domenica 25 settembre 2011

Ora - Amalgam (2000)

Ora è un collettivo britannico di musica ambientale formato da Colin Potter, Andrew Chalk e Darren Tate.
I titoli delle otto composizioni dell’opera (all’incirca fra gli otto e dodici minuti) sono riferimenti geografici di paesaggi naturali: fiumi, formazioni glaciali, foreste, valli, protrusioni vulcaniche, falde acquifere, colonne d’acqua …; si potrebbe pensare, vista l’estrazione culturale del terzetto, ad una versione sonora, adattata al nuovo millennio, di una sensibilità tipicamente romantica propria dei laghisti come Wordsworth e Southey. In tale corrente, infatti, non riviveva forse il sentimento delle elegie pagane germaniche compiaciute nella visione di orizzonti desolati e rovinosi - correlativi psicologici di un fatale pessimismo circa le sorti umane? Certamente gl’inglesi temperarono tale sentire troppo acerbo grazie anche agli influssi francesi (e italiani, per via dotta), ma tale temperie romantica traeva dalla contemplazione di momenti e luoghi particolari la predisposizione mentale atta alla produzione e all’apprezzamento artistici. Da ciò la svalutazione, più o meno accentuata, delle composte regole della tradizione classica e una tendenza all’interpretazione soggettiva e magica dell’esperienza che l’autore, al cospetto dello scontro fra uomo e Totalità (di cui la natura è occasione di meditazione ispirativa), interpretava variamente: da una confortante beatitudine, ad una sorta di comunione dei sensi panteista sino al compatimento della finitezza umana, temperate, tuttavia, da una sotterranea malinconia crepuscolare.
L’ascolto degli Ora (ma anche di numerosi gruppi ambientali di estrazione nordica) conforta tale ipotesi: sin dalle prime note ci incamminiamo lungo un itinerario fantastico in cui ampi e sommessi tappeti sonori vengono increspati da risonanze equoree, sospiri, echi di recessi sotterranei, sciabordii, semplici effetti elettronici (In a forest on a glacial till formation on the puget sound; Inside structures on either side of the Meuse River; From a high structure near the Odra River) in cui i paesaggi non vengono evocati ricorrendo alla musica imitativa, ma, piuttosto, ricreati per accumulazione di tocchi sonori, quasi impercettibili su uno sfondo così dilatato; in tal modo la contemplazione della maestà della Natura entra in tensione con l’irrilevanza umana e ingenera quell’esperienza sublime da cui scaturisce l’apprezzamento del bello. Il tutto grazie ad una economia di mezzi invidiabile.
Tale branca della nuova musica (ambientale, drone, new age…) prosegue e rinnova, forse oscuramente, un fondamentale atteggiarsi umano verso l’inconosciuto già variamente espressosi nella storia. Una risposta non tanto all’accademia, ben accetta, ma alla serialità ed al conformismo senza scampo che, quotidianamente, subiamo.

sabato 24 settembre 2011

Von Lmo - Cosmic interception (1991)


Iperattivo sin dagli anni Settanta il paisà Frankie Cavallo (New York, classe 1951), già batterista prodigio, ha incendiato e bruciato innumerevoli palcoscenici e formazioni (Funeral of Art, Pump, Kongress, Red Transistor, Why You Murder Me, recentemente negli Avant Duel col fido Ruggins) suonando bizzarrie d'avanguardia e psichedelia assortita (sessioni per chitarre distorte, improvvisazioni … c'è pane per gli storici e i curiosi); nel 1978, ribattezzatosi Von Lmo, diviene, col gruppo omonimo*, una delle attrazioni del Max's Kansas City assieme ai grandi nomi della new wave come Talking Heads e Patti Smith.
Affogato il club nei debiti (Cavallo si esibisce nello spettacolo d'addio), Von Lmo registra il primo lavoro, Future language, per poi abbandonarsi ad un totale sfogo autodistruttivo e scomparire per un decennio. Riavutosi, e per nulla cambiato, regalò alle platee questo Cosmic interception, nove pezzi “super space-age heavymetal dance rock”**, rielaborazioni di precedente materiale degli anni Ottanta. In realtà la definizione, al netto d'un indubitabile esibizionismo del Nostro, non è inaccurata: si tratta effettivamente di una serie di rock 'n' roll coinvolgenti per l'intrinseca ballabilità e per l'interpretazione da roaring bluesman di Cavallo, ma, allo stesso tempo, imbevuti della sensibilità no wave di New York, che agisce da moderno filtro sulla tradizione grazie alla ritmica martellante ed al magnifico sassofono del compare Juno Saturn.
Si comincia e si finisce con i due pezzi eponimi contrassegnati dal contagioso ritornello cibernetico “We transmit, you intercept e da assoli hendrixiani in background; nel mezzo altri episodi esemplari, Radio world, Shake rattle and roll, This is pop rock, Leave your body e l'inno Be yourself: lo schema immortale di Bill Haley, velocizzato oltremisura, è ruggito con irruenza canagliesca e quasi punk e aggiornato dalle percussioni ossessive (ma sempre sotto controllo, anche nei momenti ipercinetici), dagli instancabili arabeschi di Kross alla chitarra e dalle punteggiature free jazz di Saturn, vero fattore straniante dell'opera che, oltre a iniettare nuova linfa al vecchio corpo rockabilly, lo depura da trite empatie nostalgiche.
Personaggio poco conosciuto nelle sue reincarnazioni più eccentriche, rimane ancora da valutare nella sua interezza di compositore; queste intercettazioni, più sanguigne che cosmiche in verità, sono il biglietto da visita più eclatante.

