Il Pontefice Ottimo Massimo di una stagione irripetibile della musica europea. I dischi solisti della prima metà degli anni Settanta (tra cui Irrlicht!), i progetti collaterali e le collaborazioni storiche (Tangerine Dream, Ash Ra Tempel, Cosmic Jokers, Sergius Golowin, Walter Wegmuller) definiscono già una personalità d'eccezione.
Blackdance è uno delle ultime vette innevate e purissime da lui conquistati prima d'un graduale rotolare nelle valli della grossolanità. Devo ammettere, col cuore gonfio di dolore, che alcune opere recenti sfiorano l'inascoltabilità piena ... quando i tedeschi ci si mettono riescono nel cattivo gusto come pochi ... d'altra parte un popolo che ha Hegel e gli idealisti sul groppone: l'onnicomprensione o niente: non era proprio Hegel che credeva di aver racchiuso e delimitato la Storia nelle proprie pagine ... Storia che trovava il proprio compimento e perfezione proprio nei giorni in cui scriveva ... nella camera stessa in cui vergava quelle righe fatali ... che popolo temibile.
Ma Klaus, nel 1974, era assai lontano dalle pietanze indigeste degli anni a venire: i droni ronzanti, le tastiere che consegnano plasticamente alla nostra anima i vuoti interstellari (la grande Some velvet phasing), le pulsazioni elettroniche, tutto è opera di un profondo alchimista capace di distillare itinerari allo stesso tempo impalpabili e maestosi.
Attraverso tali circonvoluzioni sonore egli, forse, creò, per la prima volta, una sensibilità nuova: anticipatrice delle tendenze a venire quanto irrecuperabile nelle sue risonanze originarie.
Lalibela, un disco eccezionale. Jazz etnico. Influssi del percussivismo africano, poliritmi; e, soprattutto, una fluvialità free form (due brani, Lalibela, 27’51’’ e Indigo, 17’10’’) che invita al risveglio quelle comuni e serpentine pulsioni ancestrali sopite sotto il derma, sottile e recente, della cultura.
Ma Lalibela è anche un capolavoro blues …
Dobbiamo definire il blues?
Secondo me è necessario. Non per averne un concetto giusto; o accademico. Solo per capire di cosa parliamo. Per comprendere cosa non è blues.
Ho letto Leroy Jones, e La musica del diavolo e i trattati di Alan Lomax e, al di là della meritoria ricchezza dei testi e delle ricerche effettuate, musicali e culturali, ne sono rimasto un po’ sbalestrato. Non riuscivo a cogliere l’essenza profonda. Oltretutto l’esame del blues (del fenomeno afroamericano del blues) mi sembrava riduttivo.
Così ho raffinato una personale gerarchia di concetti che, per me ovviamente, definiscono il blues. Un blues internazionale, onnicomprensivo, ed esclusivo. Onnicomprensivo perché include anche il blues afroamericano (e anche parecchio jazz, come Lalibela); esclusivo poiché esclude certe concrezioni sonore che, pur apparentemente blues, ne sono estranee.
1. TRADIZIONE. Sì, il blues è nel sangue. Immediato. Cola giù dagli antenati. Ce lo portiamo appresso. È prima dell’accademia. È la terra; un gesto che conserva la storia. Attraverso esso possiamo capire un popolo. È musica, ovvero un concetto senza parole.
2. IL BLUES OPERA IN TERRA STRANIERA. Quasi sempre un canto dell’esule. I neri americani, gli immigrati. I canti degli italiani immigrati; degli europei immigrati in America ad esempio nordici, irlandesi, ebrei, est europei: sono blues. I canti degli Americani bianchi costretti a emigrare durante la Depressione sono blues. Seeger e Guthrie sono blues. È blues anche il canto di chi rimane straniero nella propria terra: Aztechi, Incas, Guaranì; Tibetani, Palestinesi.
3. IL BLUES APPARTIENE AGLI SCONFITTI. Gli sconfitti dalla storia: indios, africani, culture schiantate dal capitalismo di rapina. Il blues, spesso, è canto di nostalgia declinato con linguaggio non proprio. Garcilaso de la Vega ha scritto poesie blues in cui rievocava con nostalgia i propri antenati Inca: le ha scritte in spagnolo, però. Leadbelly in inglese. I brasiliani in portoghese. I vietnamiti in francese. Molte volte si è blues senza saperlo. Dai canti blues, scritti nella lingua dei conquistatori, traspare la cultura del sangue, antica e inestinguibile.
