mercoledì 12 novembre 2014

Fabrizio De André - Volume 1 (1967)/Volume 3 (1968) ovvero Storia di Rosa, la fanciulla rapita dal Tevere che ispirò Fabrizio De André

La canzone di Marinella è uno dei brani più celebri della canzone italiana, senza alcun dubbio. Pubblicato nel 1964, senza alcuno strepito, come lato B di un 45 giri (Valzer per un amore era il lato A), esso fu portato al successo, tre anni più tardi, dall'interpretazione di Mina.
La canzone narra di una morte, della morte di una ragazza; e deve il fascino profondo, oltre alla calda scansione di De André, al modo in cui tale tragedia, irrimediabile, viene addolcita da toni delicati e malinconici.
Trentacinque anni più tardi, in un’intervista, il cantautore rivelerà: “La canzone di Marinella non è nata per caso, semplicemente perché volevo raccontare una favola d’amore. È tutto il contrario. È la storia di una ragazza che a sedici anni ha perduto i genitori, una ragazza di campagna dalle parti di Asti. È stata cacciata dagli zii e si è messa a battere lungo le sponde del Tanaro, e un giorno ha trovato uno che le ha portato via la borsetta dal braccio e l’ha buttata nel fiume. E non potendo fare niente per restituirle la vita, ho cercato di cambiarle la morte».
Ma chi era Marinella, nella realtà?
Forti di tale dichiarazione (Ipse dixit) alcuni esegeti si son messi in caccia e, dopo lunghe ricerche, son arrivati alla soluzione del tenue enigma.
Da Wikipedia:

“Il celebre brano potrebbe trarre ispirazione da un fatto di cronaca realmente accaduto nel 1953 e precisamente il ritrovamento nel fiume Olona tra Rho e Milano del corpo crivellato di colpi di una ballerina/prostituta, una certa Maria Boccuzzi. Secondo lo psicologo astigiano Roberto Argenta la vicenda avrebbe ispirato il brano musicale … Nata l'8 ottobre 1920 nel piccolo centro calabrese di Radicena … Maria Boccuzzi emigrò assieme alla famiglia a Milano all’età di nove anni, in cerca di un lavoro migliore. Nel 1934 iniziò a lavorare sul posto di lavoro conobbe uno studente spiantato, Mario, di cui s'innamorò … Le difficoltà economiche e l’impossibilità di riallacciare i rapporti con la famiglia portarono alla fine del rapporto amoroso. Dopo appena un anno, i due si lasciarono. A questo punto, senza dimora e senza lavoro, decise di intraprendere la strada di ballerina di varietà col nome d’arte di Mary Pirimpò. Qui conobbe Luigi Citi, di cui divenne l’amante, che la 'cedette' a Carlo Soresi … di professione protettore, che l’avviò alla prostituzione ... Iniziò a prostituirsi in una casa chiusa a San Salvario (Torino), poi a Firenze, per approdare a Milano … La notte del 28 gennaio 1953 Maria Boccuzzi venne uccisa a revolverate e spinta nell'Olona forse ancora agonizzante”.

Il caso filologico pareva chiuso.


Nel 2001, tuttavia, un rigo (un rigo appena) riapre il dibattito. In un articolo sull’inumazione del poeta Gregory Corso presso il cimitero acattolico di Roma, il critico musicale Gino Castaldo revocava in dubbio la precedente e brillante ricostruzione:
La tomba di Corso è nella parte alta del cimitero, accanto alle mura antiche, immediatamente sotto quella di Shelley, il poeta che amava di più, e poco sopra quella della sconosciuta Rosa Bathurst, morta sedicenne, annegata nel Tevere, che poi tanto sconosciuta non è, considerando che, come pochi sanno, è la figura che ha ispirato la Marinella della omonima canzone di Fabrizio De André(1).


