lunedì 3 febbraio 2014

Out of blue - Una conversazione

Pablo Picasso, Le vieux guitariste, 1903

Ovvero: out of blues
Uno sguardo trasversale e rigorosamente “eterodosso” sul blues, prodotto di un collage fatto di libere conversazioni tra blogger, sempre aperte a nuovi contributi e scritte nella speranza di sfuggire al solito nugolo di luoghi comuni e slogan superficiali che ammorbano questo genere musicale.
Percorsi non segnati, lontani da piantagioni, incroci e piedi caprini, che si intromettono in anfratti inesplorati e cercano di origliare a qualche porta nascosta.

Contributi di:

Evil Monkey

Massimiliano Manocchia

Vlad

* * * * * 
Don Van Vliet - China pig

E.M. Curioso iniziare una conversazione sul blues con un quadro astratto.
Ma questo “China Pig” è di un certo Don Van Vliet, pittore già apprezzatissimo in vita, che all'occasione faceva musica sotto lo pseudonimo di Captain Beefheart.
China pig, prima di essere dipinto, fu anche titolo di un brano del famigerato Trout Mask Replica: un brano che è uno dei grandi blues "eterodossi" del dopoguerra. Primordiale, rupestre come il quadro, razziale, finanche ironicamente razzista e politicamente scorrettissimo. Una TroubleEveryDay al contrario?
Procede a cadenza acustica, con quel tempo elastico di chi batte il piede a terra tanto per darsi una regola bella da infrangere più che da seguire. Nella sua eresia, finisce per essere l’idea stessa di blues che abbiamo nella testa, prima che nelle orecchie.
E' il prodotto di un musicista bianco, senza dubbio. Nessun vecchio bluesman di colore avrebbe potuto riprodurre quella “esternalità” di cui vive il brano, quella voluta de-voluzione, quello studiatissimo primitivismo. Non è certo la sublimazione della tecnica che piaceva agli appassionati britannici post-Yardbirds – post Mayall del periodo, nè la parodia un po' oscena di Bringit on Home dei Led Zeppelin o le schitarrate sublimi ma calligrafiche dei Fleetwood Mac. Credo sia il risultato analitico dell'occhio del pittore; che osserva la natura e la musica attorno a sè, quella bruciata dal sole, quella che preferisce. E la ridisegna e la ricostruisce filtrandola attraverso una personalissima sensibilità. Potrebbe esser un manifesto “indie” con 20 anni di anticipo, una visione di “alternative rock” da manuale.
China pig, il quadro, la canzone.
Il blues, quello che nell'immaginario è tradizione, continuità e immutabilità, che si presta alla travisazione e alla riscrittura con un’elasticità nascosta, tanto da divenire, nelle mani giuste, veicolo di innovazione.

Massi. Questa elasticità nascosta, più che gli stereotipi diavoleschi, è il vero elemento, o meglio qualità esoterica del blues. Riconoscibilissima in ogni sua multiforme diversità. La sparo grossa: è possibile che esista un filo occulto (e spinosissimo) che collega Robert Johnson ai Death In June? Facilissimo scorticarsi, lungo quel filo…
Una sola eretica nota aggiunta a una miserrima scala pentatonica e la musica è cambiata per sempre. A volte quella nota non viene nemmeno suonata, eppure ciò che ascoltiamo sa di blues. Se questa non è magia, cosa lo è? Mi spingo oltre: si può vedere il blues nel quadro di Van Vliet. E si può sentire il blues in Blood of winter dei succitati Death In June. Ed è blu(es) anche l’orrore dipinto sui volti dei puristi che stanno leggendo queste righe e che presumo si aspettino che io arrivi a concludere che ‘tutto è blues’. Ahi loro, non è questa la conclusione cui voglio arrivare. In realtà, non voglio arrivare a nessuna conclusione. Anche perché il blues, sotto qualsivoglia forma, non “conclude” mai, essendo la “sospensione” una delle sue caratteristiche – anche tecniche – precipue. Il che mi porta a dire che trarre conclusioni sul blues significa non aver compreso il blues. Con buon pace di LeRoi Jones (o Amiri Baraka, se preferite), che peraltro è passato a miglior blues il 9 gennaio di quest’anno. “Il Popolo del Blues” - pur nella sua blackness integralista – rimane forse uno dei testi migliori per cominciare a comprendere il tema, un punto di partenza quasi perfetto per chi voglia seguire un percorso lineare, limitato, tuttavia, alla tradizione.
Ma qui non è di tradizione che vogliamo occuparci. Qui rifuggiamo, pur riconoscendola,  la tradizione intesa come unica forma di verità pura. Qui rifuggiamo il blues come tradizione. Congelarlo entro rigorosi limiti espressivi e storici significa ucciderlo. Ciò che Van Vliet/Beefheart aveva compreso benissimo. E lo aveva compreso benissimo anche Zappa, il quale, dalla vetta dell’”esternalità”, seppe tendere fino all’impossibile l’elastico blues senza mai romperlo.

