Ten thousand years older di Werner Herzog è uno dei sette cortometraggi inserito nel più vasto collage Ten minutes older: the trumpet (2002; fra gli altri Aki Kaurismäki, Chen Kaige, Wim Wenders, Victor Erice, Spike Lee e Jim Jarmusch con Chloë Sevigny).
In pochi minuti, attraverso il resoconto di brevi momenti di lancinante malinconia, il regista delinea la fine della tribù Uru-Eu-Wau-Wau, ancora legata ad un'economia neolitica, rimasta isolata ed integra per millenni nelle profondità della giungla amazzonica. Nel 1981 l’avanzata dei coloni brasiliani e dei cercatori d’oro rompe l’incantesimo: i gruppi entrano in contatto; dopo vent’anni, nel 2001, Herzog torna nei luoghi che hanno testimoniato l’incontro fatale. La giungla ormai formicola di attività umane; si levano fuochi da disboscamento; gli alberi sono schiantati per far posto ai carriaggi; la tribù, che, in pochi mesi, è stata decimata dalla varicella e dalla comune influenza, è ridotta a un centinaio di individui. Il trauma del progresso ("a progress into the void”) li ha annichiliti. Tari, il capotribù, e Wapo, suo fratello, sono ancori vivi, ma regnano su una comunità di fantasmi. I due sono degli sconfitti: mostrano a beneficio della telecamera dei vincitori e padroni esperienze e saperi che ormai saranno dissolti nell’indifferenza: come fabbricare frecce senza metalli (incidendo l’asta con il dente di un roditore) oppure come avvivare il fuoco tramite la frizione del legno; le conquiste occidentali, che pure hanno conosciuto, li lasciano freddi; il tempo ciclico dei movimenti solari e lunari o l’eternità sempre viva del passato leggendario gli rende incomprensibile la concezione occidentale del tempo, definito dall’imperio del presente. Entrambi hanno conosciuto l’amore di donne bianche: ne parlano come due adolescenti imbarazzati, due timidi fanciulli destinati alla morte più atroce, quella dell'oblio; Tari mima un canto rituale di guerra, ma la tubercolosi gli impedisce di continuare; la civiltà, come un tumore inarrestabile, sta disfacendo il corpo del re; l’anima del popolo morirà di conseguenza: già il nipote, Pablo, si vergogna d’appartenere alla propria gente, ne disconosce la lingua, si prepara a diventare un buon brasiliano, un uomo dei nuovi tempi.
Vanishing peoples. Ecco Pasolini:
“Il buon selvaggio esiste, aveva ragione Rousseau, e l’ho visto io con i miei occhi proprio allo stato puro: i Denka, un popolo che viveva alle sorgenti del Nilo, nel fondo del Sudan. Ed erano tutti nudi, nudi con un filo di perle intorno al collo e la lancia; e non conoscevano niente, non sapevano cosa fosse la moneta e vivevano di baratto ed erano comunitari, pescavano e facevano pastorizia insieme. Ed erano felici, erano felici, felici … ecco se penso all’immagine della felicità umana io penso ai Denka. Distrutti. Distrutti da Abboud in nome del musulmanesimo. Un genocidio. Che nessuno naturalmente ha preso in considerazione”*.
E ancora: “Ho pianto di vere lacrime davanti a un idoletto della tribù Baulé, fatto di legno e filamenti vegetali; ho pianto perché quello era il piccolo nume contadino del Lazio di Turno. Lacrime su un mondo perduto anche nelle sue ultime propaggini …”**.
Chi ricorderà questi uomini e le loro culture? Quale il loro cantore? Nessuno. Essi svaniranno dalla memoria dell’umanità come scherzi, come brevi ombre. Centinaia di milioni di uomini, di speranze, di mondi diversi. Doniamo loro questo epitaffio, tratto da Meridiano di sangue di Cormac McCarthy: un gruppo di sanguinosi e depravati masnadieri, guidati da Glanton e dal Giudice (forse la personificazione dell'Occidente, o del Male o del diavolo), attaccano un miserabile villaggio indiano:
“Si avvicinarono a quel miserabile insediamento alla luce remota del tramonto, sottovento, lungo la sponda meridionale del fiume, dove arrivava l'odore del fumo di legna dei falò. Quando i primi cani cominciarono ad abbaiare, Glanton spronò il cavallo e sbucarono dagli alberi e attraversarono la terra arida cosparsa di arbusti con i cavalli che protendevano il lungo collo dalla polvere, avidi come cani da preda, e i cavalieri che li frustavano dirigendoli verso il sole, là dove le sagome delle donne distolte dalle faccende rimasero per un momento piatte e rigide in silhouette, prima di convincersi della realtà di quel pandemonio polveroso e scalpitante che si abbatteva su di loro. Erano ammutolite, scalze, vestite del cotone greggio nato da quel suolo. Stringevano ramaioli per cucinare, bambini nudi. Alla prima scarica ne crollò a terra una dozzina.
Gli altri si erano messi a correre, vecchi che alzavano le mani al cielo, bambini trotterellanti che chiudevano gli occhi al fuoco delle pistole. Alcuni giovani corsero fuori brandendo gli archi e vennero abbattuti, poi i cavalieri si sparsero per il villaggio calpestando le capanne d'erba e atterrando a colpi di mazza i capifamiglia urlanti.
Quella notte, molte ore dopo il tramonto, quando la luna era già alta, un gruppo di donne che erano andate a pescare su per il fiume ritornarono al villaggio e vagarono ululando fra le rovine. Qualche fuoco bruciava ancora sotto la cenere, e qualche cane strisciava via fra i cadaveri. Una vecchia si inginocchiò presso le pietre annerite davanti alla porta della sua capanna, mise un po' di sterpaglia fra i tizzoni e soffiò finché non vide una fiamma levarsi dalle ceneri, poi cominciò a raddrizzare gli orci rovesciati. Tutt'intorno a lei giacevano i morti con i crani sbucciati simili a polipi umidi e azzurri o a meloni luminescenti che si raffreddassero su una mesa della luna. Nei giorni seguenti le fragili enigmatiche tracce nere lasciate dal sangue su quelle sabbie si sarebbero crepate e spaccate e sarebbero scomparse, cosicché nel giro di pochi soli ogni traccia della distruzione di quella gente sarebbe stata cancellata. Il vento del deserto avrebbe coperto di sale le rovine, e non ci sarebbe stato nulla, né spettro né cronista, a raccontare a tutti i viaggiatori di passaggio com'era avvenuto che uomini fossero vissuti in quel luogo e in quel luogo fossero morti”.
Vanishing peoples.
* “Europeo”, 19 Settembre 1974. Intervista rilasciata a Massimo Fini.
** Scritto del 1970 pubblicato postumo su “Illustrazione Italiana”, Febbraio-Marzo 198
Esiste una biodiversità anche per la cultura. LA "Culturdiversità", e anch'essa va inesorabilmente scomparendo. Come la biodiversità, per altro...
RispondiEliminaIl tempo conduce verso l'omologazione massiva; scompaiono le particolarità, gli estremi, le eccezioni e resta il medio, il tiepido, il grigino...
Però non è mica una legge di termodinamica; si può preservare qualcosa.
L'entropia culturale pare inarrestabile.
EliminaSono parecchio scoraggiato; speriamo di non finire nelle riserve indiane ad ascoltare Josefus.