* Un gruppo di eccellenti strumentisti, alcuni amici di vecchia data di Cavallo: Mike Kross, chitarra; Craig Coffin, basso; Juno Saturn, sassofono; Otto von Ruggins, tastiere, Bobby Ryan, batteria.
** Ipse dixit.


mercoledì 21 settembre 2011

Subarachnoid Space - Almost invisible (1997)


Appena sotto le ossa della scatola cranica le meningi proteggono cervello e midollo spinale; esse sono costituite da tre rivestimenti concentrici: rispettivamente, dall'esterno all'interno, dura madre, aracnoide e pia madre. Tra aracnoide e pia madre trova posto lo spazio subaracnoideo che racchiude il liquido cerebrospinale o liquor a cui spetta il compito, dettato dalla natura fattrice e benigna, di preservare le nostre cellule nervose da eventuali traumi e di favorirne lo sviluppo.
Tale esplicativo fervorino anatomico, associato alla terra di provenienza del chitarrista e fondatore Mason Jones (San Francisco, California), lascia intravedere lo stile e lo spessore dell'opera: sei strumentali di purissima psichedelia spaziale che possono esser considerati quali atti di una lunga ed articolata suite (circa settanta minuti); compagni d’avventura sono Melynda Jackson, chitarra; Jason Stein, basso; Michelle Schreiber, batteria.
Le composizioni di Jones non sono adimensionali o cicliche, ma funzionano come lentissime accumulazioni di sonorità che si dilatano progressivamente o fermentano statiche: ancora una volta, come in Secret life of the machines dei Doldrums, è la batteria a svolgere il ruolo di temporizzatore contribuendo al ristagno del ritmo o esacerbandolo con un percussionismo concitato degno di Set the controls for the heart of the sun, versione dal vivo.
In Shut inside (9'10') il basso continuo e il drumming imperterrito sostengono un complesso lavoro chitarristico in cui il il borbottio elettrico sottostante, le sonorità spaziali (simili a richiami di delfini interstellari) e i feedback s'impastano felicemente per poi distendersi e formalizzarsi, finalmente, in assoli veri e propri. High outside (7'23'') prosegue nello stesso solco della precedente mentre Floating above the skyline (6'10'') è, nella prima parte, un irresistibile crescendo scandito da una batteria tolta di peso da Ummagumma e, in seguito, si placa nel consueto borborigmo elettrico. In Below any border (17'08''), Jones indugia nell'alveo preparato dai compagni quasi a voler concretare, con quegli accordi accennati, un proprio personale mantra, ma è nuovamente Schreiber a romperne la tessitura (che, forse, aspirava alla durata infinita) attraendo il Nostro nell’ennesimo rush. In Outlined in rust (25'38'') sezione ritmica e chitarra approntano il consueto sostrato sonoro: da esso, come dall'oceano senziente di Solaris, prendon corpo assoli, fughe, decelerazioni, risucchi galattici, stasi, ed in esso, senza soluzioni di continuità, tutte queste germinazioni si annullano. Calm fever (5'48'') è la chiusura coerente dell'opera, rumore di fondo dell’eterno trasmutare dell’universo.

