venerdì 2 dicembre 2011

H.P. Lovecraft - H.P. Lovecraft I (1967)/H.P. Lovecraft II (1969)

Formatisi a Chicago, ma attivi soprattutto in California, gli H.P. Lovecraft* durarono lo spazio di due album (in tre anni). Abbastanza trascurati all'epoca, si imposero, come a volte accade, sul lungo periodo. Sgombriamo subito il campo: il richiamo al celebre solitario di Providence fu voluto esclusivamente da Bill Traut e George Badonsky, proprietari della casa discografica Dunwich (The Dunwich horror è uno dei migliori racconti dello scrittore): nonostante i musicisti stessi dichiarassero di ispirarsi al mondo alternativo di Lovecraft (in cui la Terra e l'universo sono retti da entità maligne, antichissime e irriducibilmente inumane) il loro primo album consiste unicamente in un piacevole mélange di psichedelia e folk. Gran parte dei pezzi sono rifacimenti di Fred Neil (Country boy & Bleeker Street, That's the bag I'm in), Dino Valente (Let's get together), Travis Edmonson (The drifter), Randy Newman (I've been wrong before) cui si somma il tradizionale Wayfaring stranger; le canzoni originali si limitano al blando jazz di That's how much I love you baby, a Time machine, garbata marcetta da teatrino vaudeville e a The white ship, il loro singolo più famoso: basato su una ritmica da bolero, arricchito da tocchi orientaleggianti e dai toni potenti e cullanti di Edwards e Michaels, esso conserva una indubbia qualità ipnotica ed insinuante. D'altra parte, nel racconto omonimo di Lovecraft, la nave era una efficace metafora della morte.
Il disco seguente confermerà la vocazione per le piacevoli ballate da West Coast (High flying bird, Keeper of the keys) e le celebrazioni psichedeliche (At the mountains of madness, sorta di replica di The white ship**, e la notevole Electrallentando, scritta da Edwards); il tutto risulterà inoltre più compiuto giovandosi del lavoro dell'ingegnere sonoro Chris Huston abile a conferire all'album un retrogusto vago e sognante e una pulizia nell'impasto strumentale davvero eccellente.
Due opere nel solco della tradizione californiana e hippy, con toni scontati, almeno nel primo episodio; non mancano certo punte memorabili e l'effetto nostalgia (canaglia?) alza il livello estetico. Rimane da capire l'esaltazione per i debolissimi allacci con la prosa di Lovecraft e per l'individuazione di atmosfere “misteriose ... ispirate da ...”, davvero inesistenti. Potenza dei nomi. 


* George Edwards (voce, chitarra); Tony Cavallari (chitarra); Dave Michaels (voce, tastiere); Jerry McGeorge (voce, basso) poi sostituito da Jeff Boyan (basso); Michael Tegza (batteria).
** At the mountain of madness è, infatti, il titolo d'un altro racconto di Lovecraft.

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