Duo inglese e nome norvegese (traduzione di Warlock of the Firetop Mountain, titolo del primo libro di una serie fantasy di Steve Jackson e Ian Livingstone), i Trollmann av Ildtoppberg consistono di David Terry (soprannome Thundarr, basso) e James Baker (Mordraaneth, organo, morto nel 2009), nativi di Newcastle upon Tyne, già Novocastro, ma in origine Pons Aelius (nome latino in terra inglese, quindi fonte gravida di rimembranze come insegna Machen).
Se l'ispirazione musicale rimanda a certo ambient di ambiente anglosassone e nordico, le fonti letterarie di Trollmann, desumibili dal lambiccato titolo, proprio di certe vaghezze della letteratura fantastica bassa, risiedono nelle saghe scandinave, in Tolkien, Robert E. Howard, Lovecraft. Da un tale materiale, apparentemente frusto e prevedibile, essi riescono, con mezzi poverissimi (basso più organo Roland, il tutto davvero low fidelity), ad organizzare larghe praterie monocrome in cui le esangui linee melodiche dei due strumenti, ripetute ossessivamente, pervengono ad un grado evocativo altrimenti impossibile con un’orchestrazione più complessa.
La title track, opera del bassista David Terry, introduce, nella sua pacatezza equorea, alle atmosfere dei successivi monoliti, Aeons of Darkness, Beyond the Void e, soprattutto, The Doom-Trolls of Grelch, di venticinque minuti. Si è da subito trasportati a volo d’aquila sopra paesaggi di solitudine antartica e ghiacci perenni, immobilizzati da tempi immemori, in cui torreggiano reperti di civiltà ignote, irriducibili all’umanità.
L’antecedente letterario più prossimo a tali suggestioni è il romanzo breve di Lovecraft At the Mountains of Madness, a sua volta ispirato alle battute finali del Gordon Pym di Edgar Allan Poe (“Ma ecco sorgere sul nostro cammino una figura umana dal volto velato, di proporzioni assai più grandi che ogni altro abitatore della terra. E il colore della sua pelle era il bianco perfetto della neve”); ma tale causalità vale solo a livello conscio. Vista l’origine anglosassone dei Nostri saremmo portati ad azzardare una ipotesi più profonda: che in tale opera, come in quella di certi gruppi drone-doom dell'Europa fredda, agisca una predilezione pagana antica e inconscia per le vedute desolate ed ampie, per l’elegia virile, per il rigore delle stagioni e l’inclemenza di un destino ineluttabile.
Il successivo EP si compone di tre lunghe tracce (rispettivamente 15, 17 e 11 minuti). Le glaciali contemplazioni di Ancient runes sono lontane; Aether e Doom's children, fondate su pesanti strumming di basso, tastiere spettrali e cupi recitativi, potrebbero funzionare, ma quali colonne sonore di horror minori anni Settanta; solo il pezzo eponimo, con lo scampanio in sottofondo, riesce a distinguersi appena dal tono dominante, già appiattito sulla maniera e i luoghi comuni del genere.
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