4. IL BLUES ALL’OPPOSIZIONE. Contro il potere, inevitabile. Se passa al campo avverso, compiacendosi, non è più blues. Sarà un’altra cosa, pur bella, ma un’altra cosa. Attenzione! Non ne sto facendo una questione estetica. Steve Ray Vaughan, Gary Moore, Eric Clapton e compagnia sono bravi, bravissimi, ma non sono blues.
5. IL BLUES È ANTISPETTACOLARE. Non va in televisione. È retrogrado. Non va su facebook, twitter e non si lascia registrare dalla Virgin. Non perché sia snob, ma perché individua da subito il nemico. Al massimo, come detto, si serve della lingua e dei costumi dei conquistatori e dei tiranni, ma solo perché questi hanno distrutto e disperso la sua cultura.
Attraverso questo setaccio si opera un filtro da cui si ottengano risultati bislacchi, ma originali.
I bluesman afroamericani degli anni Dieci son blues, va bene. Anche molti jazzisti, come detto, sono blues. Non è un fatto razziale, però. Guthrie è più negro di Obama, secondo me. I canti tradizionali sono blues. La world music mainstream no. Una lavandaia italiana che canticchia è blues, certe blues singers leccatissime no, anche se blueseggiano a tutto spiano. Le jug band sono blues, il Live Aid no, anche se canticchiavano per l’Africa. Il talking blues bianco è blues. Il rap disco di Afrika Bambaata è blues; Snoop Dogg no. I tamburi rituali giapponesi buddisti sono blues; Haino è blues; i Rolling Stones e i Led Zeppelin no. Leadbelly è un ignorante e un assassino, ma è blues; BB King che suona con gli U2 no. Hendrix è blues, la disco music nera no. Eduardo Galeano è blues; i Blues Brothers no. E così via … Antonio Ligabue e van Gogh sono blues, Mario Schifano e Magritte no, Rino Gaetano sì, i bluesman italici con chitarra e l’armonica blues no, Pete Seeger sì, Springsteen no, Garrincha sì, Messi no, il cappello a larga tesa e i jeans attillati disegnano signorine blues, i tailleur no, Casablanca sì, Titanic no, i Creedence sì, i Manhattan Transfer, Al Jarreau e Aretha Franklin grassa e nababba no.
196. Opus Avantra (Italia) - Introspezione
(1974). Opus Avantra, ovvero l’opera a mezzo fra tradizione e avanguardia. Il
lied di Les plaisirs sont deux,
straniato dai recitativi, la filastrocca infantile di La marmellata, un monologo da teatro off, arie d’opera ingentilite
dai flauti e spezzate da controllate sfuriate progressive … Un pout-pourri ben
studiato e d’interessante eclettismo, specie nelle composizioni lunghe: manca,
tuttavia, come spesso accade alla coeva musica italiana alternativa, sia il melodismo
inarrivabile degli anglosassoni che la lucida follia dei continentali. Da
ascoltare comunque. Donella Del Monaco, voce; Enrico Professione, violino; Pieregidio
Spiller, violino; Alfredo Tisocco, tastiere; Luciano Tavella, flauto; Riccardo
Perraro, violoncello; Tony Esposito, percussioni; Pierdino Tisato, batteria.
197. Orchid Spangiafora (Stati Uniti) - Flee
past’s ape elf (1979). Undici collage concreti: dialoghi e spezzoni di
trasmissioni radiofoniche e televisive scomposti e riassemblati per mezzo di
reiterazioni, frantumazioni, esitazioni, in accordo a un gusto satirico che
nasce dallo snaturamento della fonte originale. Non per tutti, ovvio. Rob Carey
(è lui Orchid) li ideò e compose, ancora studente, nel 1974.
198. Out of Focus (Germania) - Four letter Monday afternoon (1972). Progressive/jazz piuttosto eclettico. Come spesso accade (è
inevitabile vista la pubblicità martellante di tutte le storie del rock) si è
portati a giudicare anche quest’album rilevando i manierismi e i richiami con i
correlativi e coevi gruppi d’estrazione anglosassone, Jethro Tull e Soft
Machine, ad esempio. Se riusciamo a far astrazione di tali ascendenze,
giudicheremo il disco per quello che è: una miscela intelligente e fascinosa di
timbri e sonorità anni Settanta (con un eccellente sezione fiati) che, pur
senza evidenti picchi, riesce lentamente a consegnarsi alla nostra ammirazione.
