Ancora svedesi, Anekdoten (Nicklas Berg, voce, chitarra, tastiere; Anna Sofi Dahlberg, voce, tastiere; Jan Erik Liljeström, voce, basso; Peter Nordins, batteria, percussioni).
Un disco storico, che alcuni ricordano con nostalgia indicibile (almeno a Roma; almeno coloro che erano devoti alle radio rock locali).
Thoughts in absence fu un hit assoluto dell'immaginario di tale minoranza spirituale che vedeva dissolversi gli ultimi aneliti anticommerciali e frontisti. Gli anni Ottanta avevano infierito; i primi Novanta (proprio in contemporanea con il successo del grunge) tumularono quelle esperienze libertarie: si apriva l'era delle radio con le playlist a gettone, gonfie di pubblicità e invase dalla chiacchiera e da quell'idiota anelito di partecipazione degli ascoltatori (messaggi, messaggini, melensaggini, battutine).
* * * * *
Thoughts in absence è una ballata delicata come un prezioso cristallo, ma il resto dell'album è positivamente tributario dell'hard progressive dei King Crimson di Red.
* * * * *
Ma dove sono più le nevi di un tempo? Ditemelo voi: è tutto perduto? Dove sono le nevi del bel tempo che fu?
Progg con due 'g' ... progressive svedese, prossimo alle istanze libertarie del coevo Rock in Opposition. In realtà il progressive si trova, brillantissimo e fuori stagione, solo nel disco dei Kultivator. Per Pärson Sound e Träd Gräs och Stenar (sono, di fatto, lo stesso gruppo) si può parlare di psichedelia d'avanguardia. I due ensemble, assieme alla loro terza incarnazione International Harvester (da ascoltare qui, NWW23), hanno licenziato, in pochi anni, una delle più importanti discografie europee nell'ambito musicale sopra delineato.
Il disco edito dai Pärson Soundnel 2001 raccoglie persino un esperimento elettronico (del 1966, a opera di Persson), ma si sostanzia soprattutto di lunghe jam strumentali che anticipano, di quasi trent'anni, la nuova psichedelia degli anni Novanta. From Tunis to India in fullmoon (20'29''), Tio minuter (10'30''), India (slight return) (13'06''), Skrubba (28'57''), stranite dal violoncello di Arne Ericsson, sono processioni acidissime, a mezzo fra il minimalismo orientale di Riley e inflessioni dei Velvet di John Cage; le date di pubblicazione dei dischi, tuttavia, congiurano a una loro indubbia originalità. sciolti i Pärson Sound, i Nostri pubblicano, come International Harvester, l'ottimo Sov gott Rose-Marie, quindi si riassestano attorno a una psichedelia con alcune concessioni rock: come Träd, Gräs och Stenar (Alberi, Erba e Pietre), infatti, licenziano alcune cover (All along the watchtower, The last time, Satisfaction), debitamente stravolte; il tono sonoro, tuttavia, non rinuncia a quelle marce elettriche, fluviali e antimelodiche che caratterizzavano gli esordi: Tidigt om morgonen (13'46) e Amithaba-In kommer gösta (31'54'') alcuni dei monoliti presenti nel live Djungelns lag.
Träd, Gräs och Stenar - Djungelns lag (1971). Torbjörn Abelli, voce; basso, armonica; voce, Thomas Merz Gartz, batteria, armonica; Jakob Sjöholm, voce; chitarra; Bo Anders Persson, voce; chitarra, violino; Arne Eriksson, tastiere; Ulla Berglund, percussioni.
Kultivator - Barndomens stigar (1981). Jonas Linge, voce, chitarra; Ingemo Rylander, voce, tastiere; Johan Hedren, tastiere; Stefan Carlsson, basso; Johan Svärd, batteria, pecussioni; Hädan Sväv, cori.
222. Boyd Rice (Stati Uniti) - Boyd
Rice (1977). Il disco, noto anche come The black album, è composto da nove
tracce: ognuna consta d’un brevissimo segmento sonoro ripetuto indefinitamente
(ovvero: mandato in loop). Come classificarlo esteticamente? Ho rigirato il
problema come un cubo di Rubik e sono arrivato a due (misere) conclusioni: o si
considera tale musica quale sonorizzazione propedeutica a una catarsi
sciamanica (quale alienazione che allontana dal quotidiano e invita a superiori
stati di coscienza); oppure come musica il cui apprezzamento si regge su un
contratto concettuale con l’ascoltatore. Mi spiego: noi guardiamo Boyd Rice che
occhieggia dalla copertina, armato di martello, sopra un tappeto di vinili
spezzati, e diciamo: “Bene, il pop ha avuto la sua nemesi. Questo è un disco
antipop, antisistema, antimelodico, anticapitalista et cetera. Mi piace”. È
l’antitesi brutale alla tradizione a suggellare un patto fra lui e noi e a
eccitare il consenso. Quando tale patto verrà meno il disco si derubricherà a
quello che è: una serie di loop inascoltabili. Lo stesso avviene in altri
ambiti: pensiamo (ma è un esempio fra i moltissimi) alle scatole di cornflakes
firmate da Andy Warhol, e vendute per centinaia di dollari; grazie al contratto
emozionale/concettuale tra il carisma dell’artista creatore e il fruitore
(debitamente gonfiato dalla propaganda dei mercanti e dalle elucubrazioni dei
critici), ogni scatola di cartone sublima(va) in oggetto artistico ambitissimo.
