondi: quel tempo favoloso agisce sull’oggi ed il sogno è il punto di contatto fra di essi. Scrive Levy-Bruhl: “il mondo in cui il sogno … introduce non si distingue affatto dal tempo mitico: mondi di forze invisibili, di potenze soprannaturali; da cui dipendono ad ogni istante il benessere e l’esistenza stessa della natura e del gruppo umano*”. Il passato, un’età dell’oro favolosa e gigantesca, agisce, peraltro, non solo attraverso il sogno, porta verso il sovrannaturale e l’oltreumano, ma è sempre presente in loro ed attorno a loro come nelle pitture rupestri delle gallerie wondjina del Nord-Est australiano (vedi The magnificent gallery): tali pitture sono reputate opera degli antenati, del tempo ungud, e persistono nel presente garantendo la forza rinnovatrice della natura (in particolare della pioggia): l’uomo non può variare tali raffigurazioni, solo ritoccarle marginalmente per preservarle. Si ha così un sistema di credenze in cui l’individuo è in costante contatto con i fattori delle proprie origini e vive immerso in un presente dove le cause della realtà tutta e dei fenomeni naturali, e persino delle sue più intime cure, risiedono in un passato trasfigurato miticamente (The other side), ma partecipe delle sue sorti.
Steve Roach riesce a comunicare, in circa due ore di musica, questo incanto primitivo per cui uomini, animali e cose vivono e riposano all’ombra di un altrove magico che li sovrasta, ma, al tempo stesso, se adeguatamente riverito, li sorregge nelle asperità del quotidiano.
Il lento dipanarsi delle tastiere di Looking for safety, Australian dawn, The return o le percussioni di Airtribe, Songline e Ancient day contribuiscono alla creazione di un’imponente sinfonia elettronica che suggerisce, col tramite della più universale delle arti, un mondo altrimenti incomprensibile per la concettualità occidentale. Roach concreta miracolosamente l’unione immediata tra sovrannaturale e vita propria della cultura aborigena; in questo senso Dreamtime return è l’opera mistica di un sensibile antropologo.

* Si recò sul posto prima e dopo la registrazione dell’album.
** Lucien Lévy-Bruhl, La mitologia primitiva, 1973. I concetti di tempo lineare come successione ordinata di eventi e di gerarchie sono utili per la nostra comprensione, ma alieni alla mentalità aborigena.

venerdì 18 novembre 2011

Mermen – Food for the other fish (1994)/A glorious lethal euphoria (1995)/Songs of the cows (1996)