Cammeo funebre di Rosa Bathurst

Non sono riuscito a trovare scritti in cui Castaldo dettagliasse questa sua convinzione.
Ma la soluzione Rosa Bathurst mi è piaciuta subito e l’ho seguita come un ragazzo segue l’aquilone.
Rosa Bathurst? Chi è costei?
Figlia di Benjamin Bathurst, un diplomatico inglese, Rosa si trasferì a Roma, appena quindicenne, con gli zii (Lord Herbert Aylmer e Lady Diana Aylmer), nell’ottobre 1823 (era l'epoca del Grand Tour). Ottima cavallerizza, bellissima, e di spirito spontaneo e arguto, la Bathurst divenne, da subito, una delle regine dei salotti romani. Nel marzo del 1824, ella partecipò a una gita a cavallo (promossa dall’ambasciatore francese a Roma, il duca Laval de Montmorency) assieme agli zii, al console inglese, e al promosso sposo, Algernon Percy, figlio di Lord Beverley. Era il primo giorno di sole dopo una serie abbondanti piogge che avevano gonfiato il fiume. Al ritorno, verso il tramonto, la comitiva fu costretta a passare per un sentiero angusto, stretto fra l’argine vero e proprio e la sponda, sommersa dall’impetuosità della corrente. La ragazza si trovò di fronte un muretto: il cavallo, nello spiccare il salto, puntò le zampe posteriori, ma queste sdrucciolarono sulla fanghiglia e l'animale scivolò nel fiume assieme alla sua giovanissima amazzone vestita d’azzurro (2).



A nulla valsero i tentativi di salvarla.
Rosa ebbe il tempo di invocare aiuto, poi scomparve tra i flutti e i vortici del Tevere.
La notizia della tragedia provocò una sensazione vivissima in tutta Europa.
Gioachino Belli e Ippolito Pindemonte scrissero due elegie subitanee in morte di Rosa; una folla piangente si riunì spontaneamente presso piazza di Spagna, dove la piccola inglese alloggiava; l’episodio fu rievocato inevitabilmente da parecchi diaristi e memorialisti dell’epoca: Stendhal, Chauteubriand, la duchessa d’Abrantes, la contessa La Grandville, E.-J. Delécluze.
Il corpo venne ritrovato alcuni mesi dopo, nei pressi del Ponte Milvio, ancora incorrotto:
“Apparve il volto, intatto come il resto del corpo, come le mani bianchissime, Era ancora la bella Miss, bianca come il marmo statuario” (3).
Dopo tale breve ragguaglio, sono necessarie tre domande.

1. Per quali vie un giovane cantautore genovese è entrato in contatto con tale vicenda, riservata a cultori di storia locale?
2. Quali analogie fra Marinella, protagonista d'una ballata italiana del 1964, e Rosa, sedicenne inglese del 1824?
3. Perché De André (secondo il mio debol parere, ovviamente) mentì a proposito della sua ispirazione?

1a. La risposta alla prima domanda, come spesso accade, può essere più semplice del previsto. Nel 1952 uscì, per i tipi della Gherardo Casini (collana I Romanzi dell'Ambra), una versione romanzata del tragico caso di Rosa Bathurst. Ne era autore un americano trapiantato a Roma, George (Giorgio) Nelson Page. Titolo: Il racconto di Rosa Bathurst. È quindi ragionevole pensare che, fra il 1952 e il 1964, fra le mani di De André sia passato proprio questo libro; una congettura accettabile: difficile che il Genovese abbia letto Belli, Pindemonte, Chateaubriand o Stendhal (difficilmente reperibili e non proprio nelle sue corde culturali); ancor più improbabile, peraltro, ch'egli abbia visitato il cimitero di Testaccio (ricordiamolo: stiamo parlando di un De André adolescente o, al massimo, ventitreenne).

La tomba di Rosa Bathurst presso il Cimitero Acattolico di Roma,
nel quartiere Testaccio

Il romanzo di Nelson Page, recensito anche da Benedetto Croce, benché privo di pregi letterari, è di scorrevole lettura e, soprattutto, storicamente informato. 
Page romanza con cura il soggiorno rimano della sedicenne inglese, dall'ottobre 1823 al 14 marzo 1824.
L'unica concessione alla fantasia è il tema centrale: l'amore fra Rosa e Giovannino della Genga - una passione ostacolata dalla diversa appartenenza religiosa (lui è cattolico, lei anglicana, e, quindi, eretica).

