Steve Roach, californiano di nascita (La Mesa, nei pressi di San Diego), ci consegna con Dreamtime return uno dei maggiori capolavori di sempre della musica world. Nel disco viene supportato da Kevin Braheny e Robert Rich (tastiere e percussioni e coautori, rispettivamente, di The other side e Songline/Airtribe meets the dream ghost), da Chuck Oken, David Hudson (al didjeridoo, tradizionale strumento a fiato aborigeno) nonché, per le parti più scopertamente etniche, da Percy Trezise, studioso, come Hudson, della musica primitiva australiana.
Roach, che pervenne a Dreamtime return influenzato occasionalmente da una visione cinematografica sulla cultura aborigena*, opera non solo una ricognizione colta della mitologia del quinto continente (osservata, quindi, ab partibus infidelium), ma una discesa profondissima in essa tanto da consentirgli di ridisegnarne musicalmente la straordinaria complessità evocativa.
Gli aborigeni non hanno dei in senso classico; essi distinguono fra un passato mitico e remoto, liquido e multiforme, ove gli eroi-fondatori della stirpe (imparentati con uccelli e pesci) sancirono leggi e cerimonie, e il presente attuale. Non esiste, tuttavia, divisione netta fra i due mondi: quel tempo favoloso agisce sull’oggi ed il sogno è il punto di contatto fra di essi. Scrive Levy-Bruhl: “il mondo in cui il sogno … introduce non si distingue affatto dal tempo mitico: mondi di forze invisibili, di potenze soprannaturali; da cui dipendono ad ogni istante il benessere e l’esistenza stessa della natura e del gruppo umano*”. Il passato, un’età dell’oro favolosa e gigantesca, agisce, peraltro, non solo attraverso il sogno, porta verso il sovrannaturale e l’oltreumano, ma è sempre presente in loro ed attorno a loro come nelle pitture rupestri delle gallerie wondjina del Nord-Est australiano (vedi The magnificent gallery): tali pitture sono reputate opera degli antenati, del tempo ungud, e persistono nel presente garantendo la forza rinnovatrice della natura (in particolare della pioggia): l’uomo non può variare tali raffigurazioni, solo ritoccarle marginalmente per preservarle. Si ha così un sistema di credenze in cui l’individuo è in costante contatto con i fattori delle proprie origini e vive immerso in un presente dove le cause della realtà tutta e dei fenomeni naturali, e persino delle sue più intime cure, risiedono in un passato trasfigurato miticamente (The other side), ma partecipe delle sue sorti.
Steve Roach riesce a comunicare, in circa due ore di musica, questo incanto primitivo per cui uomini, animali e cose vivono e riposano all’ombra di un altrove magico che li sovrasta, ma, al tempo stesso, se adeguatamente riverito, li sorregge nelle asperità del quotidiano.
Il lento dipanarsi delle tastiere di Looking for safety, Australian dawn, The return o le percussioni di Airtribe, Songline e Ancient day contribuiscono alla creazione di un’imponente sinfonia elettronica che suggerisce, col tramite della più universale delle arti, un mondo altrimenti incomprensibile per la concettualità occidentale. Roach concreta miracolosamente l’unione immediata tra sovrannaturale e vita propria della cultura aborigena; in questo senso Dreamtime return è l’opera mistica di un sensibile antropologo.
* Si recò sul posto prima e dopo la registrazione dell’album.
** Lucien Lévy-Bruhl, La mitologia primitiva, 1973. I concetti di tempo lineare come successione ordinata di eventi e di gerarchie sono utili per la nostra comprensione, ma alieni alla mentalità aborigena.
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