I Mermen, guidati dal grande chitarrista Jim Thomas (con Allen Whitman e Martyn Jones), sono un trio di San Francisco che propone pezzi strumentali largamente derivati dalla surf music a cavallo tra Cinquanta e Sessanta.
Dick Dale (la cui Misirlou fu messa nuovamente in voga da Pulp fiction), Duane Eddy e, soprattutto, il sottovalutato Link Wray, sono alla base delle loro scorribande elettriche sporcate, tuttavia, da una vena pessimistica propria dei tempi attuali.
La surf music americana era, probabilmente, la concrezione sonora di un’epoca felice e priva di dubbi (in Italia il corrispettivo sono le canzoni dei musicarelli), in cui la nazione, la parte anglosassone bianca almeno, uscita ideologicamente ed economicamente rafforzata da una guerra mondiale vittoriosa, ritrovava la propria salute e forza; proprio la messa in dubbio di tali convinzioni, con le prime sollevazioni delle Università e delle minoranze, minò le radici  ideologiche e il candore di questa età dell’oro e del movimento surf. Pet sounds dei Beach Boys segnò, simbolicamente e musicalmente, l’inizio della fine; il lentissimo degenerare della speranza di Un mercoledì da leoni di Milius (ambientato fra il 1962 ed il 1974) fu, invece, sotto le vesti di un facile romanzo di formazione, la presa d’atto cinematografica e la ratifica del dileguarsi del vero ed unico sogno americano (l’unico mai realizzato peraltro).
Food for other fish inizia la matura storia discografica dei Mermen*; con Be my noir, introdotta dal suono della risacca, si entra da subito nel loro mondo: lunghi assoli evocativi, di spiagge desolate e di tramonti rivissuti con “calor di fiamma lontana”, che, di volta in volta, si acquietano o accelerano oppure vengono sapientemente franti da Thomas con brevi spezzoni quasi noise. Raglan ed Ocean beach sono episodi monocromatici e tranquilli, ma My black bag già ruggisce con toni hard che esulano dalla consuetudine. La finale Dancing on her sleep chiude il cerchio al suono delle onde oceaniche, smorzando i toni della precedente Pull of the moon che riecheggia, nella seconda parte, le tirate psichedeliche californiane dei Sessanta.
Nello splendido A glorious lethal euphoria convivono, ancora una volta, episodi convenzionali (Drub), brucianti accelerazioni (Pulpin’ line, Lizards, la grande Blue xoam) e distese contemplazioni dell’orizzonte oceanico (Under the kou tree, With no definite future, le strazianti Obsession for men e The flowers they’ll bloom), ma sempre tarmate dalla nostalgia e da una riposta irrequietezza per il dileguarsi storico di un’epoca irrecuperabile.
Proprio l’EP Songs for the cows sarà il lavoro più indicativo di questa inclinazione: i Mermen raccoglieranno di nuovo (con l’eccezione di un pezzo, l’iniziale Curve) l’eredità formale ed ideologica della surf music, ma questa, oramai sconfitta nelle proprie credenze intime, verrà coerentemente rappresentata con toni esagitati e distorti; nonostante sia possibile rintracciare, a sprazzi, il puro tessuto originario (Meandher, Varykino show), le galoppate di Thomas, ormai prive di innocenza, sono inevitabilmente acide e furiose. Brainwash (Rumination) riecheggia il Neil Young della colonna sonora Dead man; la paradigmatica A heart with paper walls, che evoca in tono desolato gli assolati paesaggi marini della California, mostra come le composizioni dei Mermen evitino il rischio di una riproposizione retrò evolvendo, anzi, in meditazioni sulla scomparsa di un pezzo di cultura popolare e sulla fine dell’impero americano quale nuovo regno di inesausta speranza e sicura felicità.

* Essi avevano già pubblicato un disco nel 1989, Krill slippin’.

mercoledì 16 novembre 2011

Henry Cow - BBC live sessions 1971-1973/1974-1977


04.05.1971 (broadcast 29.05.1971; Top Gear; Frith, Hodgkinson, Greaves, Jenkins)

- Hieronymo's Mad Again
- Poglith Drives a Vauxhall Viva
 

28.02.1972 (broadcast 14.03.1972; Playhouse Theatre,Northumberland Avenue; Top Gear; Frith, Hodgkinson, Cutler, Greaves, G.Leigh[guest], D.Stewart[guest]) 

- I Came to See You
- Rapt in a Blanket
- Teen Beat
 

17.10.1972 (broadcast 14.11.1972; Langham 1; John Peel; Frith, Hodgkinson, Cutler, Greaves, Dj Perry[guest]) 

- With the Yellow Half Moon and Blue Star
- With the Yellow Half Moon and Blue Star (part 2)
 

24.04.1973 (broadcast 08.05.1973; Langham 1; John Peel; Frith, Hodgkinson, Cutler, Greaves, Leigh)

- Guider Tells of Silent Airborne Machine
- Nine Funerals of the Citizen King
- Bee
 

25.04.1974 (broadcast 09.05.1974; Langham 1; John Peel; Frith, Hodgkinson, Cutler, Greaves, Leigh)

- Pidgeons: Ruins/Half Awake Half Asleep/Bittern Storm Over Ulm 

25.06.1974 (broadcast 16.07.1974; Top Gear; Frith, Cutler, Leigh, Moore, Blegvad, Krause, Cooper, Clyne, Wyatt) 

Europa
Me & Parvati
A Little Something
War Is Energy Enslaved
 


02.12.1974 (?; Top Gear; Frith, Krause)

- Please Give It Back
- My Need Is Greater Than Yours
- Noise Carruthers Pure Bloody Noise
- In Which Case the Anxiety
- Narrow Road
 


05.08.1975 (broadcast 18.08.1975; Maida Vale 4; Frith, Hodgkinson, Cutler, Greaves, Cooper, Krause)

- Beautiful as the Moon Terrible as an Army With Banners
- Nirvana For Mice
- The Ottawa Song
- Gloria Gloom
- Beautiful as the Moon Terrible as an Army With Banners (Reprise)