Una volta rotto il contratto (morte di Warhol, disinteresse all’avanguardia americana,
calo delle vendite), ogni collezionista o galleria d’arte si ritroverà fra le
mani il prodotto nella sua nuda e indubitabile oggettività: nient'altro che una vecchia scatola di cereali. Curioso fenomeno che non avviene, ne converrete, con la Quinta di Beethoven, Blonde on blonde o La tempesta di Giorgione. Da ascoltare, comunque. Melodici,
astenersi come d’uso.
223. Terry Riley (Stati Uniti) - A
rainbow in a curved air (1969). Uno dei capolavori della musica elettronica
moderna. In esso rileva la ripetizione (può ascriversi alla corrente
minimalista del tempo, propria dei connazionali Philip Glass e Steve Reich), seppur
complicata dalle stratificazioni sonore (Riley suona tutti gli strumenti, dalle
tastiere alle percussioni ai fiati) e da sicure derivazioni world, tratte, in
particolare, dalla musica indiana. Da quest’ultima il californiano deriva la
struttura ritmica (propria dei raga, di cui fu attento studioso) e, non meno
importante, l’afflato concettuale (basato sulla eternità dei cicli temporali) –
inderogabile concetto metafisico e religioso che informa di sé,
necessariamente, anche le epifanie musicali. Da non mancare.
224. Claudio Rocchi (Italia) - Rocchi
(1975). L’album che segnò l’inizio di una sperimentazione più ardita per il
cantautore milanese. Rocchi rimesta un ciceone di concretismi, space, inserzioni
sonore, riecheggiamenti world (che sostanziano integralmente l’iniziale Zen session, 12’59’’) su cui galleggiano,
fascinose, le blande sopravvivenze della forma canzone: un folk psichedelico
dilatato (Zero, Certa Puglia) e imbevuto di quella siderale lontananza proprio del sogno.
Notevole.
225. Rocky's Filj (Italia) - Storie di
uomini e non (1973). Il disco inizia con uno dei capolavori della stagione
progressive italiana, L’ultima spiaggia
(12’54’’); così lo presenta un competente estremo di quel periodo, John, amministratore del blog John’s Classic Rock: “Dopo un
micro-attacco orchestrale e un breve innesto melodico, scatta di colpo un break
rock dalle sonorità conturbanti che spiana il terreno ad una sorta di
improvvisazione free basata principalmente sul sax, sul flauto e su di una
autorevole linea di basso che detta legge sino al finale”. Con l’eccezione
di Il soldato, brano più sbilanciato
verso un topico melodismo italiano, il resto dell’album (suonato
impeccabilmente) conferma un empito jazz rock che richiama, a tratti, i
primissimi King Crimson. A distanza di anni li trovo sorprendenti. Da
ascoltare, ovvio. Rocky Rossi, voce, sassofono, clarinetto; Roby Grablovitz,
chitarra, flauto; Luigi Ventura, basso, trombone; Rubino Colasante, basso,
batteria.
226. Ron 'Pate's
Debonaire (Stati Uniti) - Raudelunas pataphysical revue (1977). Occhio
… l’apostrofo prima di Pate’s indica l’appartenenza alla ‘Patafisica, corrente fondata
letterariamente e ideologicamente da Alfred Jarry. Cosa sia la patafisica è
discutibile: la scienza dell’identità dei contrari, delle eccezioni, del
relativismo fenomenologico … a distanza di anni non l’ho capito … posso dire
che i patafisici sono provocatori, ricercatori del futile, sobillatori del buon
senso. E così i Nostri: guidati dal reverendo Fred Lane (nome d’arte di Tim
Reed) aprono e chiudono il disco con due pericolanti versioni da big band, My kind of town (Chicago is) euna sguaiata Volare; nel mezzo, patafisicamente incongrui, abbiamo un concerto
per gracidii di rane, noise puro, avanguardia free jazz, musica spettrale da
giostrina, monologhi. Indefinibile e da ascoltare. Fred Lane, voce; Adrian Dye,
voce, tastiere; Nolan Hatcher, voce, corno; Cyd Cerise, chitarra, sassofono;
Omar Bagh-dad-a, tastiere; Ron 'Pate, trombone; Bob "Cheapskate"
Cashion, trombone; Mitchell Cashion, tromba, trombone, sassofono, corno,
percussioni; Craig Nutt, voce, sassofono, trombone, corno, percussioni; Johnny
Williams, sassofono; Davey Williams, sassofono; Johnny Fent-Lister, sassofono;
Nolan Hatcher, corno; Dick Foote, oboe, sassofono; Fred McGann, sassofono;
Roger Hagerty, oboe, sassofono; Don "Pretty Boy" Smith, tromba; Dick
Foote, oboe, sassofono; Don "Pretty Boy" Smith, tromba; Theodore
Bowen, cembalo; Cathy Mehler, violoncello; Abdul "Ben" Camel, basso;
Theodore Bowen, basso; "Bill" The Kid Dap, batteria; Anne LeBaron,
percussioni; arpa; LaDonna Smith, tromba, viola; Davey Williams, corno; Nips
"Napes" Newton, arpa, percussioni; Mark Lanter, batteria;
percussioni; Charles Ogden, batteria.
