venerdì 31 gennaio 2014

Klaus Schulze - Blackdance (1974)


Il Pontefice Ottimo Massimo di una stagione irripetibile della musica europea. I dischi solisti della prima metà degli anni Settanta (tra cui Irrlicht!), i progetti collaterali e le collaborazioni storiche (Tangerine Dream, Ash Ra Tempel, Cosmic Jokers, Sergius Golowin, Walter Wegmuller) definiscono già una personalità d'eccezione.
Blackdance è uno delle ultime vette innevate e purissime da lui conquistati prima d'un graduale rotolare nelle valli della grossolanità. Devo ammettere, col cuore gonfio di dolore, che alcune opere recenti sfiorano l'inascoltabilità piena ... quando i tedeschi ci si mettono riescono nel cattivo gusto come pochi ... d'altra parte un popolo che ha Hegel e gli idealisti sul groppone: l'onnicomprensione o niente: non era proprio Hegel che credeva di aver racchiuso e delimitato la Storia nelle proprie pagine ... Storia che trovava il proprio compimento e perfezione proprio nei giorni in cui scriveva ... nella camera stessa in cui vergava quelle righe fatali ... che popolo temibile.
Ma Klaus, nel 1974, era assai lontano dalle pietanze indigeste degli anni a venire: i droni ronzanti, le tastiere che consegnano plasticamente alla nostra anima i vuoti interstellari (la grande Some velvet phasing), le pulsazioni elettroniche, tutto è opera di un profondo alchimista capace di distillare itinerari allo stesso tempo impalpabili e maestosi.
Attraverso tali circonvoluzioni sonore egli, forse, creò, per la prima volta, una sensibilità nuova: anticipatrice delle tendenze a venire quanto irrecuperabile nelle sue risonanze originarie.

Nessun commento:

Posta un commento