03.12.1977 (?; Top Gear; Greaves, Blegvad

- Mostly Twins and Trios
- From the Trees to the Wheel
- Actual Frenzy



martedì 15 novembre 2011

Dead Weather - Horehound (2009)


Quando certe canaglie discografiche (o cinematografiche; taccio di altre manifestazioni artistiche) individuano una vena d’oro di considerevole valore e sostanza danno origine, come lungo la frontiere occidentali degli Stati Uniti ottocenteschi, a rapidissime new towns. Durante quegli anni leggendari, infatti, attorno alle vene aurifere sorgevano improvvisamente (in pochissimi giorni) degli agglomerati urbani popolati da predoni, disperati, truffatori, famigliole, bottegai, giocatori d’azzardo, latifondisti, banchieri – un’umanità variegata e spietata decisa a sfruttare, da subito, sino all’osso, il tesoro scoperto. Purtroppo, una volta esauritosi il metallo, le città, così rapidamente ingrossatesi, si spopolavano altrettanto repentinamente: tali centri urbani quindi, a volte demograficamente rilevanti, e spesso dotati d’una certa opulenza architettonica, si trasformavano in ghost towns destinate a polverizzarsi sotto le canicole del Nuovo Mondo (assieme ai cadaveri dei poveracci). 
Una delle tante vene d’oro individuate col bastone da rabdomante dei gonzi risiede nel blues basico (con venature stoner) di White Stripes e Kills, discreti, ma già copia palliduccia dei Jon Spencer Blues Explosion e di altri maggiori che non vale la pena di gettare nella bolgia critica. Una delle tante new towns velocemente approntata dai volponi è il supergruppo Dead Weather (il nazionalismo ed i supergruppi sono l’ultimo rifugio delle canaglie) formato dalla berciatrice Alison Mosshart (The Kills), da Jack Lawrence e Jack White (basso e batteria; Raconteurs e White Stripes) nonché da quel buon diavolaccio di Dean Fertita (chitarra; Queens of the Stone Age). A questo punto il macigno critico è in equilibrio su un crinale: o lo supera e il disco diverrà sempre più imprescindibile nella valutazione generale oppure rotolerà indietro a valle travolgendo i suoi malaccorti estimatori: una della tante branche fantasma della nuova musica anni Duemila. Non so perché, ma sento di scommettere sulla seconda ipotesi: quando la pubblicità e la moda sfacciata pompano il prodotto esso appare, malgrado tutti i nostri accorgimenti, sfavillante; quando queste si ritraggono (assieme agli apparati mediatici con esse conniventi) cosa resta di tale magnificenza? Nel disco, accanto ad episodi deprecabili (gli insopportabili I cut like a buffalo e Treat me like your mother), non mancano punte di tutto rispetto (60 feet all, So far from your weapon), ma l’impressione trasmessa è quello d’una deliberata piattezza produttiva che ha bene in vista un certo tipo di pubblico già sintonizzato su ciò che gli si vuole offrire. La serialità ed i toni plagiari son evidenti in più di un brano.
Probabilmente anche i Dead Weather, come White Stripes e gente affine (al netto di qualche brillante episodio), sono già avviati verso il binario morto dell’irrilevanza critica.

domenica 13 novembre 2011

German psychedelic underground 1968-1974 - Vol. 1 (Kraut! Demons! Kraut!)/Vol. 2 (Hungry krauts, Daddy!)/Vol. 3 (Obscured by krauts)/Vol. 4 (Kraut-bloody-rageous)


Queste quattro raccolte (denominate da distorsioni di titoli famosi ed opera personale di un meritorio blogger, cfr. http://spurensicherung.blogspot.com/, autore anche di altre belle compilazioni) offrono un variegato florilegio della psichedelia tedesca meno nota (e, finora, assai ben nascosta). Le compilazioni hanno il merito di delineare una scena secondaria (pochi i nomi noti) vivissima, e rendere, quindi, ragione della nascita dei maggiori gruppi tedeschi come Faust, Can, Popol Vuh, finora considerati separatamente da un alveo musicale, come detto, davvero fertile. 
Parte del materiale raccolto è certamente derivativo dalla scena di lingua inglese (a volte sembra di sentire cascami di lavorazione di Morrison, Led Zeppelin, Cream ...), ma le sorprese sono parecchie e, in qualche caso, lasciano presagire produzioni di notevole livello (Staff Carpenborg, ad esempio). In generale un amante dei Settanta, tra organi, chitarre fuzzy, spruzzate orientali e deviazioni bislacche ha molto da godere.
Il paragone con il panorama italiano di allora, anche rispetto a questi minori, è impietoso; per la varietà, l'intelligenza, l'apertura mentale, le capacità vocali e strumentali. Lo dico per farmi amare sempre più da (alcuni) proggaroli italiani, che passano la vita a sentire e risentire e risentire Impressioni di settembre, credendola la canzone più bella del mondo.