227. Dieter Roth-Gerhard Rühm-Oswald Wiener (Austria/Svizzera) - 3. Berliner Dichterworkshop 12./13.7.73 (1973). Gli austriaci Gerhard Rühm e Oswald Wiener
militavano nel Wiener Gruppe, sorta di cenacolo letterario d’avanguardia devoto
alle correnti più radicali sorte nei primi decenni del secolo breve (Surrealismo,
Dadaismo …). L’inizio (i primi dieci minuti) si stabilizzano su un pianismo
d’avanguardia piuttosto prevedibile (per chi è avvezzo alla lista NWW), quindi
si spalancano le celle imbottite: un coro intona in ordine sparso la vocalità
della propria follia dannata, quasi una parodia del Ligeti lunare di Kubrick; segue
la quiete, rotta quasi subito da giustapposizioni di fischi e fischietti
malandrini: la voliera del disagio mentale. Ci si ferma di nuovo, si riprende,
ci si trastulla con bizzarrie assortite, e poi via così, sino allo sfinimento
della ragionevolezza. Ognuno lo definisca a modo suo. Da ascoltare, ma con
cautela.
Maurizio Bianchi (M.B.) - Mectpyo blut (1979). Here's the very first release of the legendary Maurizio Bianchi,under the name M.B., from 1979. Not that harsh industrial noise outputs that can be heard in other releases ,but electronic experimental music, claustrophobic in the vein of Asmus Tiechens, early 80s recordings. Was re-released by Slaughter Productions in Italy, in the early 90s in limited edition of 30 copies.
"Bianchi began to produce music in 1979, and since 1980 has used electronic equipment with the avowed goal 'to produce technological sounds and in such a way to work on complete realising of the modern decadence'.
In the beginning, he published tapes under the alias Sacher-Pelz. In 1981, William Bennett, head of the band Whitehouse and the British Come Org. label, offered Bianchi a record contract, which Bianchi signed unchecked. It was based on a "joke contract" that Steven Stapleton of Nurse With Wound had sketched. The contract assumed all rights to Bianchi's work. After delivery of the tapes Bennett edited-in speeches by Nazi leaders, and instead of the relatively unsensational name MB, it was published under the alias Leibstandarte SS MB, named after the SS unit that worked as bodyguards to Adolf Hitler.
Until 1984, Bianchi published on other labels intensively as either MB or simply Maurizio Bianchi, sometimes several albums and/or tapes per year, as well as numerous tracks to compilations.
Bianchi became religious and withdrew from the music business. Much of his work is sought today by collectors, especially as they appeared in extremely small editions. In 1998, encouraged by Alga Marghen label head Emanuele Carcano, who offered him a label of his own, Maurizio Bianchi started again to make music. The label is EEs'T Records, through which he released new editions of all old MB albums, as well as many new releases.
Therefore, since 1997, he was back on the underground scene, working on several projects both in solo or in collaboration with other Italian artists (Giuseppe Verticchio/NIMH, Arnaldo Pontis and Corrado Altieri/TH26, Davide Femia/MDT, Saverio Evangelista, Matteo 'Hue' Uggeri/Sparkle in Grey, Emanuela De Angelis and Eugenio Maggi/Crìa Cuervos) and international (Klaus e Danijela Jochim/Telepherique, Sandro Kaiser/Frequency In Cycles Per Second, Akifumi Nakajima/Aube, David van Ravesteijn/Land Use, Siegmar Fricke, Nobu Kasahara e Hitoshi Kojo, Maor Appelbaum, Jozef Van Wissem, Craig Hilton, Philip Julian/Cheapmachines)".
Maurizio Giombini - Antropophagus/Le notti erotiche dei morti viventi (1980). 2 great electronic soundtracks to 2 Joe D'Amato movies by the great Marcello Giombini .In the same vein as TransVita Express LP.Scary electronic music all through(check the great interpretation of Zorba The Greek at the start of Anthropophagus , which was made in Greece). An Excellent companion to the previous posted Akron LP along with Jacula and the rest!