Da sentire. Moran Neumüller, voce, sassofono; Peter Dechant, voce, chitarra;
Remigius Drechsler, voce, chitarra, flauto, sassofono; Michael Thatcher,
tastiere; Hennes Hering, tastiere; Hermann Breuer, trombone; Jimmy Polivka,
tromba; Ingo Schmid-Neuhaus, sassofono; Stepen Wisheu, basso; Grand Roman
Langhans, bonghi; Klaus Spöri, batteria.
199. Ovary Lodge - Ovary Lodge
(1976). Avanguardia, jazz, improvvisazione. In Fragment #6 lo scatenamento degli interpreti, esacerbato dai
vocalizzi di Julie Tippets, segue il filone prevedibile dell’antiortodossia:
nell’eresia sappiamo cosa attenderci. Nell’iniziale Gentle one says hello affiora, invece, una vena inquietante alla
Ligeti che, in Communal travel
(17’42’’), si tinge di un obliquo esotismo grazie alla strumentazione
orientale. Da ascoltare. Keith Tippett, voce, tastiere, maracas; Julie Tippetts,
voce; Harry Miller, basso; Frank Perry, voce, flauto, percussioni
200. Tony Oxley (Gran Bretagna) - Tony
Oxley (1975). Improvvisazione pura anche per il batterista Oxley,
qui con il suo sestetto. Come accade per la registrazione di Tippet, la prima
traccia ci consegna una free form piuttosto prevedibile; gli altri brani si
assestano, invece, su un incedere sommesso, irto di un insistito tramestare. Fa eccezione il borborigmo di South east of Sheffield. Howard Riley, tastiere; Evan Parker, sassofono; Paul
Rutherford, trombone; Dave Holdsworth, tromba; Barry Guy, basso; Tony Oxley,
batteria.
201. Evan Parker & Paul Lytton (Gran Bretagna) - Collective calls (urban) (two microphones) (1972). Improvvisazione jazz? Macché, devoluzione jazz. Parker
suona il sassofono, forse il flauto, e sfiata in altri strumenti non
immediatamente identificabili traendo ghiribizzi da camera imbottita; Lytton
percuote il percuotibile a completamento d’uno scalpiccìo sonoro fitto di cocci
e frantumaglie. Da ascoltare subito. Non in sequenza coi due precedenti di Ovary e
Oxley, opere affini a Collective calls:
ne uscireste, infatti, paghi d’eccentricità, ma stremati. Evan Parker,
sassofono, flauti; Paul Lytton, percussioni.
Primi anni Settanta, Germania, krautrock, istanze libertarie, aperture verso le religioni tradizionali del Terzo Mondo, world music, Holger Czukay, Popol Vuh: nel calderone stregonesco si agita, inavvertito poiché confuso con lo sfondo a lui troppo simile, un artista sconosciuto al grande pubblico; colpevolmente sottovalutato.
Il problema di Deuter è ch'egli era, in tempi di proto new age, un pesce qualunque in un mare ricco come non mai; anzi: era un pesce perfetto, che non possedeva branchie o code o colori tali da renderlo un elemento particolarmente distinto nel multicolore acquario dei Settanta.
A distanza di più di quarant'anni è difficile cambiare idea su di lui. Eppure, proprio tale mancanza quasi assoluta di specificità, che allora tendeva a mimetizzarlo nel generale demi-monde misticheggiante, agisce in senso positivo. Quei luoghi comuni, riascoltati oggi su uno sfondo sonoro epocale assolutamente diverso, si rendono meravigliosamente inattuali. Aum sfiora il capolavoro. Forse lo è.
Dodici strumentali: sitar, sommesse nenie orientali, sciabordii d'acque, percussività tribali, tenui sospensioni, chitarre psichedeliche e folk, accordi sospesi: tutto il bric-à-brac che la new age ci incaricherà di portare al nostro disgusto negli anni a venire, qui suona con una purezza primitiva e cristallina; e una semplicità d'intenti disarmante.
Aum, Soham, Sattwa, Susani le stazioni di questo breve rito lustrale.
One of the most profoundly ridiculous library releases ever, and yet one with a strange allure. To hear this is to marvel at just what the hell exactly they assumed these pieces were intended to soundtrack, as the sonics herein are utterly retarded. Gracelessly flat-footed and rinky-dink keyboard themes set to bontempi organ cha-cha/bossa nova beat presets, it's a sound that for the right set of ironic ears and under the right set of conditions (say...in a party mix with Tom Recchion and Tipsy tracks) would have a definite amusement value. Well...I for one am amused, anyway. Your milage may vary.