lunedì 19 settembre 2011

Gnaw Their Tongues - L'arrivée de la terne morte triomphante (2010)

La produzione di Maurice DeJong è una delle più estreme esplorazioni del Male. Egli riesce a concretare musicalmente l’angoscia di un’umanità oppressa da forze incombenti e minacciose che, indifferenti alla nostra sorte, creano e schiantano l’universo a loro capriccio mentre “i migliori angeli della nostra anima” vengono esiliati dal gelo del sadismo e della sopraffazione.
Costretto dall’enormità della propria visione di sfacelo cosmico, l’olandese oltrepassa inevitabilmente qualsiasi genere pregresso (dal doom all’industrial) e fonda, in territori assolutamente inumani, una personale sinfonia dell’orrore metafisico.
La sua ultima opera, monografia in cinque atti dedicata alla Morte, sembra un triumphus tardo medioevale: nell’affresco di Clusone (BG)*, uno dei più pregevoli, la Signora del Mondo, ammantata nei simboli della regalità e circondata da scheletri, domina sui cadaveri del Papa e dell’Imperatore, tormentati da bestie immonde; commercianti, filosofi e giudici offrono ricchezze per ottenere la salvazione, ma Essa rimane insensibile alle tarde e vili offerte di mercimonio. Il titolo francese, inoltre, pare alludere ad un dipinto complementare a quello precedente, L'entrée du Christ à Bruxelles, del belga James Ensor, in cui il Cristo, Signore dell’Oltremondo, viene schernito da una folla brutale pronta all'ossequio e al deicidio. DeJong sembra dirci che l’esistenza non ha redenzione e il suo unico orizzonte, la fine fisica, ha scacciato la speranza, retaggio di fedi ormai insensate; qualsiasi figura salvifica viene derisa come lo Sconfitto di Ensor.
L’olandese costruisce il trionfo sviluppando un tono epico, costruito da cori, pesanti clangori gotici, bassi distorti e urla straziate: la Morte incede venerata dal proprio corteo macabro, quindi siede sul trono niveo mentre un canto che celebra l’ineffabile splendore della nuova Imperatrice percorre come un vento di follia ghiacciato i residui viventi, ormai perduti per sempre.
Le storie letterarie, religiose e artistiche annoverano  migliaia di inferni, ma questi, anche i più agghiaccianti, erano riscattati dal calore della creazione e dell’immaginazione e quindi dell’umanità che li aveva dettati; Gnaw Their Tongues priva di ogni forma di empatia le proprie creazioni e ci consegna schegge di nichilismo incontaminato.

* Opera di Giacomo Borlone de Buschis, dipinti verso la fine del Quattrocento, si trovano presso l’Oratorio dei Disciplini.

sabato 17 settembre 2011

Arcanta - Arcanta (1996)/The eternal return (1997)


Arcanta, progetto del cantante americano (di Chicago) Thomas-Carlyle Ayres, è uno dei migliori tentativi di affrancazione dagli stereotipi di certa musica etnica (spesso meccanica nella riproposizione ed impudica nell’accostamento alla tradizione popolare), conseguito con l’adesione alla struttura dell’inno religioso, massimamente mediorientale.
N
el primo ep del 1996 solo Maya, delicato impasto di dulcimer e percussioni, si giova della forma canzone; i restanti tre pezzi sono effusioni liriche, a cappella o appena sottolineate dalle tastiere, in cui preghiera, venerazione e fiducioso abbandono al divino sono rielaborati come il richiamo (Adhān) che il muezzin rivolge ai fedeli per invitarli all’orazione della Salāt. La prima traccia di The eternal return, infatti, There is no God but God non è che la traduzione di Ašhadu an lā ilāh illā Allāh, seconda parte della formula scandita dal minareto per cinque volte durante il giorno.
N
el lavoro successivo (che coopta la precedente Via dolorosa) Ayres smarrisce, in parte, la compatta sobrietà dell’esordio introducendo nuovi elementi quali il canto gregoriano (Kirie, Eleison, la struttura della stessa There is no God) e canzoni facili e lineari (Bodhisattva) rischiando, in tal modo, di ricreare quel vieto sincretismo new age che affastella temi e ritmi esotici per sdilinquire i borghesi midcult; fortunatamente tali mende sono riscattate da episodi affascinanti sulla falsariga della prima opera e dall'ispirazione sincera (Awake as if from slumber, caratterizzata dalla maestosità dell’organo, Estranging sea con una coda insolitamente cupa, The solitary pilgrim).
P
unto d’incontro fra sensibilità occidentale e suggestioni orientali, Arcanta riecheggia nei migliori episodi (forse inconsapevolmente) i canti liturgici dei Melchiti* (cattolici di rito bizantino, ma di lingua greco-araba); queste invocazioni, la cui apparente semplicità è simbolo dell’umile sottomissione a Dio, sottendono, infatti, una osmosi millenaria fra tradizione cristiana ed influenze islamiche.