Master's Cosmic Music/Schlammpeitziger - Let the star shine in/Burgfensterrhytmuskuckloch (1994). Though I've never heard a peep about Master's Cosmic Music elsewhere, anyone out there thats kept an ear cocked to the sublime electronica developments that have emerged from the A-Musik/Sonig-related Cologne axis over the last 10+ years should be well aware of the truly wonderful Schlammpeitziger, an artist whose allegiance to the Cluster/Tietchens/Tyndall wing of the Sky Records aesthetic is even more self evident than those of his contemporaries in this scene. Which brings us to the album at hand, easily Schlammpeitziger's rarest. Issued back in 1994, before any real attention had consolidated around this emergent wing of German electronica, this sits at a complete right angle to any other recordings in his canon. Nope, theres no cartoonishly technicolor giddiness at work on his 4 tracks here. Rather, a completely different dimension to his work wholly abandoned thereafter: glazed and blasted kosmiche electronics of a very advanced order. Unexpectedly, it's Italy's Masters Cosmic Music who pull the proceedings closer to the anticipated Cologne electronica template, with a delicately chiming, tinking and blipping trifecta that brings to mind nothing so much as what To Rococo Rot's Stefan Schneider would be getting up to some five years later with his Mapstation project.
Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza - Niente (2010; recordings 1971). Registrato l'anno successivo a The feed-back, Niente conferma tutti i pregi di quell'operazione. Se la tromba di Morricone imprime uno scapigliato tono d'avanguardia jazz, chitarra e batteria imbrigliano tali impennate con un affascinante motorik d'ascendenza kraut. Ma poi, a pensarci bene: ascendenza? Crediamo davvero che gente come Morricone, Macchi, Evangelisti e D'Amario soggiacessero a influenze esterne? Meglio dire: consonanza. Da ascoltare con cura. Battisti D'Amario, chitarra; Egisto Macchi, tastiere, violino; Franco Evangelisti, Mario Bertoncini, tastiere; Ennio Morricone, tromba; Walter Branchi, basso.
Egisto Macchi - Voix (1975). Una delle opere più coinvolgenti e variegate del maestro grossetano. In Voix ritroviamo gli accenti intensamente drammatici a lui più congeniali (Phonèmes), plaghe contemplative (La calme, bellissima), escursioni à la Ligeti (Voix), cori di sottile inquietudine (Moonsong), brani (al theremin) di vena facile, ma riscattati, per il gioco dei tempi, dalla commozione ingenerata dal vintage. Uno dei tasselli fondamentali per la valutazione di una figura di assoluto rilievo della musica italiana del secondo dopoguerra.
Prima Materia - La coda della tigre (2005; recordings 1977). Rispetto al disco originale, tale versione assomma due live ulteriori: Berlino (19 Ottobre 1974) e Roma (17 Gennaio 1976). La prima materia è la voce, modulata secondo schemi rituali tantrici propri dell'Asia centrale. I vari bordoni vocali si susseguono avviluppandosi l'uno con l'altro, spenti e riattizzati con impercettibili sfumature: il fine è quello di creare una unità emozionale in grado di recare l'ascoltatore fuori degli stati consueti di coscienza. Notevole. Claudio Ricciardi, Gianni Nebbiosi, Roberto Laneri, Susan E. Hendricks, voce.
Luciano Cilio - Dell'universo assente (2004; recordings 1977). L'album raccoglie i brani dell'unico album lasciatoci dallo sfortunato musicista napoletano (suicida a trentatré anni), Dialoghi del presente, e una serie di inediti, più deboli. Nelle composizioni dei Dialoghi le più varie influenze (folk, classica, prog) si fondono sommessamente, con naturale grazia cristallina, filtrate dalla personalità inquieta e autunnale dell'autore. Per la riscoperta di Cilio in ambito internazionale molto ha operato il grande Jim O'Rourke. Da ascoltare. Luciano Cilio, chitarra, mandolino, flauto, basso; Patrizia Lopez, cori; Peppino Romito, oboe, corno inglese; Elio Lupi, violoncello; Girolamo De Simone, tastiere; Roberto Fix, sassofono; Peppo Cerciello, violino; Paolo De Simone, basso; Toni Esposito, percussioni.
