domenica 24 luglio 2011

Vasco Rossi - Vivere o niente (2011)


Il 22 Aprile 1973 Pasolini recensisce una silloge di poesie, in larga parte italiane; oscilla tra noia ed irritazione: “In Italia c’è un numero enorme di poeti che scrivono delle poesie come se svolgessero dei compiti … Le loro esperienze, del resto, non si distinguono dalle esperienze di qualsiasi piccolo borghese italiano: un po’ di malinconia, un grande rispetto per le cose in se stesse, quelle ammodo, qualche viaggio, qualche amoretto reso modicamente metafisico, corretto però da un fare vagamente mondano, in cui si sente il sapore dello stipendio”.

Poi si addolcisce e concede che alcuni autori “vanno bene”; improvvisamente, però, si pente della menzogna e chiude con una esecuzione: “Ho letto questo libro lontano dall’Italia, in paesi in cui l’Italia non è nulla, non conta nulla, è conosciuta appena di nome: è forse a causa di questa ottica che di fronte alla letteratura italiana provo un vago senso di stanchezza, di insofferenza, e anche di vergogna, forse per essere meschinamente coinvolto in qualcosa di meschino”.
Ascoltando il paradigmatico Vasco Rossi, nonché i maggiori della canzone italiana – ascoltandoli e ingurgitandoli, oserei dire, mio malgrado e contro ogni mia volontà, da più di un trentennio, sovvengono con insistenza queste due rapide sparatorie in cui basta sostituire musica a poesia per avere il rendiconto esatto dei nostri tempi.
Ormai non c’è neanche bisogno di spostarsi dalla Madrepatria per accertare lo straniamento pasoliniano di fronte alla piccineria italica; la Rete rende accessibili decine di migliaia di dischi di ogni parte geografica. Tale semplice fenomeno, la fruibilità di cose che, fino a pochi anni fa, avremmo ignorato per tutta la vita, ha schiantato ogni giudizio di valore pregresso e reso decrepito il nostro mainstream.
Solo uno spietato apparato di propaganda, che detiene il monopolio dei vecchi media, riesce a tenere in vita queste appiccicose sopravvivenze.
Il loro universo è un sentimentalismo adolescenziale asfittico o venato di indefinibili nostalgie liceali – in ogni caso di quarta mano e scevro da qualsiasi anelito di gioia e libertà. La ‘protesta’ e ‘l’impegno’ vengono declinati secondo i dettami residuali di una controcultura vicina al mezzo secolo oppure di una goliardia fasulla che possa poi dire, alla fine: “non vi preoccupate, abbiamo scherzato”. Il tono è sempre generico e indiretto, per non offendere nessuno. Si risparmiano le istituzioni tutte; si aborre l’ellisse, l’allusione, il simbolismo; au contraire dilaga la didascalia: se un italiano urla le pene d’amore o il vuoto esistenziale ha un cartello appeso al collo con su scritto: “Sono tanto triste”, se blatera contro il sistema: “Ora son alternativo”. Non si sa mai, qualcuno potrebbe non capire. Ogni tanto si incarica il turnista di schitarrare un poco per alternare al melodico un maledettismo stucchevole. Il look si adegua ai cambi di maschera.
Un’Italia in calzoni corti, sempre più piccola, ormai microscopica, fuori da ogni corrente vitale ed ascendente, costretta a giurare continuamente il falso sui propri giornaletti, a subornare su televisioni e riviste allegate gli ultimi gonzi per spillar loro gli ultimi talleri.

1 commento:

  1. Benvenuto in piattaforma, direi che partire con un post su VR è davvero impressionistico.

    RispondiElimina