Volume 1: Kraut! Demons! Kraut!

01. Aero Sound - Ready for Take Off
02. Staff Carpenborg & The Electric Corona - Shummy Poor Clessford Idea in Troody Taprest Noodles

03. Margaretha Juvan & Can - I'm Hiding my Nightingale

04. Trash - Living in a Garden

05. Motherhood - Negresco #4
06. Exmagma - It's So Nice
07. Guenther Kaufmann - Our Love
08. Heart Of Blues - Smoking Takes You Faster to God
09. Jo Hamann - Give Me All Your Love
10. Checkpoint Charlie - Feeling Sad

11. Just We - Something Like It

12. Shanandoa - Dies Irae
13. Giants - He He Ho
14. Elegy - No Direction
15. Limbus 4 - Kundalini
16. Les Etoiles Filantes - Something
17. The Magic Group - Magical Land
18. Electric Sandwich - China
19. The Uncertain Midnight - Leaving the World
20. Can - Kama Sutra

21. Exmagma - Zink Tank

Volume 2: Hungry krauts, Daddy!

01. Old Lumber – Water Sprite
02. Staff Carpenborg & The Electric Corona – The Every Days Way Down to the Suburbs         

03. Hide & Seek – Crying Child

04. Sound Machine – Woman     

05. Lepra – Sesam, Sesam
06. Coram Publico – Bodensee
07. Motherhood – Negrito
08. Gash – In the Sea

09. Gottfried Von Hüngsberg – Die Insel

10. Caleidoscope Inc. – Kind of Sadness

11. Thanes – Beginning Word12. Giants – Broken Earth
13. Those – Orion 2000
14. Bokaj Retsiem – I'm So Afraid
15. Golgatha – Dies Irae
16. MG Improvisation – Improvisation #2
17. Club 13 – Elegy on the Death of a Late Famous General
18. John Bassman Group – His Name Was Tom     
19. Tuning Fork – I'm A Dreamer
20. Inner Space – Agilok and Blubbo

Volume 3: Obscured by krauts

01. Faust – Extract 7
02. Staff Carpenborg & The Electric Corona – Lightning Fires, Burning Sorrows      

03. Seffil – When to You Come, I'm Wait for You       

04. Jam – Friends     

05. Inner Space – Coitus, Ergo Sum  
06. Mother Sunday – Midnight Graveyard    
07. Blackmann Lane – Hunger    
08. Proud Flesh – Devil Flight   
09. Live Experience – Before Dead a.k.a. Cry for Betty    
10. Swinging Safari – Toccata    
11. Tyll – Tim    
12. Trafo – Auto-Bahn    
13. Yet – Try to See Her Again    
14. Anima Sound – Trinity 2     
15. Lony & The Misfits Ltd. – Birthday        
16. Tomorrow's Gift – At the Earth (Part 1)    
17. Slut – Heavy Surf Sound Blues   
18. Michael Anton & Amok – Jesus Makes You High (Part 2)        
19. The Dave Pike Set – Mathar        
20. Exmagma – Marylin F. Kennedy     
21. Trede Selection – Sound Too       
22. Dr. Timothy Leary – I'm Timothy Leary and I'm... Dead         

Volume 4: Kraut-bloody-rageous

01. The Ravers – Turn In
02. Blackbirds 2000 – Let's Do It Together       

03. Jo Hamann – Wild Woman       

04. Haboob – Israfil Part 1    

05. Big Bertha – Munich City
06. Barney Wilen & His Amazing Free Rock Band – Dear Prof. Leary
07. Cannock – Wild Man
08. The CT Four Plus – Exodus II          