E.M. Zappa, Beefheart, Death in June da una parte. Il buon Amiri Baraka dall’altra.
Ma c’è una sintesi possibile tra il bianco e il nero?
O meglio: dopo anni di commistione - interpretativa sul palco, di ascolto tra il pubblico - i bianchi possono suonare il blues? Certo che si, quella è forse la cosa più facile.
Ma possono anche ascoltarlo senza, anche involontariamente, lasciarsi andare a quell’oppiaceo sonno paternalistico di chi ascolta l’espressione musicale, se non artistica, di una “razza” differente; che ha conosciuto schiavismo, umiliazione e che ancora non ha ricomposto quella frattura epocale?
L’ottimista risponderebbe “si”, anche se spesso, quando ascoltiamo i vecchi brani di Son House, Leadbelly e compagnia bella, spesso dimentichiamo o rimuoviamo, o NON vogliamo riconoscere che si tratta del prodotto di ubriaconi attaccabrighe, a volte perfino assassini, avanzi di galera analfabeti che hanno appreso quei tre accordi e poco altro e su quel poco altro hanno costruito tutto. Esagero?
Il blues revival dei primissimi anni ’60, un fenomeno che ha imposto all’attenzione del pubblico che conta (cioè quello che compra) un genere altrimenti “morente”, è stato fomentato dall’interesse un po’ morboso e snob di giovani borghesi bianchi dei college che ritenevano “alla moda” ascoltare in religioso silenzio qualche vecchia e cadente gloria da juke joint cantare sguaiatamente con una chitarra scordata.
Eppure… quella scordatura, quella sguaiatezza, quel vendersi prontamente a qualsivoglia pubblico per qualche spicciolo… Quella “sospensione” – come la chiama Massimiliano - quella fatidica nota incerta e perennemente in bilico: sono loro che fanno tutto il lavoro sporco e rappresentano anche una discriminante importante tra libertà interpretativa e rigore esecutivo. Il blues sta dalla parte della prima, e non c’è ipertecnicismo claptoniano che possa farmi cambiare idea.
Due grandi visionari hanno dato “definizioni” della loro musica che pur non essendo blues, penetrano il cuore della questione.


Quell’ultima frase non andava perché I’avete suonata giusta. Dovete suonarla sbagliata, appena in anticipo. È molto efficace. È così che suonavano i vecchi jazzisti. Suonavano appena in anticipo, poi i musicisti di Chicago decisero di suonare appena in ritardo, il che non è facile. Appena in anticipo o appena in ritardo. E poi c’è la musica suonata perfettamente a tempo. Be’, quello possono farlo i bianchi
Se è a tempo ti vengono a dire: «Quella è roba mia!» Se anticipi o ritardi quelli là parlano di te e dicono che quella non è mica musica, perché non la sanno suonare. Se suonate a tempo siete spacciati, non troverete un lavoro. Perciò anticipate, senza contare.

Sun Ra

Fu quando mi accorsi che facevo degli errori che mi resi conto che ero sulle tracce di qualcosa di nuovo

Ornette Coleman

Cosa significa?
Non so; almeno non so dirlo a parole. Ma se ascoltate Lonely woman capirete senz’altro.

Vlad. Dobbiamo definire il blues?
Secondo me è necessario. Non per averne un concetto giusto; o accademico. Solo per capire di cosa parliamo. Per comprendere, in tale discorso, cosa NON è blues.
Ho letto Jones, e La Musica del diavolo e Lomax e, al di là della meritoria ricchezza dei testi e delle ricerche effettuate, musicali e culturali, ne sono rimasto un po’ sbalestrato. Non riuscivo a cogliere l’essenza profonda. Oltretutto l’esame del blues (del fenomeno afroamericano del blues) mi sembrava riduttivo.
Così ho raffinato una personale gerarchia di concetti che, per me ovviamente, definiscono il blues. Un blues internazionale, onnicomprensivo, ed esclusivo. Onnicomprensivo perché include ANCHE il blues afroamericano; esclusivo poiché esclude certe concrezioni sonore che, pur apparentemente blues, ne sono estranee.

1. TRADIZIONE. Sì, il blues è nel sangue. Immediato. Cola giù dagli antenati. Ce lo portiamo appresso. È prima dell’accademia. È la terra; un gesto che conserva la storia. Attraverso esso possiamo capire un popolo. È musica, ovvero un concetto senza parole.

2. IL BLUES OPERA IN TERRA STRANIERA. Quasi sempre un canto dell’esule. I neri americani, gli immigrati. I canti degli italiani immigrati; degli europei immigrati in America ad esempio nordici, irlandesi, ebrei, est europei: sono blues. I canti degli Americani bianchi costretti a emigrare durante la Depressione sono blues. Guthrie è blues. È blues anche il canto di chi rimane straniero nella propria terra: Aztechi, Incas, Guaranì; Tibet, Palestina.