2a. Passiamo al raffronto dei testi. Noteremo, quale considerazione d'indole generale, che l'atmosfera della canzone rimanda a un mondo poetico delicato e virginale, declinato con toni privi di accusa, sarcasmo o malizia - un lembo poetico di sensi sorgivi e platonici, in cui a dominare è un rimpianto potente e immedicabile, quello dell'amore per una giovinetta (vivesti un solo giorno come le rose); un tono affatto diverso da quello proprio a un fatto di cronaca nera, intorbidato dalla violenza e dalla volgarità sessuale (si noti, inoltre, che Maria Boccuzzi era donna fatta ed esperta, ben sopra la trentina).
E ora veniamo al testo, che, per agevolare la comprensione, proponiamo subito nella sua interezza.


Questa di Marinella è la storia vera
Che scivolò nel fiume a primavera
Ma il vento che la vide così bella
Dal fiume la portò sopra una stella.

Sola senza il ricordo di un dolore
Vivevi senza il sogno di un amore
Ma un re senza corona e senza scorta
Bussò tre volte un giorno alla tua porta.

Bianco come la luna il suo cappello
Come l'amore rosso il suo mantello
Tu lo seguisti senza una ragione
Come un ragazzo segue l'aquilone

E c'era il sole e avevi gli occhi belli
Lui ti baciò le labbra e i capelli
C'era la luna e avevi gli occhi stanchi
Lui pose le mani sui tuoi fianchi.

Furono baci e furono sorrisi
Poi furono soltanto i fiordalisi
Che videro con gli occhi e con le stelle
Fremere al vento e ai baci la tua pelle.

Dicono poi che mentre ritornavi
Nel fiume chissà come scivolavi
E lui che non ti volle creder morta
Bussò cent'anni ancora alla tua porta.

Questa è la tua canzone Marinella
Che sei volata in cielo sulla tua stella
E come tutte le più belle cose
Vivesti solo un giorno come le rose

E come tutte le più belle cose
Vivesti solo un giorno, come le rose.

- “Questa di Marinella è la storia vera/che scivolò nel fiume a primavera”

'Storia vera': verissima, anzi, fatto di rilievo storico quello di Rosa Bathurst.
'Scivolò nel fiume': il verbo scivolare, come detto, è molto preciso e usato nei resoconti dell'incidente: le zampe posteriori del cavallo persero il contatto col terreno, a causa della mota sulla riva, peraltro esigua a causa della piena: animale e cavallerizza scivolarono, perciò, come un sol corpo, verso i gelidi flutti del Tevere.
'A primavera': il 14 marzo, giorno di sole che annunciava la prossima bella stagione. Au contraire, Michela Boccuzzi fu gettata nell'Olona a fine gennaio, durante il mese invernale par excellence.

- “Ma il vento che la vide così bella ...”

Il romanzo insiste molto sull'abilità di amazzone di Rosa Bathurst (cominció a cavalcare sin dalla prima infanzia). Il vento che la vide così bella, è quello della campagna romana, luogo delle sue lunghissime cavalcate. Un vento che Page concreta anche il fatale 14 marzo:
"Che cosa era quel gelo che, dai piedi, le saliva lungo la spina dorsale, fino a neutralizzare le sue facoltà di pensare? Era il vento freddo della campagna romana, o erano già i brividi mortali che la prendevano per prepararla al baratro che aveva sentito, ma non veduto, in quell'ultimo sogno del mattino?".
E Rosa Bathurst bella lo fu davvero, per concorde ammissione di tutti i cronisti dell'epoca: ad esempio, di Stendhal ("L'année dernière la pauvre Miss Bathurst brillait dans ces riunions; plusieurs étrangers la trouvaient la plus belle personne de Rome) e di E. -J. Delecluze (Miss Bathurst est gracieuse delà de toute expression); e di Page stesso, ovviamente.