* Possono ascoltarsi nella bellissima Basilica di Santa Maria in Cosmedin a Roma, in Piazza Bocca della Verità.

 

venerdì 16 settembre 2011

Electrelane - Rock it to the moon (2001)

Quartetto femminile di Brighton (Verity Susman, tastiere; Emma Gaze, batteria; Mia Clarke, chitarra; Rachel Dalley, basso), Electrelane pervennero alla loro creazione più riuscita nel disco d’esordio, raccolta di undici strumentali* bifronti che riutilizzano con successo scampoli apparentemente inservibili di ritmi sixties.
L’opera si fonda, in larga parte, ma non esclusivamente, come si vedrà, sulle due caratteristiche anzidette: una struttura che contempla stasi e brucianti accelerazioni nonché un gusto divertito per il pop d’antan, quest’ultimo organizzato ed indirizzato dalle tastiere della Susman, talmente essenziali e caratterizzanti, almeno nella prima parte del disco, da emarginare il resto del gruppo.
Long dark
è l’epitome delle notazioni anzidette: l’inizio interlocutorio, con isolati accordi chitarristici, è improvvisamente acceso da un accelerato ritmo surf (Duane Eddy) presto prevaricato da un organo trascinante e sbarazzino nelle citazioni (è il turno di Pop corn). La derubricazione a metronomo elementare della sezione ritmica è il prezzo da pagare per sostenere queste travolgenti fughe revival.
L’ottima Gabriel, Blue struggler e Many peaks confermano tale costruzione anfibia, mentre Film music, irresistibile centone organistico di musica per film anni Sessanta, è l’apice, con accenti parodistici, ma sempre scanzonati, della felice vena rievocativa.
Spartakiade
, breve tirata garage ritmata da battimani, e, soprattutto, U.O.R., in cui la chitarra parte con strappi improvvisi o ristagna in pozze elettriche e noise, ritagliano a Mia Clarke un ruolo di rilievo e annunciano il vero quanto inopinato cambio di registro degli ultimi due pezzi: la plumbea monotonia di The boat depura il suono dal leggero tono pregresso ed introduce agli undici minuti di cupa psichedelia di Mother** in cui le percussioni scarnite e le tastiere spettrali riecheggiano, non a sproposito una volta tanto, l’incedere di Sister Ray.
L’inaspettato finale, rispetto ai toni quasi beat delle tracce più famose, rende spessore all’opera e fissa in un felicissimo chiaroscuro la definitiva nuance.


* Eccezion fatta per il trascurabile cantato di Spartakiade.
** In realtà una traccia di ventidue minuti comprendente un lungo silenzio centrale e una breve chiusa acustica.

martedì 13 settembre 2011

Dadamah - This is not a dream (1992)