Giancarlo Toniutti - La mutazione (1985)
Giancarlo Toniutti is born in Udine (friuli - italy), 21.3.1963researcher in morphology and anthropology fields (linguistics, acoustics, material cultures etc.) and composer of experimental electroacoustic sound-works. Basically. The whole activity is centred on a basic notion, which is connected to an anthropologic view of the human activity in general, of its knowledge and the tools enabling and structuring such a knowledge. The sound activity is thus linked to a realm of sound we could simplistically define as electroacoustic or equally experimental, although these notions may have a meaning. The sound work, through the diverse natural developmental phases, is focused on some problems and notions both inherent to the nature of sounds and their structuring and articulation in sound forms. A research connected to the acoustics of materials, chosen as sound sources or generators, materials by now almost only of an acoustic kind (natural objects, custom-made objects and natural sound sources recorded on field). The work is thus strictly connected to the acoustic-morphologic nature of the sound sources, and the action is directed to allow and/or induce such sources to generate sound (microcompositional aspect), in the observance of the inner characters of the materials and their forms. At the same time a research on the notions of form linked to its functions of an anthropologic (and somehow biologic) character, on which a work related to the sound morphologies fits (macrocomposition), almost exclusively connected to analogic means of action onto sound (magnetic tape and equalization, for example). Has xollaborated with Andrew Chalk and Conrad Schnitzler.
Giorgio Buratti - Explosion/Four tunes for a waltz (1971)
Utterly obscure and extremely curious, Buratti's field of operation is out jazz, but his choice of instruments and his minimal and idiosyncratic M.O. make this lost slice of weirdity truly ahead of it's time. While both his collaborators and their remit differ greatly from side to side, Buratti's personal musical arsenal on both consists solely of bass potentiometers, generators and sound effects. Viewed from a certain vantage point, this makes him the grandaddy of contemporary onkyo/lower case/hairshirt improv, prefiguring these strategies by close to 30 years in some respects, but I digress. "Explosion" is, expectedly, the blood-spitter of the two, deceptive flute tootles presaging cacophonous lunges into lopsided cabaret-ish piano pound, disjunctive dictophone chatter and massively close-miked and loud acoustic bass plucks. Wonderfully weird shite to be sure, and with a rigorous and bracingly modern edge that, time-frame-wise, really only compares to Wolfgang Dauner circa "Output", but "Four Tunes For A Waltz" is the real capper here, if ya ask me. Grooving in a rawly frazzled fashion that has a certain akin to both Toto Blanke's live album with Electric Circus and the scrappily wasted and loose limbed side of krautrock ala Spacebox on the one hand and Zippo Zetterlink and Ejwussl Wessahqqan on the other, though aspects of both Rahsaan Roland Kirk and AACM-related stuff suggest themselves elsewhere as well. A serious find, methinks.
Frank Zappa live a Milano, 1982 o 1984.
Foto di Roberto Lanza. Copyright di Roberto Lanza.
Sfido le ire da copyright della balenottera Gail Zappa, ma non posso esimermi; acquisti di gioventù, indelebili nelle memoria: Sheik Yerbouti, lire 16.000, comprato presso un negozio di dischi scomparso a Gregorio VII, Roma (ora c'è una rivendita di cellulari); Roxy & elsewhere, beccato nello scantinato di Rinascita (oggi è uno spazio fatiscente), a Via delle Botteghe Oscure, a lire 14.000, nella libreria/discoteca a fianco del palazzo del Partito Comunista Italiano ... oggi scomparsi: libreria e partito, beninteso.
La mitica libreria Rinascita ... ero un pezzente (come adesso, forse), ma lì spesi parecchi bei pomeriggi e un notevole gruzzolo in libri e vinili: avrò fatto la fortuna di qualcuno, chi lo sa ...
