Attivo sin dai primi anni Ottanta, il belga Dirk Serries (celebre con lo pseudonimo Vidna Obmana) ha pubblicato alcune pagine fondamentali di quella che, all’ingrosso, viene definita new age. Egli declinò la propria versatilità nei modi dell’elettronica, dell’avanguardia etnica, della musica totale della Germania anni Settanta, dando vita a collaborazioni storiche con Steve Roach, Robert Rich, Asmus Tietchens.
A metà degli anni Duemila varò il progetto Fear Falls Burning; il miglior frutto della nuova vita artistica è indubbiamente questo monumentale He spoke in dead tongues, nove composizioni per droni chitarristici (senza titolo) dalla durata complessiva di quasi due ore e mezzo. Opera di fascino indubbio, ma non per tutti. Tale affermazione non deriva da una considerazione esoterica dell’arte, quale manifestazione umana riservata a individui di spiccata sensibilità o, peggio, a cerchie culturali che presumono un livello sapienziale più alto e incomunicabile alla massa (in tale visione certe porzioni d’umanità sono geneticamente o socialmente inette ad accogliere tale complessità: a volte per loro fortuna). L’avvertenza allude alla propedeutica: occorre maturare un gusto per apprezzare un simile tour de force – gusto che può acquisirsi sia con un’esperienza musicale ricca e variegata, ma soprattutto con l’umile accostamento ad un sentire ormai completamente alieno al mondo occidentale (e Occidente non definisce ormai una geografia, ma la visione del mondo dominante che lambisce ogni continente, monocraticamente prosaica ed antispirituale). Occorre prepararsi alle nove tracce come i candidati alle cerimonie d’iniziazione che, debitamente guidati, operavano una netta cesura con l’ambiente quotidiano; solo a tal prezzo, la paralisi dell’intelligenza mondana, l’individuo può assorbire o farsi assorbire da queste emozioni particolari e guadagnare nuovi stati mentali per rigenerarsi ad un diverso livello d’esistenza. Tutte le creazioni di Serries (in particolare la 5 e la 8, rispettivamente 33’08’’ e 34’16’’) ci sprofondano in una atmosfera stuporosa ed avvolgente, ricchissima di riverberi ed echi ancestrali (anche nell’episodio 2, il più tenebroso). Rapiti dalle abituali angustie, liberati ed immersi nel liquido amniotico di queste risonanze intemporali, possiamo attingere al patrimonio comune ed antichissimo dell’umanità già in noi stessi e, una volta tornati presenti al mondo, dirci rinati e riguardare la vita usuale con occhi affatto diversi.
A metà degli anni Duemila varò il progetto Fear Falls Burning; il miglior frutto della nuova vita artistica è indubbiamente questo monumentale He spoke in dead tongues, nove composizioni per droni chitarristici (senza titolo) dalla durata complessiva di quasi due ore e mezzo. Opera di fascino indubbio, ma non per tutti. Tale affermazione non deriva da una considerazione esoterica dell’arte, quale manifestazione umana riservata a individui di spiccata sensibilità o, peggio, a cerchie culturali che presumono un livello sapienziale più alto e incomunicabile alla massa (in tale visione certe porzioni d’umanità sono geneticamente o socialmente inette ad accogliere tale complessità: a volte per loro fortuna). L’avvertenza allude alla propedeutica: occorre maturare un gusto per apprezzare un simile tour de force – gusto che può acquisirsi sia con un’esperienza musicale ricca e variegata, ma soprattutto con l’umile accostamento ad un sentire ormai completamente alieno al mondo occidentale (e Occidente non definisce ormai una geografia, ma la visione del mondo dominante che lambisce ogni continente, monocraticamente prosaica ed antispirituale). Occorre prepararsi alle nove tracce come i candidati alle cerimonie d’iniziazione che, debitamente guidati, operavano una netta cesura con l’ambiente quotidiano; solo a tal prezzo, la paralisi dell’intelligenza mondana, l’individuo può assorbire o farsi assorbire da queste emozioni particolari e guadagnare nuovi stati mentali per rigenerarsi ad un diverso livello d’esistenza. Tutte le creazioni di Serries (in particolare la 5 e la 8, rispettivamente 33’08’’ e 34’16’’) ci sprofondano in una atmosfera stuporosa ed avvolgente, ricchissima di riverberi ed echi ancestrali (anche nell’episodio 2, il più tenebroso). Rapiti dalle abituali angustie, liberati ed immersi nel liquido amniotico di queste risonanze intemporali, possiamo attingere al patrimonio comune ed antichissimo dell’umanità già in noi stessi e, una volta tornati presenti al mondo, dirci rinati e riguardare la vita usuale con occhi affatto diversi.
In tale visione la musica non consiste in una breve distrazione da una condizione di pragmatico servilismo – distrazione il cui unico scopo è quello allentare momentaneamente la tensione per consentire la perpetuazione di tale schiavitù. Essa anela, invece, al misticismo: esige una strenua preparazione, ma ci ripaga con rivelazioni risanatrici.