Il neozelandese Roy Montgomery è uno dei segreti meglio custoditi della musica contemporanea. La sua produzione non ha mai avuto cedimenti, confermandosi, nella sua espressione solista o nelle collaborazioni (Hash Jar Tempo, Dissolve), di livello altissimo, ma, ad onta di ciò, sembra sfuggire non solo al riconoscimento pieno delle sue capacità, ma anche alla sbrigativa notazione encomiastica*.
Dadamah (Kim Pieters, basso e voce; Janine Stagg, tastiere; Peter Stapleton, batteria) è una delle prime prove** con cui lascia intravedere, da subito, uno spessore compositivo ed intellettuale cospicuo, oltre a regalarci uno dei dischi fondamentali dei Novanta. This is not a dream, difatti, informato proprio dall'onirico strumming di Montgomery, non pare un richiamo dotto alla provocazione di René Magritte “Ceci n'est pas une pipe”, ovvero “questa non è una pipa”? Il grande belga aveva vergato tale asserzione in calce alla pittura d’una pipa significando, in modo logicamente ineccepibile, che l’oggetto dipinto non era quello reale, ma solo la rappresentazione d’esso. Il titolo d’un successivo lavoro del Nostro, The allegory of hearing, prova, forse, la non temerarietà di questa interpretazione.
La cifra di This is not a dream, quindi, a dispetto del titolo, è il sogno, o, meglio, come suggerito dianzi, la sua ricreazione mediata dalla musica - sogno di cui il disco conserva la peculiare indefinitezza, allo stesso modo d’un oggetto percepito traverso la smerigliatura d’un cristallo. L’inveramento artistico, che pur varia dalla ballata liquida (le bellissime High tension house e High time, Nicotine, Prove) alle accelerazioni di Brian’s children e Radio brain sino alla concitazione trattenuta di Scratch sun, rimane fedele a tale caratterizzante proprietà.
Il fascino dell’opera risiede in una generale sospensione e indeterminatezza (l’organo bislacco, la riuscita simbiosi vocale fra una Pieters à la Patti Smith e i toni profondi di Montgomery, la batteria velvettiana, lo strimpello della chitarra) che, se allude in parte all’ensemble notturno di Warhol (suggestione ascrivibile soprattutto all’incedere di Papa Doc, ricalco evidente del ritmo di Waiting for my man), se ne distacca per l’assenza delle precise coordinate, sociali e geografiche, di quel milieu irripetibile.
Le successive incarnazioni di Montgomery esploreranno questo lato profondo e dilatato (riuscendo anche nella preterizione della sezione ritmica) sino a pervenire ad una psichedelia rarefatta di cui Dadamah è il prodromo di pari valore.

* A parte i soliti noti.
** Alcune registrazioni, a nome Shallows e Pin Group, risalgono agli anni Ottanta.

 

domenica 11 settembre 2011

Skullflower - Obsidian shaking codex (1993)

Skullflower è un progetto ideato dal chitarrista inglese Matthew Bower, attorno a cui ruotano, di volta in volta, vari strumentisti (in tale occasione Stuart Dennison, Russell Smith e Anthony DiFranco).
Obsidian shakin codex, probabilmente la punta più alta della loro prima produzione, consta di cinque strumentali che mantengono, per tutta la loro durata, una tensione implacabile aliena sia da cedimenti che da cambi di ritmo.
In Sir Bendalot (9’12’’) un assolo da finis terrae (whistle o pennywhistle, più o meno manipolato) attraversa ominoso i nove minuti del pezzo come un flauto apocalittico rinfocolato da una rocciosa sezione ritmica.
Circular temple
(12’37’’) è un altro viaggio in cui basso e percussioni, pur giocando un apparente ruolo di secondo piano, riescono a disboscare lo spazio sonoro che la chitarra può invadere originando una vera colata lavica di accordi straziati.
Crashing silver ghost phallus
(11’15’’), dopo la breve illusione dei primi secondi, si trasforma in uno spietato sferragliamento noise, sorta di rivisitazione e decuplicazione dei feedback imitativi nella Star spangled banner di Woodstock.
In Diamond bullet (15’34’’) un effetto drone ossessivo e stordente fa da spina dorsale alle improvvisazioni di Bower, al basso e alla batteria; sovraimposizioni ed un recitativo straniante e ripetitivo alimentano vieppiù l’incedere infernale di questo ennesimo tour de force.

Ghost jaguar
(24’56’’) parte piano, ma i nembi si addensano plumbei sin dai primi minuti: brevi rullate, un sommesso e minaccioso basso di fondo e le contorsioni, i gorgoglii  e le impennate chitarristiche concrescono gradatamente sino al raggiungimento di un ruggente impasto sonoro che si preserva intatto sino agli attimi finali.
I successivi progetti di Bower, Sunroof e Hototogisu, complicheranno ulteriormente una discografia vasta ed articolata, difficile da valutare nella sua integralità: Obsidian è, tuttavia, la porta privilegiata da cui accedervi.

venerdì 9 settembre 2011

Birchville Cat Motel - Beautiful speck triumph (2004)