La bellezza dei pomeriggi adolescenziali ... Incredibile come, in pochi anni, la sensibilità dei ventenni sia stata stravolta ... sino a qualche decennio fa era un'avventura anche uscire di casa e andarsene al centro di Roma ... spesso si andava a piedi: dalla periferia alla mezza periferia in autobus, tanto non si trovavano controllori e bigliettai ... poi si scendeva proprio per Gregorio VII sino ai ponti sul Tevere e si entrava lungo Corso Vittorio ... era bello ... si aveva tutto il tempo del mondo, senza costrizioni ... il cielo azzurro e compatto ritagliato dai palazzotti della via e la legge morale dentro di noi ... si pregustava l'ennesimo scartabellare fra i cartoni dei vinili ... l'estrazione pigra d'uno di essi, la lettura attenta delle note, i commenti, la valutazione del prezzo ... con calma .. senza cinguettii, squilli idioti e interruzioni ... accanto potevi trovarti Stefano Rodotà ... alla cassa c'era Carmen Llera Moravia (o forse era dopo?) ... molto graziosa, comunque ...
E poi si andava senza meta, con le magnifiche buste di plastica quadrangolari che sbattevano dolcemente lungo la coscia ...
Solo una cosa posso dire: le ragazze son più belle adesso. E' un'affermazione perentoria e urtante, ne convengo, ma credetemi, almeno a Roma, la forza dell'evidenza si impone ... non che non ci fossero bellezze ... per carità, ma, rispetto alle pin up attuali ... per un ultraquarantenne girare a mezzo Luglio per Via del Corso è un pellegrinaggio da infarto ... la Santiago di Compostela della concupiscenza ... il Divin Amore della coscia soda ... mai viste tante sventole ... e con gli hot pants ... mi sa tanto che scriverò un libro: Storia sociale degli hot pants ... distruggono la fedeltà gli hot pants ... altro che le feste di una volta ... con le teens d'antan inavvicinabili, intoccabili, chiuse come un'ostrica, pure siccome un angelo ... il rimorchio: una sorta di appressamento al Graal ... lungo, tortuoso, obliquo, foriero di sconfitte ... Non so se rallegrarmi d'essere nato quarantacinque anni or sono e di aver gustato la buona musica e gli splendidi pomeriggi a cavallo di Settanta e Ottanta, laschi e zingareschi, oppure se rattristarmi di non avere sedici anni, ora, e avere la possibilità di tuffarmi in questo profumato e morbido carnaio ...
Dei dischi non dico niente: ecco il live Roxy & elsewhere, con la celebre introduzione a Penguin in bondage, e Sheik yerbouti, colmo di sbeffeggiamenti (di Frampton e Dylan) e capolavori bislacchi suonati da una delle migliori formazioni del mondo (Bozzio e Belew, fra gli altri) ...
Questo post non era previsto. Reduce da quattro ore di Oren Ambarchi, me ne stavo immerso nel traffico metropolitano, riposante come un mormorio di fonte new age, quando, da un barattolo di latta semovente, di quelli creati ad arte per immobilizzarti nel traffico metropolitano suddetto, ho colto uno sferragliare antico: Sweet hitch-hiker.
Niente, è impossibile resistere allo strumming dei fratelli Fogerty.
Come una partoriente bizzosa mi è presa voglia dei CCR: ed eccoli qui. Li ho ascoltati a rotazione tutto il giorno. Ricordi, ovvio. E ricordi di film impressi a fuoco nell'immaginario, Suzie Q e Apocalypse now, Bad moon rising e Un lupo mannaro americano a Londra. E Il grande Lebowski: il finissimo intenditore (e superbo fancazzista) Drugo Lebowski è un appassionato di CCR.
Dopo decenni di ascolti devo ancora decidere di cosa siano intessute le canzoni dei californiani.
Ideologia antibellica senza se e senza ma? Purezza rock? Incedere sanguigno? Screziature blues? Sane rudezze country? Nostalgia di un'età dell'innocenza irrimediabilmente persa (quella che ingigantisce il surf rock e i tappeti sonori della provincia profonda alle orecchie dell'americano medio)?
L'ultima interpretazione è quella che mi convince di più.
Sta accadendo anche a noi, fra l'altro. Cos'è questa nostalgia canaglia per i Sessanta e i Settanta se non il rimpianto per un'Italia che non c'è più e che vorremmo disperatamente indietro?
Ci sono vite che non vengono vissute, altre troncate troppo presto o cavalcate con un'intensità stordente. Alexander Spence è tutto questo. Eroe della controcultura (fu nei primi Quicksilver Messenger Service e Jefferson Airplane; fondò i Moby Grape), partorì, da solista, un unico disco, questo Oar, che era e rimane un capolavoro del folk psichedelico. L'unica sua opera. Travolto dalla dipendenza dalle droghe e dalla malattia mentale, Spence troncò la propria carriera artistica, di fatto, a ventitré anni; il resto dell'esistenza naufragò progressivamente, come solo possono fare le esistenze in America: egli divenne indifferente al mondo, al quotidiano; randagio, esiliato da se stesso, straniero nella propria terra.