- “Dal fiume la portò sopra una stella”

Sembrerebbe un verso generico, ma ha riscontri nelle due ultime righe del libro ("Perché viva e morbida come quel giorno [della resurrezione] sarà ridivenuta perfino la lunga veste [azzurra] di amazzone, andata, come Rosa, a confondersi nell'azzurro del Cielo"), nell'iscrizione funebre della tomba, riprodotta all'inizio del romanzo ("Qual rugiada in sul primo mattino/Vaga e pura nel cielo esalò") e, infine, nel bassorilievo tombale vero e proprio dove Rosa, classicamente panneggiata, ascende dalle acque fatali sino in cielo, assieme ad un un angelo.
Ancora: nel romanzo si insiste su tale Rosa celeste: "Voi ... parlate con il tono di una donna, mentre il vostro viso è quello di una fanciulla. Una bella fanciulla discesa dal cielo. Siete forse un angelo travestito?".
L'azzurro cielo della veste di Rosa spicca sulla sovracopertina del libro.

- “Sola senza il ricordo di un dolore”

'Senza il ricordo di un dolore': Rosa era orfana: il padre, Benjamin Bathurst, scomparve misteriosamente in una missione diplomatica nel 1809, quand'ella era ancora in fasce; per questo De André può parlare di dolore, ma senza ricordo. Page ricorda con dovizia di particolari tale sventura. 
'Sola': nel romanzo, la madre, Phyllida, e i fratelli maggiori, non erano a Roma durante il soggiorno (gli zii fungevano da chaperon). 

- “Vivevi senza il sogno di un amore”

Nel romanzo Rosa, benchè adolescente, è promessa in isposa a un giovane, ma grossolano aristocratico inglese, Algernon Percy, ch'ella si rende conto di non amare ("[ringraziava] Iddio di averle mandato l'amore vero, quell'amore che non le si era rivelato sulla punta dei baffi ridicoli di lord Algernon Percy"). L'amore vero, incontrato a Roma, a un ballo del duca Torlonia, è Giovannino della Genga, anch'egli bello e giovanissimo ("Era giovine. Aveva solo diciannove anni ... era di carnagione delicata, con i capelli neri, lievemente ondulati. L'espressione era quella di un sognatore. Alto e snello, vestiva con eleganza parsimoniosa ...).


- “Ma un re senza corona e senza scorta/Bussò tre volte un giorno alla tua porta”

Giovannino della Genga era marchese e nipote del Papa Leone XII. Come ricorda Page, Giovannino, quale discendente del pontefice sovrano, vantava diritti da principe del sangue; la famiglia d'origine, tuttavia, benché aristocratica, era di scarsi mezzi e viveva frugalmente e senza partecipare alla vita mondana della città. Lo stesso Giovannino "aveva sempre vissuto modestamente": l'innamorata di Rosa vanta, insomma, un alto lignaggio di sangue ("Quando entra in un palazzo o in una chiesa, lo salutano come un principe reale"), ma, di fatto, non riveste alcun ufficio garantitogli dalla nobiltà ("senza corona") né possiede, poiché di basse condizioni economiche, servi, domestici o famigli ("senza scorta").
Quel "tre volte" può forse alludere alle tre scene principali del romanzo in cui i due protagonisti s'incontrano.

- “Bianco come la luna il suo cappello/Come l'amore rosso il suo mantello”

Il secondo incontro fra Rosa e Giovannino, quello in cui si rivela in pieno il loro bruciante amore, avviene in San Pietro. All'uscita della basilica splende la luna. Giovannino le offre il mantello.
"Uscirono dalla basilica ... La piazza era quasi deserta. Il timido ultimo quarto di luna non riusciva a promettere una di quelle notti argentate che a Roma fanno confondere i ruderi dell'antichità con la vita. Le stelle brillavano già ... faceva un po' freddo. Rosa era senza mantello. Giovanni le offrì il suo.
- Oh no, grazie, non sarebbe conveniente. - E Rosa arrossì nell'oscurità.
Eppure avrebbe tanto desiderato avvolgersi nel pesante mantello di lui, dove era conservato il suo profumo, che era il profumo del suo corpo giovine e innamorato, assai più forte e bello di qualsiasi essenza. Avrebbe voluto nascondersi sotto quel mantello che l'avrebbe protetta contro il mondo".