09. Staff Carpenborg & The Electric Corona – Let the Thing Comin' Up       

10. Mike Lewis & Conny Plank – Voodoo Woman      
11. Drum – War Child         
12. The Speeders – I Can't Get It       
13. Karl Lenfers & Peter Janssens – Jesus and the Rockers     
14. Andorra – On my Way         
15. Jam – World Is Satisfied         
16. Don Paulin – Don't Forget to Love          
17. Tusk – Child of my Kingdom          
18. The Monks – Please, Please Love Me          
19. Can – The Million Game     
20. Al Capone – Demon's Dance         
21. Florian Schneider – Gedicht Für Den A100


sabato 12 novembre 2011

Fushitsusha - Live I (1989)/Live 1991


Anche Keiji Haino, qui nell’ulteriore mascheramento Fushitsusha (1989-2001), appartiene, in virtù della discografia oceanica e farraginosa, a quella parte del rock ove “sunt leones”. Infatti, occorre ammetterlo, certe sue opere rimangono sconosciute o scarsamente fruibili a causa delle difficoltà di reperimento, dell’ostacolo linguistico, di una ricercata aura di mistero, della sciatteria delle registrazioni. Quest’ultimo elemento pare comune ai giapponesi: questi, evidentemente, padroni e colonizzatori hi-tech, provano un brivido di disgusto ad applicare la razionalità e la pulizia del suono alle loro proprie creazioni. Les Rallizes Denudes e J.A.Caesar o Seazer, per citare alcune delle terrae incognitae in cui è bene avventurarsi prima di tirare le cuoia, necessitano urgentemente di filologie accurate che il pur effervescente Japrocksampler di Julian Cope* è riuscito a costruire solo superficialmente (il merito principale di Cope risiede, piuttosto, nell’aver additato queste plaghe sonore, tuttora largamente inesplorate).
Il chitarrismo di Haino, ispirato dalla musica free-form di Takayanagi Masayuki, spazia dalla sperimentazione radicale alle formalizzazioni rock nell’alveo della tradizione più consolidata e meno urtante (dagli esordi nei primissimi Settanta coi Lost Aaraff ai progetti Vajra e Nijiumu, dalle improvvisazioni elettriche ed acustiche ai tentativi per organo, dalle più varie collaborazioni – con membri di Ruins e Merzbow; con Brotzman e Loren Mazzacane, tra gli altri - alle sfiancanti ed interminabili jam che sembrano prosciugare l’intero spettro sonoro dell’universo).
I due Live a cavallo del 1990 non danno adito a dubbi: sono due capolavori. Live I (con Maki Miura, chitarra; Yasushi Ozawa, basso; Jun Kosugi, batteria) si compone di otto brani dalla durata media di dieci minuti (esclusa la gloriosa mezzora dell’ultimo), in cui Haino sciorina tutta la sapienza multicolore della propria sei corde: dai blues sferraglianti (1), alle jam dall’andamento minaccioso e distorto (le eccezionali 2 e 4, con interpretazioni vocali disperate seppur mai fuori registro; ed un affilatissimo assolo, in 2, che si staglia sopra il tappeto sonoro approntato da Miura), dalle rarefatte sospensioni psichedeliche (3 e, in parte, 7) sino alla ballata accorata (5). Chiude la variegata 8, “intro per flussi chitarristici alla Sonic Youth; hard-rock spastico su tempi dispari; stasi di rintocchi minimali spezzate da improvvisi (seppur moderati) stacchi ritmici; finale leggiadro su un vocalizzo espanso di circa trenta secondi”**).
Fushitsusha
, nuovo live del 1991, si conferma a livelli altissimi, a mio avviso persino superiori a Live I; certamente l’atmosfera è più inquietante, quasi apocalittica: tredici composizioni per quasi due ore e mezzo con l’ensemble ridotto a tre elementi (Ozawa e Kosugi alla ritmica). Ogni traccia meriterebbe un commento a parte. Haino si inoltra deciso in territori allucinati e post-industriali: 1 è una tirata con chitarra a mo’ di sega circolare, in 2 un riff metalmeccanico domina per circa quattro minuti, poi evolve in un incredibile assolo che potrebbe trapanare da parte a parte l’intero Fujiyama.  In 3 Haino, tra feedback e distorsioni, rantola e grida come una menade giapponese; ogni breve ristagno prepara a disastri elettrici sempre più radicali. Con 4 si rifiata, ma con 5 assistiamo all’ennesima colata di magma incandescente che sbigottirebbe anche Hendrix. 6 è sonata da sabba nero; in 7 l’assolo rotola sferragliante e tintinnante per sedici minuti: la chitarra di Haino, novello medium, pare conficcata nella terra infera da cui trae risonanze ultraterrene; non c’è requie: 8 è un groviglio inestricabile di feedback, serpenti elettrici di una Gorgone ipnotica che debordano anche in 9 dove, finalmente, la sezione ritmica si ritaglia uno spazio apprezzabile. Il fiume monocromo di 10 sfocia nel limaccioso delta di 11, appena stranito dagli spasmi vocali del Nostro; con 12 la quiete paludosa viene di nuovo scossa da anaconde infernali che Haino richiama come un Mefistofele del teatro Nō; la finale 13 ci illude con l’apparente resa ad un classico hard rock, ma ben presto la chitarra-bisturi di Haino affonda impietosa nelle tenere carni del déjà entendu con un assolo più che degno di Star spangled banner.
È mirabile che un artista, proveniente da una cultura dell’Estremo Oriente, con mezzi elementari (un power trio) e la semplice incuranza di generi e formalizzazioni pregresse possa generare improvvisazioni di tale folgorante intensità. E donarci esperienze sonore ardue, ma inaudite.