Il disco è una miscela (ancora oggi sorprendente) di temi folk, accenni blues e dilatazioni psichedeliche, che trovano nei dieci minuti di Grey/Afro la propria sublimazione sonora.
Occorre scivolare nel disco lentamente e farsi avviluppare dalla voce e dalla strumentazione (specialmente dalle percussioni) che egli suona autarchicamente. Si avrà, allora, nei pezzi migliori (This time he has come, ad esempio), un magnifico sfasamento, come se le varie parti recitate dal musicista Spence, pur concorrendo alla melodia, tendano a un impercettibile fuori sincrono.
Tale impressione conferma e accresce il fascino psych di un'opera capace di mostrare, inoltre, se ce ne fosse ancora bisogno, che la qualità artistica duratura proviene, oltre che dalla preparazione, da una potente predisposizione dell'anima: quella che altri cercano invano, a posteriori, di definire o ricostruire a tavolino chiamandola estetica o scuola.
Ammettiamolo: una banda di buffoni, troppo in ritardo sul glam, sull'hard rock più pupazzesco, sui cantanti maledetti larger than life; in ritardo su Berkeley, sugli hippies, su Zappa; sull'impegno e il disimpegno. Il 1978 fu l'anno in cui le cose presero ad andare male. Il punk era già finito, ammettiamo pure questo. Il progressive pure. La disco music impazzava. Volgevano al termine tutte quelle manifestazioni che, come un ballo di San Vito socioepidemiologico, legavano in un solo corpo emozionale milioni di persone. L'hardcore dei primi anni Ottanta sarà l'ultimo tentativo di comunione spirituale espresso dalla musica rock mondiale; da questo punto di vista Black Flag e Fugazi sono gli ultimi rappresentanti di un gotico internazionale rock in via di disfacimento ...
Il punto di svolta fu il 1976 ... Mi piacciono le date simboliche. Le magnifiche sorti cominciarono ufficialmente, però, nel 1978, anno de La febbre del sabato sera (uscì il 16 Dicembre 1977): quello sì, film epidemico quant'altri mai ... paradigmatico ... Forse qualcuno di voi riuscirà a trarne spunti per tarocchi e cabale epocali: 16.12.1977 ovvero 12.16.1977 ... In Italia il film uscì il 13.03.1978 ... Non lo so, quel 13 non mi ha mai convinto ... Ricordo che la nazione giovanile impazzì per la pellicola. Tony Manero. Gli adolescenti spasimavano per un tizio vestito di bianco che ballava in pedana. Era finito tutto. Il gelo degli anni di piombo e, con esso, le visioni utopiste dell'impegno, tutto nel cesso; come scrisse Altan: dopo il gelo degli anni di piombo godiamoci finalmente il calduccio di questi anni di merda.
Bene, ci siamo ancora in quegli anni. Nessun altro fenomeno, sociale, di costume, musicale, estetico ha più stretto in un comune sentire e in un'ansia collettiva di rinnovamento chi, per energia e passione, dovrebbe farsi carico del rinnovamento: gli adolescenti, i teens. Anzi, mi tocca dirlo: oggi mi sembrano i più imbambolati. Divisi da tutti e tutto nonostante i social network, la libertà, le occasioni; persi in un tempo liquido perfetto solo per vivere in un'eterno sabato del villaggio, tutti fermi a godere la festicciola liceale offerta dal Sistema. Totalmente assorbiti da questa trita mondanità.
Il 1978, un anno così importante che Tommaso Labranca gli ha persino dedicato un libro.
In questo clima esce, in linea coi tempi, il live dei Tubes, una accozzaglia di goliardi freak che riesumano l'incedere del glam dei Settanta e lo volgono in farsa antiborghese, pronti a incendiare i live con oltraggi di vario genere, fra pornografia, travestitismo e insulti alla società benpensante.
Divertenti; bravi; in realtà acqua fresca.
White punks on dope, tuttavia, è un classico. Ricorda un po' troppo Cracked actor di Bowie, ma vale il prezzo del biglietto.