- “Furono baci e furono sorrisi/Poi furono soltanto i fiordalisi”

Nel romanzo il rapporto fra Rosa e Giovannino è assolutamente casto, in perfetta congruità, come detto, con l'intima ispirazione della canzone. I due innamorati si scambiano un bacio sulla bocca, per la prima e ultima volta, durante l'ultimo loro incontro (il terzo), prima della separazione definitiva: Giovannino parte per Spoleto, Rosa morirà l'indomani. Nel romanzo l'arrivo di Giovannino è preannunciato da una lettera dell'ambasciatore francese a Roma, su cui spiccano i simboli della monarchia transalpina: i fiordalisi.
"Lady Aylmer uscì nel corridoio. - È arrivato Sua Eccellenza il marchesino - disse il maggiordomo inchinandosi. - Ha portato questa lettera per Vostra Grazia.
Lady Diana guardò la busta. C'era impresso uno stemma: i gigli di Francia. Veniva dal signor di Montmorency".
Quel 'soltanto' può, quindi, significare: dopo i casti sorrisi, e i baci, ecco i fiordalisi, forieri di un addio, della fine di un amore puro e sfortunato.

- “Dicono poi che mentre ritornavi/Nel fiume chissà come scivolavi”

Ancora un distico molto preciso.
'Dicono': si riferisce ai vari resoconti della tragedia contenuti nelle cronache del tempo, e ben conosciuti da Page. 
'Mentre ritornavi': la morte di Rosa avvenne proprio al ritorno dalla gita nella campagna romana, quando la comitiva stazionava in fila indiana lungo la riva destra del Tevere, presso Ponte Mollo/Ponte Milvio.
'Chissà come': Page, fra le cause dell'incidente, insinua, oltre alla fatalità, la colpa di Algernon Percy che, roso dalla gelosia, non trattenne, come avrebbe potuto, le briglie del cavallo: mentre scivolava nel fiume Rosa invocò, infatti, il nome di Giovannino.
'Scivolavi': sull'appropriatezza del termine ci siamo già dilungati.

- “E lui che non ti volle creder morta/Bussò cent'anni ancora alla tua porta”

"Quando la notizia giunse a Spoleto, Johndino per molti giorni si ostinò a non credervi ... da quel momento pensò soltanto a lasciarsi morire ... durò ancora pochi mesi. Morì prima del ritrovamento di Rosa. E ai medici che lo confortavano, chiedeva soltanto di non prolungargli l'agonia.
Teneva continuamente dinanzi agli occhi la miniatura del pittore Anselmi ... all'ultima confessione, volle baciarla ... per altri due giorni continuò a [invocare Rosa] con il pensiero, dato che l'affanno gli aveva spento la parola".
Johndino è una amabile storpiatura usata da Rosa, a mezzo fra Johnny e Giovannino.
Cent'anni è iperbole fiabesca (anche in Don Raffaé: "al centesimo catenaccio/io la sera mi sento uno straccio"), confacente, peraltro, a un legame di fedeltà che i due innamorati s'eran giurato eterno.

- “Vivesti solo un giorno come le rose”


Qui il cantautore non si riferisce solo alla giovanissima età della Bathurst, ma, grazie alla tecnica trovadorica del senhal, ne cela il nome entro il verso; quest'ultimo viene ripetuto, proprio in chiusura: in tal modo viene a caricarsi d'una inconsueta intensità drammatica e romantica, ben conosciuta da chiunque abbia ascoltato o ricantato la ballata.