6. Love Live Life + One - Love will make you a better one
(1971). Supergruppo
di vita brevissima: concerti e un solo album. Mizutani (già con People [JPR16],
Count Buffaloes [JPR27] e Masahiko Sato [JPR7]), Yanagida (Apryl Fool, EP8, e Sato),
Chito Kawachi (con Flower Travelling Band [JPR25]) organizzano un’energica
miscela fra rock, jazz e soul in cui si distingue l’iniziale The question mark (17’43’’), un classico
indiscutibile del decennio favoloso. Da ascoltare. Akira Fuse, voce; Kimio
Mizutani, chitarra; Takao Naoi, chitarra; Hiro Yanagida, tastiere; Toshiaki
Yokota, flauto, sassofono; Chito Kawachi, batteria; Masaoki Terakawa, basso; Naomi
Kawahara, percussioni. 5. J. A. Caesar - Kokkyō Junreika (1973). Un eccellente riassunto della carriera di
uno dei maggiori protagonisti del rock giapponese. Indicazioni, al solito,
scarne; Kokkyō è la colonna sonora d’uno
spettacolo, un greatest hits o altro? Importa poco, anche se la sensazione è
quella d’un opera compiuta e autonoma. Nei 53 minuti del disco Caesar alterna
rock puro, tastiere sotto acido, inflessioni tradizionali, brevi autocitazioni
(da Jashumon, del 1972), recitativi coinvolgenti,
tirate psichedeliche di rilievo (Minkan iryou jutsu, 11’47’’). Da ascoltare. Eimei
Sasaki, voce; Keiko Niitaka, voce; Masako Ono, voce; Seigo SHowa, voce; Yoko
Ran, voce; J. A. Caesar, chitarra, tastiere; Takeshi Mori, chitarra; Henriku
Morisaki, flauto; Yuzo Kawata, basso; Norihito Inaba, timpani; Kyozo Hayashi,
percussioni; Shuji Sasada, percussioni; Shigeo Ingai, percussioni; Shigeyuki
Suzuki, batteria. 4. Far East Family Band - Parallel world (1976). Un’occhiata alla foto
sopra, per favore. Il Papa del krautock e i suoi nipoti in riva al Pacifico: l’alleanza
perdente della Seconda Guerra Mondiale (assieme all’Italia e alla
collaborazionista Francia) fu l’asse portante dell’avanguardia progressive europea
più colta, e melodicamente meno accattivante. Lo space di Parallel world, sostanziato dalla suite eponima (30’15’’), è una
delle punte della musica nipponica dei Settanta – un’opera priva di esitazioni
e superiore al precedente Nipponjin (JPR14). Schulze produce, e si
sente, ma sull’operazione veglia anche il grande Günter Schickert. Da
ascoltare, ovviamente. Fumio Miyashita, voce, chitarra, flauto, armonica; Hirohito
Fukushima, chitarra, sitar, arpa, percussioni; Masaaki Takahashi, tastiere;
Akira Ito, tastiere; Akira Fukakusa, basso; Shizuo Takasaki, batteria.
Le prime pagine di Furore, di Steinbeck, in cui si descrive l'arrivo del Dust Bowl, la serie di tempeste di polvere che, come una calamità biblica, si abbatterono sugli stati centrali degli Stati Uniti negli anni Trenta.
Fu un evento storico; ora è una bella metafora su di noi. Anno 2014.
"Agli ultimi di maggio il cielo impallidì e perdette le nuvole che aveva ospitate per così lungo tempo al principio della primavera. Il sole prese a picchiare e continuò di giorno in giorno a picchiar sempre più sodo sul giovane granturco finché vide ingiallire gli orli d'ogni singola baionetta verde.
Le nuvole tornarono, ma se ne andarono subito, e dopo qualche giorno non tentarono nemmeno più di ritornare. Le erbacce si vestirono d'un verde più scuro per mascherarsi alla vista, e smisero di moltiplicarsi. La terra si coprì d'una sottile crosta dura che impallidiva man mano che il cielo impallidiva, e risultava rosa nella regione rossa, bianca nella grigia.
Nei solchetti scavati dall'acqua la terra si sgretolò in rigagnoli di polvere minuta, tosto percorsi da innumerevoli processioni di formiche e formiconi. E sotto le sferzate ogni giorno più crudeli del sole le foglie del giovane granturco perdevano la loro baldanza e la loro durezza; s'inchinavano, dapprima, e poi, man mano che s'infiacchiva la loro colonna vertebrale, si prostravano. E venne il giugno, e il sole diventò selvaggio; le strisce brune, sulle foglie del granturco, si estesero dagli orli fino a toccare le colonne vertebrali. Le ortiche si sfrangiarono, si raggrinzirono, invecchiarono.
L'aria era afosa e il cielo più pallido e di giorno in giorno la terra incanutiva.
Sulle strade, mulinate dalle ruote dei carri e trebbiate dai ferri dei cavalli, la crosta della massicciata andò in frantumi e creò la polvere. Le minime cose animate sollevavano questa polvere per aria: gli uomini camminando sollevavano nuvolette che s'alzavano fino alla loro cintola; i carri, nuvole più dense che raggiungevano le cime delle siepi; le automobili, nuvoloni che oscuravano il sole. E a tutta questa polvere occorreva molto tempo per ricadere e posare.
Verso la metà di giugno le nuvole dei cielo, alte, pesanti, gravide di pioggia, si mobilitarono nel Golfo ed iniziarono la loro marcia di invasione nel Texas. Gli uomini nei campi levavano gli occhi verso di esse e annusavano l'aria e rizzavano diti bagnati di saliva per ragguagliarsi sulla provenienza del vento. I cavalli diventavano inquieti. Le nuvole passando lasciarono precipitare parte del loro carico e s'affrettarono ad invadere altre contrade, lasciandosi alle spalle il cielo pallido come prima e il sole feroce, e nella polvere crateri pieni d'acqua, e nei campi di granturco chiazze rinverdite.
