Cosa devono i Velvet Underground al mentore Andrew Warhola (1928-1987)? Quasi nulla.
L'importanza storica del creatore dell'arte popolare per ricchi fu incalcolabile; il suo impatto sul costume postmoderno enorme; il suo rilievo artistico assomma a zero*.
Egli nacque come grafico pubblicitario e si mosse tutta la vita in quell'ambito effervescente e volatile. Comprese, prima di tutti, la potenza della persuasione occulta e la sfruttò con cinica determinazione. Questo il primo, decisivo, impulso alla sua carriera folgorante. L'America, terra promessa, terra senza storia, già abbondava di icone pubblicitarie, ovvero di individui e oggetti trasformati, per il puro esercizio commerciale, in simboli che potessero muovere la classe media al consumo. Egli si impadronì di tali feticci, li riprodusse serialmente e li fece propri segnandoli con vivaci coloriture (impiastricciandoli di colori primari come usa tra gli infanti). In tal modo l'effetto pubblicitario originale risultava non raddoppiato, ma reso al quadrato. Attori hollywodiani, barattoli di zuppe o biscotti, politici, mogli di politici defunti, bevande, egli stesso (negli autoritratti), furono le cavie di tale moltiplicazione mortuaria in cui egli rivendeva ciò che era stato pensato (da menti eccelse) per essere venduto al mondo intero. Tali reiterazioni non erano assolutamente al servizio d'una polemica anticapitalista o d'una, pur blanda, destrutturazione della società contemporanea; anzi egli voleva in tal modo glorificare la democrazia e, in special modo, la vorace, ossessiva democrazia americana: l'ultimo degli Americani e il loro Presidente bevono la stessa Coca-Cola: questo era per lui il segno della partecipazione egalitaria dei cittadini ad un progetto millenarista di prosperità e benessere. D'altra parte come poteva egli smentire la struttura sociale che l'aveva accolto e ricoperto di dollari, lui, povero immigrato ruteno che, a stento, a scuola, compitava inglese?
Fu appoggiato entusiasticamente da una critica militante e fanatica che elaborò sottigliezze filosofiche sul nulla (una volta i Pink Floyd portarono sul palco un sacco di patate e con quelle presero a percuotere i gong. I gonzi rimasero estasiati e trovarono, stavolta dal sacco della propria ignoranza, significati inesistenti: Waters, intanto, sghignazzava dietro le quinte).
Il ricco pubblico della Nuova York, la capitale del mondo, impazzì: finalmente un movimento artistico genuinamente americano: basta con i succubi di quell'Europa pesante di storia che reclamava, pur in modo residuale, la tirannia delle scuole e dell'apprendistato decennale. S'avanzi il concetto sbarazzino, la trovata. I mercanti si misero al lavoro, trovarono complici universali. I dollari cominciare ad affluire in massa: Warhol organizzò una factory, un gruppo di fricchettoni che, oltre ad indorare di una patina bohemienne la propria fama, gli consentì di liberarsi dal molesto gravame del lavoro**; quando una delle più brillanti menti di bottega, Valerie Solanas, cercò di accopparlo, i suoi affari non risentirono di quella momentanea défaillance, anzi crebbero: la 'fabbrica' lavorava in sua vece, sfornando idee e manodopera a costo zero.
Come cineasta agì da sovvertitore piccolo borghese: le sue frasi (voglio essere un occhio, una macchina da presa …) sono puro suono. Le pellicole (sfiancanti inquadrature di grattacieli, di un uomo che dorme, di un pompino fuori campo) valgono solo come curiosità buone pour epater les cretins. In questo fece scuola: oggi la pubblicità si basa proprio sulla 'trasgressività', ovvero sulla falsa sensazione, ingenerata nell'uomo di massa, di varcare i limiti del pudore: in realtà si tratta di crasso conformismo. Le cose migliorarono quando lasciò la regia in favore di un cineasta vero come Paul Morrissey: egli si ritrasse in veste di produttore lasciando il lavoro serio agli altri, ma vampirizzandone, al solito, i meriti - da mecenate interessato qual era.
Fu grande organizzatore di eventi multimediali, mondano intelligente, tessitore instancabile di relazioni promozionali: di lui si ricordano gli squisiti biglietti d'invito ai vernissage, l'algida fascinazione, l'esangue e proliferante corte bizantina, le scintillanti provocazioni nella capitale di una nazione in ascesa inarrestabile, pronta a unificare il gusto del mondo intero e a rifornirlo incessantemente dei propri incubi.
Si limitò ad immergere i Velvet Underground in un contesto umano irripetibile (quello del film Chelsea girls), vi trasfuse il fascino obliquo della modella tedesca Christa Päffgen e concepì la copertina del loro primo disco (secondo una grossolana allusività poi ripetuta ad infinitum dagli epigoni pubblicitari).
Il resto, quasi tutto, lo fece il talento di John Cale e di Lewis Reed.
* Un anno dopo la sua morte fu organizzata, da Sotheby's, un'asta dei suoi beni. Annota un agiografo: “E i barattoli dei biscotti? Dovevano esser costati a Warhol, tutti quanti, forse intorno ai 2000 dollari. Quando il martelletto del banditore batté l'ultimo barattolo, l'ammontare del lotto aveva raggiunto i 247.830 dollari”. Più avanti l'inghippo: “Non devono certamente esser stati pochi quelli che, tornando alla fredda luce del giorno, sono rimasti delusi dai loro acquisti e si sono sentiti perfino imbrogliati. Quando tutto è ormai stato detto o fatto, anche un barattolo di biscotti di Andy Warhol resta pur sempre un barattolo di biscotti”.
** Si obietterà che anche i laboratori di Bernini, Verrocchio e Rembrandt procedevano allo stesso modo; spesso il Maestro dipingeva solo teste e mani o, semplicemente, si riservava d'apporre la firma se l'opera era di suo gradimento. Molti capolavori sono espressione non dell'artista, ma della bottega. Un'obiezione solida e sensata. Certo, né a Bernini, né a Verrocchio, né a Rembrandt è saltato in testa di colorare scatole (o ciotole) di zuppa.
** Si obietterà che anche i laboratori di Bernini, Verrocchio e Rembrandt procedevano allo stesso modo; spesso il Maestro dipingeva solo teste e mani o, semplicemente, si riservava d'apporre la firma se l'opera era di suo gradimento. Molti capolavori sono espressione non dell'artista, ma della bottega. Un'obiezione solida e sensata. Certo, né a Bernini, né a Verrocchio, né a Rembrandt è saltato in testa di colorare scatole (o ciotole) di zuppa.
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