3a. La precedente notazione ci introduce all'ultimo punto: perché De André mentì sull'ispirazione della canzone? La mia risposta è: egli non mentì che in parte; potrebbe dirsi: da poeta/trovatore sviò la volgare curiosità. Egli s'avvalse, insomma, come detto, della tecnica del senhal, propria dei trovatori provenzali e, più tardi, dei maggiori poeti italiani del tredicesimo secolo.
Il senhal consisteva in una figura retorica per cui l'identità dell'amata (occasione e causa della lirica) veniva celata tramite poliformi trucchi linguistici:

Bernat de Ventadorn: Mos azimans (mia calamita; Eleonora d’Aquitania?)
Cavalcanti: Fresca rosa novella/piacente primavera (Giovanna)
Petrarca: Erano i capei d'oro a l'aura sparsi (Laura)
Dante: Deh, Violetta, che in ombra d'amore (scrive di Violetta, schermo alla verità: Beatrice)

Che il primissimo Fabrizio De André avesse commercio culturale con tale universo è testimoniato da precisi riferimenti ad autori molto risalenti contenuti nei suoi brani: cinquecenteschi (Ronsard, Valzer per un amore), quattrocenteschi (François Villon, La ballata degli impiccati), trecenteschi (Cecco Angiolieri, S'i fosse foco).
Egli utilizzò il senhal in modo potente: parlava di rose, ma intendeva Rosa; declamava il nome di Marinella, ma si riferiva a una sedicenne bellissima e sfortunata.
Infine, con tratto beffardo, ingegnò una vera e propria donna-schermo alla verità: una prostituta gettata in un fiume.
Tale soluzione può apparire lambiccata solo a chi non ha dimestichezza con il mondo dei trovatori, al contempo amanti fedeli, guerrieri, giullari e libertini, la cui produzione sottende sempre, anche quando il lirismo è chiaro e facile a intendersi, un doppio fondo concettuale complesso e favolosamente remoto (e ricordiamo: le loro poesie d'amor profano eran sempre musicate) (5).
Sembra troppo per un cantautore?
Non dovrebbe apparir tale, anzitutto, all'acritica e inesausta pattuglia di agiografi che ammannisce ripubblicazioni, raccolte, rimembranze, concerti, riunioni, e libri - libri di qualunque taglio, formato e qualità.
E poi, no, personalmente non mi sembra esagerato.
Se sbaglio, al massimo avrò prodotto uno svago (ovvero: una porzione di letteratura).
Se non sbaglio vorrà dire che, a più di quindici anni dalla morte, avrò assegnato a una delle più celebri composizioni della canzone italiana un ulteriore, prezioso attributo: quello della complessità.

(1) Gino Castaldo, Sepolto accanto a Shelley il poeta della beat generation, La Repubblica, 6 maggio 2001.
(2) Il cavallo riguadagnò la riva incolume.
(3) Cesare Malpica, Roma visitata da un cattolico e da un artista : nuovissima opera per render facile la conoscenza della città eterna ad ogni persona in ogni luogo, 1847
(4) Nell'intervista egli parla di un'orfana sedicenne cacciata dagli zii: Rosa morì, infatti a sedici anni; era orfana di padre e, di fatto, di madre (Phyllida Bathurst, il fratello e la sorella maggiori erano a Torino); e fu tradita dagli zii che, deputati all'incolumità, non riuscirono, invece, a salvarla.
(5) Non è ozioso ricordare una scelta compagnia di trovatori genovesi: Percivalle Doria e Lanfranco Cigala, in primis; e poi Bonifacio Calvi, Lucas De Grimalti, Alberto Quaglia, il notaio Ursone, Jacopo Grillo.

4 commenti:

  1. un post veramente interessantissimo, forse non sono completamente d'accordo su le soluzioni al quale sei arrivato (mi chiedo davvero perchè De Andrè avrebbe dovuto mentire), ma comunque dai degli spunti su quale riflettere davvero interessanti

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    1. TI ringrazio.
      Mentire è una parola troppo forte: diciamo, come ho spiegato, che i poeti/trovatori dicono qualche bugia perché lo richiede la forma della poesia.

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  2. Vlad il tuo bellissimo commento al post di Massi, l'ho postato nel mio blog. Se hai qualcosa in contrario, basta che me lo dici. ciao

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