          
Ci sono creazioni adatte a qualsiasi situazione ed altre da limitare ad alcune occasioni. Giampaolo Dossena scrisse che Dante è buono anche sotto i bombardamenti, ma non lo è Petrarca (che pure egli amava)*. Incantesimo di George Cukor è un film delizioso, un capolavoro della commedia; anche Salò di Pasolini è un capolavoro, ma risulta davvero inapprezzabile se non si è seguito un particolare cammino estetico. Alcuni fatti artistici, insomma, richiedono luoghi appropriati e preparazioni altrettali: lo esige, con l’addizione di quasi due ore di libertà, l’ascolto dell’opera di Birchville Cat Motel, progetto drone-ambientale del multistrumentista neozelandese Campbell Kneale. La sua assimilazione, doverosa (Beautiful speck triumph è un monolite ineludibile del decennio passato), ripaga, d’altra parte, con la moneta aurea dell’edificazione: per aspera ad astra.
White ground elder (30’32’’) parte con un inquietante bordone distorto a cui Kneale giustappone lentamente, per tutta la mezzora, una crescente sinfonia rumoristica (frinfrinire di fiati, percussioni, grattuge, tastiere) che invade naturalmente lo spazio sonoro. L’ampia durata è necessaria per sviluppare una traccia che è anche la registrazione di un flusso interiore della coscienza.

Il resoconto della canicola di un primo pomeriggio estivo sembra ispirare Trembling forest spires (18’31’’): il verseggiare delle cicale è affiancato, e poi sostituito, da un concerto di campane tubolari da veranda; in sottofondo prendono corpo dei rumori da sobbollimento, quindi il ronzio di una vespa intrappolata, dapprima furibonda, poi lentamente morente, rimane l’unico attore sonoro tramutantesi, nei minuti finali, in un ronzio elettronico avviluppato in uno scrocchiare da vinile polveroso. Questo spunto deborda e si spegne nella successiva Speck fears (19’30’’) per lasciar posto ad un bellissimo tappeto organistico, sottolineato da un possente background ed impreziosito da accenni tipicamente new age. 
It’s more fun to compute (5’56’’), un distorto ed onirico concertino da camera, è il porticato in penombra che prepara alle tenebre gotiche di The romance of certain old clothes (19’51’’): l’ennesimo bordone è la quinta sonora di una silloge di rumori da magione hantée**: cigolii di porte, tramestii, calpestii, voci indistinte ed accenni di pianoforte popolano i venti minuti del pezzo.
Nella pietra miliare Beautiful speck triumph (36’38’’), innervata da un drone cangiante, il concerto fra rumori industriali, un insistito frinire ed un organetto in loop viene gradatamente alluvionato da titaniche distorsioni della sei corde scandite da percussioni rituali e sottolineate dalla maestosità delle tastiere. Il crescendo, veramente eccezionale, raggiunge apici di intensità mistica per poi spegnersi lentamente in un bozzetto campestre accompagnato da radi accordi di chitarra.
La produzione di Kneale, come spesso accade cogli autori sperimentali, risulta polverizzata in numerose registrazioni (alcune di alto livello come Birds call home their dead e Chi vampires), ancora da valutare nel loro insieme; è possibile già affermare, tuttavia, che sarà la svolta doom-metal del progetto Black Boned Angel (2005-2009) a riportarlo, a tratti, sui livelli del trionfo appena esaminato.

* Giampaolo Dossena, Storia confidenziale della letteratura italiana, II, L’età del Petrarca, 1989.
** The romance of certain old clothes è, infatti, un racconto dello scrittore fantastico M.R. James pubblicato nel 1868 (tit.it. La romanzesca storia di certi vecchi vestiti, pubblicata in numerose antologie).

giovedì 8 settembre 2011

feedtime - feedtime (1985)/Shovel (1986)

 