Passate le nuvole arrivò un venticello che, sospingendole verso settentrione, faceva mormorar sommesso il granturco annaffiato. Passò un giorno e il vento aumentò d'intensità e di costanza. La polvere s'alzò dalle strade e coprì le ortiche dei fossi e si spinse anche addentro nei campi di granturco. Il vento si fece impetuoso e si accanì nel rodere la crosta lasciata dall'acqua nei campi. A poco a poco il cielo si oscurò, per i turbini di polvere che il vento sprigionava dalla terra e trascinava via. Il vento si fece più impetuoso e sbriciolò la crosta formata dalla pioggia e la polvere turbinò per i campi trascinando nell'aria piume grigiastre, come spirali di fumo. Il granturco, flagellato dal vento, emetteva suoni secchi, rovinosi. La polvere impalpabile non ricadeva ormai più sulla terra, ora, ma si disperdeva nell'oscurità del cielo.
Il vento si fece ancor più impetuoso e guizzando di tra le pietre sollevava con violenza paglia e foglie morte e piccole zolle di terra, lasciando tracce al suo passaggio, al pari d'una nave tra i flutti.
Il sole splendeva rosso nell'aria oscura e fredda. Una notte il vento impazzò, zappò furiosamente la terra attorno alle radici del granturco, e il granturco si mise a lottare per difesa contro il vento agitando le sue foglie indebolite, ma nella lotta le radici risultarono denudate delle zolle di terra protettrice ed ogni pianta risultò inclinata nella direzione del vento.
L'alba venne, ma non il giorno. Nel cielo grigio apparve un sole rosso, un fioco cerchio rosso che emanava una scialba luce crepuscolare, e col progredire delle ore il crepuscolo ripiombò nella tenebra e il vento fischiò ed urlò sul granturco abbattuto.
Uomini e donne stavano tappati in casa, e quando dovevano uscire si annodavano una pezzuola davanti alla faccia per filtrare la polvere e portavano occhiali da automobilista per proteggersi gli occhi.
La notte fu nera come l'inchiostro, perché le stelle non potevano penetrare attraverso la polvere per raggiungere la tetra, e le luci accese nell'interno delle case non arrivavano nemmeno sull'aia. Ora l'aria e la polvere erano mescolate insieme in parti uguali. Le case erano ermeticamente chiuse, con tutte le fessure delle porte e delle finestre otturate da stracci; ma la polvere penetrava ugualmente negli interni, così impalpabile che risultava invisibile, e si posava come polline sui tavoli, sulle seggiole, sui piatti, sulle pietanze. Gli esseri umani se la spazzolavano di dosso, mentre strati di polvere s'erano accumulati sulle soglie delle case.
A metà della notte il vento s'allontanò e lasciò il paese in pace, perché l'aria densa di polvere smorzava ancor più della nebbia ogni rumore d'intorno. Le creature umane, coricate nei loro letti, udirono che il vento era caduto: fu il cessare del vento a destarle. Ma non s'alzarono, continuarono a giacere immobili tendendo l'orecchio al silenzio. Poi i galli cantarono, ma con voci smorzate, e le creature umane si rivoltarono impazienti nei loro letti aspettando il mattino. Sapevano che occorreva molto tempo alla polvere per ridiscendere a terra e lasciar pura l'aria. Difatti, venuto il mattino, la polvere restava sospesa come nebbia, e il sole era di sangue. Per tutta la giornata e così per tutto il giorno seguente piovve polvere, ricoprendo in modo eguale tutta la terra. Si posò sul granturco, s'accumulò sulle filagne delle staccionate, sui fili di ferro, sui tetti, sulle ortiche, sugli alberi.
