mercoledì 27 luglio 2011

Ed Hall - Motherscratcher (1993)

 

Terzetto di canaglie provenienti da Austin, Texas, (Gary Chester, Larry Strub, Lyman Hardy – sostituto di Kevin Whitley passato ai Cherubs – chitarra, basso, batteria), gli Ed Hall pervengono con Motherscratcher alla creazione più compatta ed inquietante, forse il loro capolavoro.
Capolavoro da intendersi come primus inter pares rispetto agli altri quattro, poiché il livello della produzione rimane alto e costante nei loro pochi anni di carriera.
seppur più distesoregli Hall ritrovano un incederese di un a rigidità sardonica. altissimoI Nostri riescono a disciplinare magistralmente l’andamento irruento e distorto dei loro brani; la sezione ritmica controlla a distanza le improvvise rasoiate del chitarrista ed impedisce alle composizioni degli Ed Hall di rovinare da un momento all’altro anche in alcune delle loro scorribande più estreme e sferraglianti (Twenty dollar bills, Urgent message for mankind). Basta confrontare, a questo proposito, Ha Ha Ha dei grandiosi Flipper con White House girls; nel primo caso le sonorità sembrano fuggire in tutte le direzioni come gatti tenuti troppo a lungo in una cesta, nel secondo i tre strumenti formano un blocco potente e compatto da cui si stacca la sei-corde scorticatutto di Chester mentre il basso continua a macinare imperterrito; le risate, più che sbracate e goliardiche, sono fissate in una rigidità sardonica: tutto è sotto controllo. Più che baccanali in verso libero qui abbiamo vetriolo in ottava rima.
Certo, è difficile negare che tale esercizio di disciplina non sia cresciuto a spese di un tono più beffardo e libero nei primi album, specialmente in Love poke here; una vena più pessimista e quasi angosciata si riscontra nello strumentale Afghani harvest period, oppure in Gnomes dove l’urticante chitarra di Chester rallenta, si allarga magnificente, si impenna improvvisa, si formalizza in un assolo hard, e sempre senza soluzioni di continuità, senza requie; anche l’altro strumentale Satori in Manhattan, Kansas, seppur più disteso, risente di questa vena incupita, mentre è solo con Dave the prophet che gli Hall ritrovano l’incedere di un tempo, gradasso ed irridente. E la sorpresa finale lascia spiazzati: una hidden track di ventiquattro minuti composta da una giustapposizione di rumori urbani, imprecazioni, tonfi, dialoghi sopra ad una minacciosa vibrazione di fondo. A dimostrazione che sotto le spoglie di tre eccellenti esecutori hardcore si cela un tratto nichilista notevole e non occasionale.

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