Formatisi nel 1979, gli australiani feedtime hanno il pregio, sul finire degli anni Ottanta, di aver riportato il rock ‘n’ roll alle sue forme strutturali di base.
Come nell’affinazione dell’oro i vari scarti di lavorazione vengono trattati per riottenere il metallo nella sua purezza, così il power trio di Sidney ricetta cascami di voodoobilly, noise, blues e underground e li precipita in decine di brucianti episodi sonori di intatto splendore.
Nel monumentale esordio i Nostri (Tom, Al e Rick, batteria, basso, chitarra e voce - niente cognomi) rivelano da subito la loro potente alchimia che smantella decenni di scorie e compromessi. Si riparte dal grado zero: inizio e chiusura del cerchio sono due classici gemelli, Ha ha e I wanna ride, in cui le percussioni scatenate, il gloglottìo del basso, la sei corde catarrosa e un frontman abrasivo organizzano un muro di suono inaudito sin dai tempi degli MC5 (Mandead, Southside Johnny); anche quando sembrano rallentare (All down, Doesn’t time fly) in realtà la potenza resta sottesa e pulsante.
Il successivo Shovel riconferma ad altissimo livello il loro hard blues canicolare (complice la slide guitar) che Rick sembra ruggire furibondo dalle rosse dune del Simpson Desert: assieme alle consuete tirate supersoniche (Shovel, Mother, More than love, Nice) ed all’incedere da gorilla di Love me trovano posto episodi meno frenetici e quasi ossequiosi a una labile forma di melodia (Fractured, Rock ‘n’ roll, Baby baby) mentre il pezzo finale Curtains, accanto al consueto bulldozer strumentale, sfoggia un sassofono demoniaco.
Dopo un album di cover, Cooper S, in cui terremotano Rolling Stones, Ramones, Slade, esce l’ennesima notevole sfuriata, Suction, in cui il suono, tuttavia, pare affetto da una certa angustia laddove, nei primi due album, questo era naturalmente sfrenato ed epicamente liberatorio. Defezioni e riunioni partoriranno, sette anni più tardi, Billy, non indegno della vecchia gloria. Ancora attivi in concerto non hanno però registrato più nulla, dimostrando, anche qui, un’ammirevole essenzialità.
Di loro resta questa manciata di reperti, schegge di pietra calcinate dall’ardore dei deserti australiani.


sabato 3 settembre 2011

Fear - The record (1982)

     
Un farabutto, Lee Ving (voce e chitarra), e altri tre ribaldi asociali, Derf Scratch (basso), Philo Cramer (chitarra) e Spit Six (batteria)*, covano per cinque anni a Los questo uovo malefico che si schiuderà, maleodorante e leggendario, nel 1982.
Fondati nel 1977 e ignorati per anni, i Fear agitarono le cronache nel 1981 con le partecipazioni al documentario di Penelope Spheeris The decline of Western civilization e, soprattutto, ad una puntata del Saturday Night Live negli studi televisivi NBC: invitati da John Belushi, i Fear sbraitano Beef Bologna** (Ving celebra la predilezione della propria bella per il proprio membro), New York’s alright if you like saxophones (in cui si deride la fauna umana ed artistica della città, compresi omosessuali, drogati, intellettuali, jazzisti …) e Let’s have a war, quest’ultima decapitata da una impreveduta quanto opportuna inserzione pubblicitaria dopo l’echeggiare delle prime note.
L’ideologia dei Fear è elementare e reazionaria, una versione redneck di: “Quando sento la parola cultura metto mano alla mia Browning”; a ben vedere, tale atteggiamento, tipico di certa provincia profonda, è pienamente riconducibile al dittico zappiano “tette e birra” con accenti, quindi, più crassamente cialtroni che fascisti. Perle iperboliche come “Uccidi tua madre e tuo padre” (We destroy the family), “Voglio venirti in faccia” (Fresh flesh), “La mia casa … è piena di merda e vomito” (I love livin’ in the city) e le diverse istigazioni all’azione tout court divengono, d'altra parte, sintomi inconsapevoli di una sociopatia epocale aliena da credi politici e, per ciò stesso, velleitaria e disperata (come dimostrano gli inni esemplari di No more nothing e I don’t care about you).
I Fear bruciano tale empito in quattordici brevi pezzi (più i quarantacinque secondi di bonus di Fuck Christmas), suonati con inaspettata perizia, confezionando una delle mezzorette più memorabili del punk-hardcore californiano.
Privi di ogni pur minimo riferimento culturale o ideologico, esauriti gli eroici e generici furori da berserkers antisistema, i Fear ripiegheranno su un ribellismo, tutto sommato, piccolo borghese e buono per conservare gli ammiratori più sprovveduti della prima ora.

