Le culture e i paesi nascono e muoiono.
Hanno una loro ascesa, che pare interminabile, in cui predomina la forza, e il delitto è senza colpa perché parte dell'idea irrinunciabile del progresso; quindi il rallentamento, allorché la potenza si dispiega come un frutto maturo davanti al mondo; s'inizia poi un breve declino, appena percettibile: i costumi sono ancora vigorosi, il popolo si crede immortale; le crepe, però, si fanno evidenti, le tradizioni si sfaldano, una diffusa mollezza rende permeabile il tronco allora vigoroso alle intrusioni della coscienza.
È in tale periodo di declino che sorgono i pentimenti e i ravvedimenti, e le nostalgie per la purezza perduta: al fondo di questi sentimenti opera una antica superstizione: quella di aver tradito il dio che teneva unita e prospera la nazione.
Ed è in tale periodo che cercano di riscoprirsi le radici di ciò che si è stati (anche in Italia è così: basta considerare il culto di cui gode il progressive e il cinema degli anni Settanta; al di là dei loro effettivi meriti).
Il folk di Robbie Basho e John Fahey scava alla ricerca di un paese primordiale, senza colpe, incontaminato dalla civiltà e, perciò, dal delitto. Se Florian Fricke e i Popol Vuh fossero nati nel Maryland avrebbero seguito a ritroso le stesse orme di Basho e compagnia: basta ascoltare le suite acustiche di Falconer's arm I per rendersene conto.
Le tracce di Basho, pur nella varietà delle influenze (musica tradizionale orientale, blues et cetera), sono la colonna sonora della ricerca della terra perduta d'America.
Thank you!
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