3. IL BLUES APPARTIENE AGLI SCONFITTI. Gli sconfitti dalla storia: indios, africani, culture schiantate dal capitalismo di rapina. Il blues, spesso, è canto di nostalgia operato con linguaggio non proprio. Garcilaso de la Vega ha scritto poesie blues in cui rievocava con nostalgia i propri antenati Inca: le ha scritte in spagnolo, però. Leadbelly in inglese. I brasiliani in portoghese. I vietnamiti in francese. Molte volte si è blues senza saperlo. Dai canti blues, scritti nella lingua dei conquistatori, traspare la cultura del sangue, antica e inestinguibile.

4. IL BLUES ALL’OPPOSIZIONE. Contro il potere, inevitabile. Se passa al campo avverso, compiacendosi, non è più blues. Sarà un’altra cosa, pur bella, ma un’altra cosa. Attenzione! Non ne sto facendo una questione estetica. Steve Ray Vaughan, Gary Moore, Eric Clapton e compagnia sono bravi, bravissimi, ma non sono blues.

5. IL BLUES È ANTISPETTACOLARE. Non va in televisione. È retrogrado. Non va su facebook, twitter e non si lascia registrare dalla Virgin. Non perché sia snob, ma perché individua da subito il nemico. Al massimo, come detto, si serve della lingua e dei costumi dei conquistatori e dei tiranni, ma solo perché questi hanno distrutto e disperso la sua cultura.

Attraverso questo setaccio si opera un filtro da cui si ottengano risultati bislacchi, ma originali.
I bluesman afroamericani degli anni Dieci blues, va bene. Anche molti jazzisti sono blues. Non è un fatto razziale, però. Guthrie è più negro di Obama, secondo me. I canti tradizionali sono blues. La world music mainstream no. Una lavandaia italiana che canticchia è blues, certe blues singers leccatissime no, anche se blueseggiano a tutto spiano. Le jug band sono blues, il Live Aid no, anche se canticchiavano per l’Africa. Il talking blues bianco è blues. Il rap disco di Afrika Bambaata è blues; Snoop Dogg no. I tamburi rituali giapponesi buddisti sono blues; Haino è blues; i Rolling Stones e i Led Zeppelin no. Leadbelly è un ignorante e un assassino, ma è blues; BB King che suona con gli U2 no. Hendrix è blues, la disco music nera no. Eduardo Galeano è blues; i Blues Brothers no. E così via … Antonio Ligabue e van Gogh sono blues, Mario Schifano e Magritte no.


Massi. La risposta a una “sintesi possibile tra bianco e nero” su cui s’interroga Evil credo sia in parte stata già fornita da Vlad (quanto meno dal punto di vista concettuale), e la citazione di Sun Ra è una conferma illuminante del fatto che il blues sia soprattutto “libertà interpretativa” e non “rigore esecutivo.” Sotto il profilo tecnico (e non solo), questa è la ragione per cui tantissimi bluesmen, soprattutto bianchi, non sono affatto bluesmen.
Nell’istante in cui si cerca di suonare inseguendo il rigore stilistico della tradizione e i canoni più o meno accademici delineati nel corso del Novecento (le 12 battute, la sequenza armonica I7-IV7-V7,  le blue notes, ecc.), il blues sfugge, sparisce, non si fa trovare.
Il blues è una puttana. Non di mestiere. Di natura. Il concetto di “appena in anticipo o appena in ritardo” di cui parla Sun Ra non è formalmente codificabile ma è proprio in quella frazione di secondo, in quel varco spazio-temporale tra la nota suonata in anticipo o in ritardo e il punto esatto in cui dovrebbe essere suonata che accade la magia blues. Ed è lì che vivono i perdenti, gli sfruttati, gli emarginati, gli esclusi; non sono mai perfettamente a tempo, non sanno esserlo, non vogliono esserlo. Ed è sempre lì, in quel microscopico vuoto che sa quasi di antimateria, che nascono le novità, le intuizioni e le diversità. In una parola, la Libertà. Quando Sun Ra afferma, “E’ così che suonavano i vecchi jazzisti,” incita alla libertà espressiva chiamando in causa la tradizione. A ben pensarci, non è quello che hanno fatto anche i Kraftwerk? Trans-Europe Express non è forse blues europeo futuribile?
Mi piace molto il “setaccio” costruito da Vlad; ha un retino a maglia finissima e il suo utilizzo potrebbe contribuire a una ridefinizione del concetto di “blues” senza pregiudicarne l’essenza.

Playlist

Captain Beefheart - China pig
da: Trout mask replica (1969)

Frank Zappa  - Frank Zappa - Trouble every day
da: Freak out! (1966)

Kraftwerk - Trans-Europe Express (1977)

Death In June - Blood of Winter
da: The world that summer (1986)

Ornette Coleman - Lonely woman
da: The Shape of Jazz to Come (1959) 

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