* Il suo inglese immaginifico, peraltro, aiuta poco la causa.
** Così Federico Romagnoli di Onda Rock, cfr. http://www.ondarock.it/pietremiliari/live.html.

giovedì 10 novembre 2011

David Grubbs - The thicket (1998)


David Grubbs, chi era costui? Nato a Louisville (Kentucky), già chitarrista di Bastro, Bitch Magnet e Squirrel Bait, fondò i Gastr Del Sol (in cui confluirono elementi dei Bastro, nonché, in un secondo tempo, Jim O’Rourke) arricchendo poi il suo già straordinario pedigree musicale con collaborazioni eccellenti (Red Krayola, Codeine, Tony Conrad: chi ha orecchie per intendere, intenda).
Con questo suo secondo lavoro da solista egli raggiunge le vette della propria arte. Arruola il vecchio sodale John McEntire (Tortoise, percussioni), Jow Bishop e Ernst Kirche ai fiati, John Abrams (basso), il vate minimalista Tony Conrad al violino e ci consegna un disco materiato da brevi canzoni folk trasognate e incantevoli mantra sperimentali. L’apparente contraddizione deriva principalmente da una considerazione della musica per generi, superata quanto ormai intollerabile: lo stile del Grubbs folk è pacato e rarefatto, intemporale quasi come quello di John Fahey (termine di paragone quasi inevitabile) e contiene già la potenzialità per diradarsi ulteriormente in atmosfere sempre più impalpabili.
L’eponimo brano iniziale, The thicket, consiste solo di voce e pizzicate di banjo che si dissolvono lentamente sotto uno strato stuporoso di fisarmonica e fiati; lo stesso in Two shades of blue: Grubbs alterna la sua piana interpretazione strumentale e vocale con interventi di tromba e batteria; in Fool summons train il tradizionale incedere folk, con intarsi violinistici di Conrad, ristagna con sospensioni del ritmo dominate da sommessi accordi di chitarra: il contrasto riesce a suggerire praterie interminate come nei viaggi emozionali di Fahey. Così come in certe miniature l’esiguità dello spazio dipinto o l’apparente povertà cromatica esaltano, anziché deprimere, il senso della profondità e l’incanto favoloso, così in Grubbs gli accordi elementari di chitarra e banjo, gli arresti contemplativi, gli scarti improvvisi col delicato intervento dei fiati, del piano e delle percussioni generano dei brevi bozzetti di smagliante ricchezza di toni ed evocatività (anche nelle bellissime Amleth’s gambit e Buried in the wall, canzone, questa, che si potrebbe aggiungere a Spiderland). Col dittico 40 words on ‘worship’ e On ‘worship’, Grubbs, invece, accede alla sperimentazione piena: ai bordoni elettronici si affianca il violino-cornanusa di Tony Conrad creando mantra sobri quanto incantati (che il Nostro svilupperà in alcuni lavori successivi).
Un capolavoro in poco più di trentacinque minuti; ma Grubbs merita di essere ulteriormente approfondito: come Roy Montgomery è meno un uomo che una vasta e sconosciuta letteratura musicale.