martedì 6 marzo 2012

Cold doom cold metal - Bathory - Hammerheart (1990)/Beherit - Drawing down the moon (1993)/Beyond Dawn - Revelry (1998)

Beyond Dawn
Tutti provenienti dalla Scandinavia (Bathory, Svezia; Beherit, Finlandia; Beyond Dawn, Norvegia), i tre gruppi presentati riuscirono, in diversa misura, a rinnovare il genere doom e black durante gli anni Novanta liberandolo dai più evidenti e sguaiati orpelli del trovarobato satanico, almeno a livello formale.
I capifila della rinascenza nordica del genere, i Bathory, si rifanno, inevitabilmente, alle fonti d'ispirazione che consentono di slegarsi dal conformismo ideologico occidentale, ovvero alla mitologia pre-cristiana (Valhalla), resa iperbolica da riferimenti ad un barbarismo cruento (Baptized in fire and ice). Nulla di nuovo, in realtà, ma i Nostri hanno il merito di declinare la materia abolendo certi trucchi melodici mainstream e alcune puerili goffaggini che hanno garantito, per decenni, rendite di posizione milionarie (Iron Maiden, ad esempio). Un costante muro chitarristico, un'interpretazione rallentata ed epicamente riecheggiante formano il tratto distintivo dei Bathory; essi non raggiungono davvero profondità evocative, ma Shore in flames e Home of once brave, in virtù della durata e dell'implacabile tappeto elettrico, hanno un fascino ipnotico notevole.
Anche i Beherit attingono al folclore pagano (The gate of Nanna, Unholy pagan fire), ma, rispetto ai Bathory, essi condensano in brevi pezzi il massiccio incedere delle chitarre e lo cadenzano pesantemente colle percussioni (a tratti catatoniche, Solomon's gate, Down there) e la vocalità di Mark Laiho, sorta di esalazione mefitica che si coagula in bisbigli maledetti, invocazioni gutturali, incantesimi. Non mancano momenti più rilassati (Nuclear girl, Summerlands), ma, come il Sampo del Kalevala finlandese macina eternamente farina e sale, così i Beherit triturano incessanti ogni aspettativa e apertura melodica.
I Beyond Dawn, con Revelry, ci consegnano il miglior lavoro della triade: l'aggressività dei precedenti lavori qui si derubrica in toni scuramente elegiaci grazie all’innovativo sottofondo dei fiati (evidente in Love's only true defender e Stuck); i norvegesi annullano con intelligenza ogni riferimento esclusivo al genere (che affiora, con i suoi topoi, solo a tratti), contaminandolo oltremodo, in alcune tracce, con un sommesso ricorso all'elettronica; il cantato di Espen Ingierd, cupo e dolente, rifugge da qualsivoglia cliché.
Questi tre esempi dimostrano che i Paesi dell'Europa fredda, nel breve volgere di un decennio, hanno indicato ad un genere musicale la via maestra per evolversi e, finalmente, affrancarsi dalle angustie di un kitsch ormai frusto e ridicolo.

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