domenica 7 giugno 2015

Ennio Morricone per Dario Argento - Il gatto a nove code (1971)/L'uccello dalle piume di cristallo (1970)/Quattro mosche di velluto grigio (1971)


Questi film li ho visti troppi anni fa, in un'epoca in cui l'Italia contava ancora qualcosa; era, l'Italia, una nazione in cui ci si poteva permettere di liquidare Dario Argento (il primo Dario Argento) in nome dell'engagement: si era infatti nell'opulenza, ancora viventi Rossellini, Fellini, Visconti, Antonioni, Pasolini nonché, fra gli altri, due dei registi italiani fra i più sottovalutati di sempre: Damiano Damiani e Pietro Germi (se ne avete voglia andatevi a rivedere Il rossetto, pellicola di Damiani interpretata da Pietro Germi; poi mi dite; oppure L'istruttoria è chiusa, dimentichi, un capolavoro di feroce denuncia civile, o Un maledetto imbroglio).
Rivedere oggi le prime fatiche di Argento, con l'occhio smaliziato e disilluso dell'oggi, è un'esperienza che dona godimenti inaspettati. Ad esempio, una delle prime scene de L'uccello dalle piume di cristallo: il protagonista, Toni Musante, osserva, attraverso una doppia vetrata, in una ampia sala con scalinata che ospita delle inquietanti creazioni scultorie, una sanguinosa collutazione, tra una figura nerovestita e una donna; si incuriosisce; si avvicina; la figura in nero, intanto, fugge, lasciando la donna ferita all'addome; tale breve lotta è muta: i vetri impediscono qualsiasi suono; Musante supera cautamente la prima vetrata, ma non la seconda, serrata ermeticamente; l'assassino chiude la prima vetrata; il protagonista rimane perciò, intrappolato, come un insetto nell'ambra, fra le due porte, e costretto, quindi, a guardare, impotente, la donna ferita e gemente che si trascina a fatica, dissanguandosi.


La carica sadica e voyeuristica è intatta, pur a distanza di quasi mezzo secolo: Hitchcock avrebbe approvato (forse l'ha fatto); e approviamo anche noi: nonostante il diluvio di violenza e pornografia degli ultimi decenni (sempre più triviali), l'incanto di questi tre minuti sorprende ancora adesso; esito inevitabile quando si scandagliano regioni potenti e simboliche dell'animo umano.
Breve notazione: quanto dobbiamo a Dario Argento e quanto al decennio in cui operò Dario Argento?
In altre parole: Dario Argento, al netto della perizia tecnica, incontestabile, quanto deve agli anni Settanta? A quel torbido e ribollente brodo di cultura dove erano miscelate istanze libertarie, paure antidemocratiche, cambiamenti epocali del costume, presagi di stragi future?
Perché Dario Argento, nonostante quella perizia, è lentamente svaporato negli anni Ottanta? Come il kraut, il progressive, il punk? C'è bisogno di scomodare Eliot e il suo Tradition and individual talent?
Forse. Una cosa è sicura: i nostri tempi (questi che stiamo vivendo) sono unidimensionali. Molti film che cinquant'anni fa apparivano modeste increspature di genere oggi assumono un rilievo d'eccezione (cult); al contrario, molti film che oggi sono spacciati come capolavori in realtà non lo sonoA tali capolavori, spesso gonfiati dalle buccine della propaganda mainstream, manca proprio la profondità simbolica, la forza critica, e quel retaggio di contrasti e contraddizioni che rendeva notevoli i film degli Argento e dei Damiani. Sarà un caso, insomma, che alcune superstiti riviste cinematografiche si sdilinquano (spesso esagerando) per il cinema di genere italiano (gialli, horror, poliziotteschi)? Non sarà che Tomas Milian, Enrico Maria Salerno e Franco Citti, alla fine della fiera, vantino una filmografia, dal punto di vista del cinema d'arte, superiore a quella di George Clooney, Brad Pitt e Scarlett Johansson?
Sono domande, mica sacrilegi.
Interessantissime le colonne sonore di Ennio Morricone, distanti dal sound delle pellicole di Leone e sbilanciate verso le dissociazioni sonore del contemporaneo Gruppo Improvvisazione Nuova Consonanza, di cui Morricone fu membro fondatore (vedi Post rock vol. 6Post rock vol. 7; Post rock vol. 9).

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