Nell'album si ritrovano altre piccole perle, ma, fu subito chiaro, la magia dissacrante era svanita. Al mondo restarono i grandi solisti e i vecchi leoni; e qualche guitto assortito, come Fee Waybill, il cantante dei Tubi, zatteroni e occhiali supersonici, una specie di Elton John sboccato.
24. Magical Power Mako - Jump (1977). Kurita abbandona le variegate fioriture del precedente Magical power per addentrarsi con forza verso zone marcatamente rock e progressive. Ogni brano è un piccolo gioiello compositivo delineato con gusto e sicurezza. Da sentire, ovvio. Makoto Kurita, voce, chitarra, tastiere, batteria, percussioni; Chew, chitarra; Jun, tastiere; Kid, basso; Nishima, basso; Takumi, batteria; Nabe, batteria; Hagiwari, percussioni
23. Taj Mahal Travellers - Live Stockolm July 1971 (2008; recordings 1971). Due registrazioni di un’ora ciascuna. Drone, doom, psichedelia con qualche decennio di anticipo. Inutile baloccarsi: questo è un capolavoro e i loci communes sul ‘viaggio interiore’ vengono bruciati dalla verità che il disco profonde a piene mani. Invece di perdere tempo con Ballarò, stendetevi al buio (mogli, mariti e figli neutralizzati) sul vostro divano preferito e iniettatevi questo itinerario mentale direttamente in vena.
21. Toshiyuki Miyama & His New Herd: Masahiko Satō - Yamataifu (1972). Tre brani: quasi jazz per grande orchestra. Masahiko Sato, influenzato da Chick Corea, e tastierista elettrico, dirige l’ensemble che, nelle prime due tracce, quelle più lunghe, Ichi (19’20’’) e Ni (12’15’’), eccelle rispettivamente in un’improvvisazione liquida e incalzata dalla sezione ritmica (e molto seventies) e in uno sperimentalismo più irto che lambisce, senza cadervi, i territori della cacofonia. Notevole. Masahiko Sato, tastiere; Bunji Murata, Kenichi Sano, Koji Hadori, Kunio Fujisaki, tromba; Masamichi Uetaka, Seiichi Tokura, Takeshi Aoki, Teruhiko Kataoka, trombone; Kazumi Oguro, Shinji Nakayama, sassofono alto; Kiyoshi Saito, Shoji Maeda, sassofono tenore; Miki Matsui, sassofono baritono; Kozaburo Yamamoto, chitarra; Yoshinobu Imashiro, tastiere; Masao Kunisada, basso; Masaru Hiromi, batteria.
I Big Country (Stuart Adamson, voce, chitarra; Bruce Watson, chitarra, mandolino, sitar; Tony Butler, voce, basso; Mark Brzezicki, voce, batteria, percussioni), come gli Smiths (e U2, Alarm, Frankie Goes to Hollywood e, perché no, Culture Club, Wham! Duran Duran), rappresentarono uno dei main event dei primi anni Ottanta.
A distanza di trent'anni cosa resta di cotanti innamoramenti? Un album di buona lega, con un hit notevole (In a big country), altri pezzi rimarchevoli (Fields of fire, Inwards) e una sensazione indefinibile in cui convivono la piacevolezza della nostalgia e la simpatia (altrettanto indefinibile) verso un gruppo che cercava di ricollocare il folk entro una cornice elettrica new wave (per merito del compianto Stuart Adamson, in grado, tramite la propria sei corde, di popolare di inesistenti cornamuse e violini le tracce del disco).
Nonostante la bravura di Adamson si nota, però, una certa freddezza nell'insieme. La costruzione a tavolino. Che sia colpa della produzione di Lillywhite, capace di piallare le asperità di U2, Gabriel e Simple Minds sino a renderli incontrastabilmente mainstream? Senza doppi fondi, senza vertigini?
Leggo
oggi, nell’edizione online de La Stampa: “L’ascolto di musica come l’heavy
metal può mettere i giovani a rischio ansia, depressione e suicidio. Lo studio”.
E sotto il titolo, l’incipit idiota dell’articolo:”Senza essere degli
scienziati, e se possediamo un buon orecchio musicale, a nostro avviso non ci
vuole molto a capire che l’heavy metal – che qualcuno chiama “musica” – non è
proprio il prodotto di un’armonia di note. Va da sé che suoni disarmonici non possano
essere armonizzanti e, di conseguenza, agire anche sulla mente e l’equilibrio
di chi li ascolta”.