* Col tempo si alternarono attorno a Ving numerosi musicisti compreso Flea dei Red Hot Chili Peppers.
** Sorta di mortadella di manzo americano, confezionata ad imitazione di quella italiana.


giovedì 1 settembre 2011

Voice of Eye - Transmigration (1995)

 
Duo di musica sperimentale formatosi a Houston, Texas, e composto da Bonnie McNairn e Jim Wilson, Voice of Eye riesce ad amalgamare con successo elettronica e suggestioni etniche. Transmigration, basato sulla lettura del Bar do thos grol, è l’evocazione musicale di un viaggio ultraterreno in cui l’uomo, stretto tra morte fisica e attesa di una nuova eventuale rinascita, prova a svincolarsi dalla fallacia delle visioni dettategli dalla propria coscienza per attingere alla purezza liberatoria della luce suprema (Dharmakaya) in cui la Totalità è eternamente presente.

Il Bar do thos grol* o Bardo Thodol (Liberazione dallo stato intermedio attraverso l’udire) è il testo centrale del buddismo tibetano. Esso consiste principalmente in una serie di istruzioni che il lama rivolge all’uomo nei suoi tre stati intermedi – detti appunto bardi (quarantanove giorni intercorrenti fra morte e attesa di una nuova incarnazione) – allo scopo di affrancarlo dal ciclo esistenziale del Samsara**. I Bardi sono tre***:

Il Chikhai descrive le esperienze susseguenti alla morte; l’animo cade in un sonno profondo di quattro giorni, poi una luce lo abbaglia. Ora è consapevole della propria dissoluzione fisica nei quattro elementi naturali e potrà rinunciare alla individuazione per raggiungere la salvezza dalle contingenze del Samsara.

Il Chonyd, che va dalla morte alla ricerca della rinascita: fallito la salvezza nel Chickhai, l’uomo è preda di visioni fantasmatiche ed illusorie: deità benevole, guerrieri celestiali, eroi, i giganteschi guardiani dei quattro punti cardinali, con teste di tigre, maiale, serpente e leone, spaventevoli divinità iraconde****. Anche qui il defunto, se preparato a tali esperienze potrà rendersi conto della natura terrorizzante, ma soggettiva di queste visioni (dettategli dal proprio karma) e cercare di cogliere la seconda possibilità di salvezza.

Il Sidpa Bardo culmina nel giudizio del Signore della Morte: i due geni che accompagnano l’individuo sin dalla nascita, l’uno benevolo, l’altro malvagio, contano, rispettivamente con ciottoli bianchi e neri, le buone azioni e le mancanze del morto. La menzogna è inutile, il Signore della Morte consulta, come in un Aleph borgesiano, lo Specchio del Karma ovvero la serie di azioni commesse dal defunto nella vita passata. Quindi lo assegna, secondo i suoi meriti o demeriti, ad uno dei sei lokas o regni nei quali potrà rinascere: il regno degli dei, degli asuras (dei) belligeranti, degli esseri e bestie subumani, degli umani, dei fantasmi affamati, o dell’inferno.

Transmigration rende perfettamente questo itinerario metafisico tra vita e morte: sin dalla prima traccia Tranmigration - Bardo I la sensazione primaria è quella di un cammino attonito in un mondo sospeso e cangiante; la partitura elettronica (complicata dal ricorso del duo a strumenti da loro modificati) consente al suono di estendersi indefinitamente arricchito da echi minacciosi (Tempest), celestiali voci in sottofondo, ritmi e percussioni orientali (Transcendence), silenzi prolungati (la seconda parte di Oblivion - Bardo III).
La caratterizzazione etnica è congrua e funzionale al progetto e i Nostri evitano ingenui e grossolani prestiti da una tradizione complessa ed irriducibile a quella occidentale. Dobbiamo riconoscere al loro lavoro le stimmate dell’universalità.
* Attribuito al monaco Padma Sambhava (VIII secolo d.C.), ma scoperto alcuni secoli più tardi.
** Ciclo di morti e reincarnazioni terrene.
*** In realtà i Bardi, stati intermedi tra vita e morte, sono sei, comprendendo anche la vita intrauterina, lo stato di sogno e la meditazione profonda.
**** “La prima [divinità iraconda] ha tre teste, sei mani, quattro piedi; è avvolta in fiamme, ornata da crani umani e serpenti neri, le mani destre brandiscono una spada, un’ascia e una ruota; le sinistre, una campana, un aratro e un teschio da cui beve sangue”. Cfr. J.L.Borges, Cos’è il buddismo, 2004.