Gli esseri umani uscirono dalle case e annusarono l'aria pungente e calda proteggendosi le nari contro la polvere. E i piccoli, i bambini, uscirono anch'essi, ma senza gridare, senza correre come avrebbero fatto dopo un comune temporale. Gli uomini s'appoggiarono coi gomiti sulle staccionate e osservarono il granturco rovinato, quasi secco ormai, con solo qualche strisciolina di verde sotto la pellicola di polvere. Gli uomini non parlavano, e si muovevano appena. E le donne uscirono di casa e vennero a mettersi vicino ai loro uomini per sapere se era questa la volta che i loro uomini si sarebbero dati per vinti. Le donne senza farsi vedere studiavano i visi dei loro uomini; perché al granturco si poteva, alla fin fine, rinunciare, purché fosse salvo qualcos'altro. I piccoli, lì vicino, disegnavano figure nella polvere coi diti dei piedi, e anch'essi inconsciamente studiavano i visi dei genitori, per vedere se si sarebbero dati per vinti. Studiavano le facce dei genitori e disegnavano figure nella polvere. I cavalli all'abbeverata, prima di arrischiarsi a bere, col labbro superiore spazzavano il pelo dell'acqua. Dopo un poco, i visi degli uomini perdettero la loro stupefatta perplessità ma acquistarono un'espressione dura, collerica, ostile. Allora le donne capirono che erano salvi, che gli uomini non si davano per vinti, e allora ardirono domandare: Cosa facciamo? E gli uomini risposero: Chi lo sa, ma le donne capirono che erano salvi, e i piccoli capirono che erano salvi. Le donne e i piccoli avevano l'intima convinzione che nessun disastro era catastrofico se i loro uomini non si arrendevano. Le donne rientrarono in casa alle loro faccende, e i piccoli cominciarono a giocare, ma con discrezione, sulle prime. Col progredire del giorno il sole, meno rosso, ricominciò a scaldare la terra impolverata. Gli uomini, seduti sui gradini d'accesso alle loro case, s'occupavano a disegnar figure in terra servendosi di fuscelli o di sassolini. Non parlavano; meditavano, calcolavano".
Public Zone - Naive/Innocence (1977). Peter Goodwin, voce; Sean Lyons, chitarra, Tony Adam, basso; Florian Miksa, batteria.
Pure Hell (Philadelphia) - These boots are made for walking (1978). Stinker, voce; Chip Wreck, chitarra; Lenny Still, basso; Spider, batteria. Prima punk band di colore (nati nel 1974).
PVC2 (Glasgow) - Put you in the picture (1977; 7''). Midge Ure, voce, chitarra; Billy McIsaac, tastiere; Russell Webb, basso; Kenny Hyslop, batteria.
Radiators from Space (Dublino) - TV tube heart (1977). Philip Chevron, voce, chitarra; Pete Holidai, voce, chitarra; Mark Megaray, basso; Jimmy Crashe, batteria; Steve Rapid (Steve Averill)
Radio Stars (Benfleet/Manchester) - Radio stars 1977-1979 (?). Andy Ellison, voce; Ian MacLeod, chitarra; Martin Gordon, basso; Steve Parry, batteria.
Raped (Londra) - The complete Raped collection (1994; recordings 1977-1978). Sean Purcell, voce; Faebhean Kwest, chitarra; Tony Baggett, basso; Paddy Phield, batteria.
Razar (Londra) - Idle rich (1978; 7'')/Ascension day (1978; 7''). Grant Stevens, voce; Ant Glynne, voce, chitarra; Jim Avery, voce, basso; Gordon Barton, batteria.
Red Letters (Newtongrange) - Sacred voices (1979; 7''; rintracciato un singolo su tre). Ted Echo, voce, chitarra; Pud Allan, basso; Jake Hunter Herriot, batteria
Red Lights (Deptford) - Never wanna leave (1978; 7''). Ian Russell, voce; Ashley Cadell, chitarra; Andrew Howell, basso; Steve Townsend, batteria. Seconda formazione: Ian Russell, voce; Ashley Cadell, chitarra, Andrew Howell, basso; Steve Townsend, batteria.
Reducers (Manchester) - Limited edition (1978; 7'')/Man with a gun (1979)/Airways (1980). Raggy F, voce; Roy Tynan, chitarra; Stuart Lyons, basso; Graham Barstow, batteria.
Lady Gaga, la dominatrice del pop internazionale degli ultimi anni, è una e trina? O cinquina?
Una
Kommissar Rex, la fortunata serie televisiva, si incentra sulle vicende di un simpatico pastore tedesco (Rex, appunto), gran mangiatore di panini e brillante detective, e collaboratore della Squadra Omicidi di Vienna.
Il ruolo di Rex è essenziale: salva vite, annuncia pericoli, segue tracce, intrattiene la squadra, indirizza le indagini.
Occorre dirlo: Il Commissario Rex è un telefilm rasserenante e antistress. E il cane, dallo sguardo umanissimo, il nostro beniamino indiscusso. Chi non ama Rex?
Bina
Non possiamo che restare estasiati, peraltro, di fronte alle sue capacità attoriali, mediamente superiori al miglior attore italiano. Rex sullo schermo è così bravo che dobbiamo augurarci che Elio Germano, Paravidino, Rohrwacher, Accorsi e compagnia recitino come cani; anzi come questo cane qui.
Trina
C'è un risvolto, però: Rex non è Rex. O meglio: è cinque Rex. Cinque pastori tedeschi, molto simili, con compiti diversi in scene diverse: siamo noi che, nella sospensione dell'incredulità, crediamo che ci sia un unico e solo Rex.
Poco male. Chiediamoci, però, con la paranoia montante propria dell'uomo digitale: tale proliferazione di ruoli e caratteri, perfetta per la diversificazione pubblicitaria (target dei gonzi), non potrebbe avvenire in altri campi, ben più lucrosi? Una Lady Gaga una e cinquina - cinque avatar interscambiabili - non costituirebbe l'uovo di Colombo della nuova credulità con la carta di credito facile?
