giovedì 10 novembre 2011

David Grubbs - The thicket (1998)


David Grubbs, chi era costui? Nato a Louisville (Kentucky), già chitarrista di Bastro, Bitch Magnet e Squirrel Bait, fondò i Gastr Del Sol (in cui confluirono elementi dei Bastro, nonché, in un secondo tempo, Jim O’Rourke) arricchendo poi il suo già straordinario pedigree musicale con collaborazioni eccellenti (Red Krayola, Codeine, Tony Conrad: chi ha orecchie per intendere, intenda).
Con questo suo secondo lavoro da solista egli raggiunge le vette della propria arte. Arruola il vecchio sodale John McEntire (Tortoise, percussioni), Jow Bishop e Ernst Kirche ai fiati, John Abrams (basso), il vate minimalista Tony Conrad al violino e ci consegna un disco materiato da brevi canzoni folk trasognate e incantevoli mantra sperimentali. L’apparente contraddizione deriva principalmente da una considerazione della musica per generi, superata quanto ormai intollerabile: lo stile del Grubbs folk è pacato e rarefatto, intemporale quasi come quello di John Fahey (termine di paragone quasi inevitabile) e contiene già la potenzialità per diradarsi ulteriormente in atmosfere sempre più impalpabili.
L’eponimo brano iniziale, The thicket, consiste solo di voce e pizzicate di banjo che si dissolvono lentamente sotto uno strato stuporoso di fisarmonica e fiati; lo stesso in Two shades of blue: Grubbs alterna la sua piana interpretazione strumentale e vocale con interventi di tromba e batteria; in Fool summons train il tradizionale incedere folk, con intarsi violinistici di Conrad, ristagna con sospensioni del ritmo dominate da sommessi accordi di chitarra: il contrasto riesce a suggerire praterie interminate come nei viaggi emozionali di Fahey. Così come in certe miniature l’esiguità dello spazio dipinto o l’apparente povertà cromatica esaltano, anziché deprimere, il senso della profondità e l’incanto favoloso, così in Grubbs gli accordi elementari di chitarra e banjo, gli arresti contemplativi, gli scarti improvvisi col delicato intervento dei fiati, del piano e delle percussioni generano dei brevi bozzetti di smagliante ricchezza di toni ed evocatività (anche nelle bellissime Amleth’s gambit e Buried in the wall, canzone, questa, che si potrebbe aggiungere a Spiderland). Col dittico 40 words on ‘worship’ e On ‘worship’, Grubbs, invece, accede alla sperimentazione piena: ai bordoni elettronici si affianca il violino-cornanusa di Tony Conrad creando mantra sobri quanto incantati (che il Nostro svilupperà in alcuni lavori successivi).
Un capolavoro in poco più di trentacinque minuti; ma Grubbs merita di essere ulteriormente approfondito: come Roy Montgomery è meno un uomo che una vasta e sconosciuta letteratura musicale.

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