Disse
Gadda: “Io stupiva”. E poi la diarrea new age: “Tutto è vibrazione
nell’Universo e noi, che ci stiamo dentro, non siamo da meno. La conseguenza è
che siamo influenzati dalle vibrazioni, chi più chi meno, giovani o adulti che
sia. Tuttavia, in questo caso, i maggiori fruitori di questo tipo di “musica”
sono proprio i giovani, i quali, secondo un nuovo studio, sono a rischio
depressione, ansia e possibile suicidio”.
Poi
si dà voce alla ricercatrice di tale studio autorevolissimo,
così autorevole da aver richiamato l’attenzione dell’altrettanto autorevole (e bennato) quotidiano La Stampa: nientepopodimeno che la dottoressa Katrina McFerran, dell'Università di
Melbourne, ameno continente sito alle nostre antilopi, come scriverebbe Flaiano; ecco
cosa afferma la luminare: “I giovani a rischio di depressione è più probabile che
ascoltino la musica, in particolare l’heavy metal, in modo negativo … Esempi
di questa tendenza li abbiamo quando qualcuno ascolta la stessa canzone o un
album di heavy metal più e più volte e non ascolta altro. Lo fa per isolarsi o
per fuggire dalla realtà. Se questo comportamento continua per un certo periodo
di tempo, allora potrebbe indicare che il giovane soffre di depressione o
ansia, e nella peggiore delle ipotesi, potrebbe suggerire tendenze suicide”.
Ragion
per cui, continua l’articolessa, “ … la scienziata sta cercando di sviluppare
un modello d’intervento precoce che possa essere integrato nelle scuole in modo
da avere un impatto positivo prima che i problemi comportamentali si
verifichino … nel frattempo, i genitori dovrebbero interessarsi riguardo al
tipo di musica che i loro figli ascoltano e porre loro delle domande”.
Infine
la chiusa, che mi fa disperare non solo dell’Italia (e dell’Australia), ma di quel
barlume di sostrato logico che dovrebbe tenere insieme l’universo: “I ragazzi
di oggi sono esposti a molti potenziali pericoli, e anche la musica può essere
un fattore di rischio. Cerchiamo allora di fare in modo che, al contrario, sia
un fattore di positività: la buona musica non manca, quello che forse manca è
l’educazione all’ascolto e al discernimento”.
Tempo
fa lessi di quest’altra rigorosa ricerca accademica: “Chi cura l’igiene dei
denti vive più a lungo”.
Capito?
No, dico, avete capito?
Non
sarà invece che chi è povero, e non ha migliaia di euri per otturazioni,
sbiancature, ponti ed estrazioni campa meno di chi, invece, quei soldi li ha? E li ha non
solo per i denti, ovvio, ma per campare bene, e , quindi, campare più a lungo.
Ultimamente
ne ho letta un’altra: il batterio della carie provoca il cancro all’intestino. Fantastica.
Sublime. Anche qui: non sarà che chi ha i denti guasti ha, in media, un ISEE o 730 o
dichiarazione reddituale che non gli permette di ingurgitare cibo di buona
qualità, ma solo junk food (ricco di coloranti, additivi, zuccheri e carente di
proteine e fibre: una bazza per la carie) e, per questo, ha un metabolismo un
pochino diverso da chi si approvvigiona di delicatessen?
Ma
questa dell’heavy metal, in pieno 2014 … Ancora, dopo decenni … Causa per effetto, effetto per causa: non sarà che è la società a essere depressiva, ansiogena, autistica e allora ...
Basta. Ora ne ho la conferma: Dio non esiste. Non esiste una ragione, un logos, una
dialettica, un senso; non esiste il cosmo. Solo una poltiglia materiale che
obbedisce all’imperio di Azathoth, il demiurgo cieco e idiota che si agita folle al
centro della totalità gorgogliando bavoso al suono di flauti e sistri
abominevoli; e forse heavy metal.
Fra
i liquami di questa orgia dell’irrazionale, lo scarto della creazione: l’uomo.
Non
ho altre spiegazioni. Siamo arrivati alla fine: i Devo avevano ragione. Non immaginavo, però, che il declino della ragione fosse così rapido.
Nell'attesa dell'ineluttabile voglio rintronarmi sino all’abbrutimento coi primi due album degli
Electric Wizard.
Sino alla perdita di senso, all'estasi da sfinimento, alla depressione, all'ansia indicibile, all'annientamento della speranza, al suicidio.