La letteratura fantastica (fantascientifica o fantasociologica) ci ha preavvertito per tempo. Philip Dick e Milos Forman hanno delineato società fittizie, immensi Truman Show ... E allora? Perché esitiamo a trasporre nel reale visioni distopiche ormai alla portata della tecnologia e della propaganda più avanzate?
Quadrina
La nostra adolescenza fu segnata da Huxley, Zamjatin, Orwell e, ora che ci siamo, che viviamo quelle società, giochiamo a fare gli scettici?
Cinquina
L'ha detto anche Edward Snowden: con la tecnologia attuale Orwell può considerarsi una sciocchezzuola. Altro che 1984.
Vi vedo ritrosi. L'argomento non vi convince. Non è perspicuo. Pensate: troppo grosso ... Sì, vi comprendo: vi vergognate, il vostro senso comune si ribella. Se vera tale cosa sarebbe talmente enorme che ... No! Non può essere vera! E Bin Laden? Morto nel 2001? No, non può essere vero! E l'ISIS, finanziato da Obama! No! Ma dai! E le Torri Gemelle? Ma no!
Il buon senso ...
E Sestina, abbondiamo
In effetti devo dirlo: non può essere vero. Uno scherzo. Joker lo scherzoso. Mentre aspettavo l'upload di Early British punk mi annoiavo e ho voluto farvi uno scherzo.
Una burla. Una celia. Non può essere, dai. Come non detto, lasciamo perdere. Torniamo a dormire.
per la gravità del tuo affronto. Ci vuole una guerra. Dolore, lutti, devastazioni, privazioni, chiusura alla speranza, paura. Lo dico subito: ci pentiremo di aver scritto queste parole; esse ci danneranno. Dovremo trascinarle come un piombo da galeotto per il resto della vita. Calamiteranno infamie. Eppure sono necessarie; dirò di più: inevitabili. Per la salvezza occorre una guerra: ecco un buon destino per la Patria; per noi tutti. Arte, bellezza, grandezza, amore, sentimento, purezza: questo viene negato ogni giorno di più; ed è negato e vilipeso poiché ogni maledetto giorno ci allontaniamo dalle fonti del dolore e del lutto. Si è negata la Morte tenendola a distanza; esorcizzata; derisa. Ma è la nostra Signora e Madre e Benefattrice. Perché non riconoscerlo? Senza di lei siamo perduti: deboli, stupidi, infrolliti, ridanciani, grossolani, turisti in ciabatte. Ogni moto del cuore mai spontaneo, mediato da un codice di comportamento universale e piatto. Il sentimento è sentimentalismo, l'ardore un focherello da beccuccio del gas; il coraggio spavalderia gradassa; l'amore un andirivieni di salamelecchi; lealtà, perseveranza, fedeltà, magnanimità, ostinazione, fratellanza sono impossibili: non riusciamo a tenerle che per poche ore, poi la volontà si diluisce nella grascia del quotidiano. La nostra lingua è sparita: attingiamo a una sorgente avvelenata che fa di ogni parola la parola di un altro: ogni invocazione, appena proferita, è già ridicola, eguale a milioni d'altre. L'arte è sparita. Lontano dal dolore, che rende essenziale il gesto, e moltiplica la forza interiore d'ogni oggetto, ogni fatto artistico può essere goduto non in sé, poiché privo di valore estetico, ma in virtù d'una propaganda che ci sussurra continuamente cosa apprezzare: e noi, obbedienti, non facciamo che testimoniare e ripetere tali istigazioni, credendo d'aver maturato un gusto. Noi siamo finiti. Finiti. E non d'una fine bruciante e gloriosa, ma spegnendoci nella pura esistenza, giorno dopo giorno, un passo dietro l'altro. Ho misurato la mia vita con cucchiaini da caffè, diceva il profeta. Abbiamo bisogno di una guerra. Di un aguzzino, di massacri, di bagni di sangue, di odio, fame, sopraffazione. Per questo il Potere ama la pace perpetua; il Potere recherà la morte solo nei campi di chi non s'arrende, di chi ha storia, orgoglio; contro coloro per cui il no è no e il nesso di causalità è ancora un valore. A noi, invece, i finti vincitori, i perduti, annegati nel liquido amniotico del Lete, Esso riserverà la pace. Eterna e immutabile. Guai a chi pensa altro! Chi non agogna la pace? Tutti la vogliono. Come è possibile non desiderarla? Ed eccoci, allora, noi uomini della pace! Ogni passione spenta, i tratti snervati, amorfi, flaccidi; non riusciamo più a distinguere alto e basso; tutto ci va bene, non prendiamo niente sul serio; per noi, in fondo, una cosa vale l'altra; la nostra violenza scoppia improvvisa e ridicola riversandosi da subito nel canale di scolo di una fulminea indifferenza. Ma è sempre più raro questo: in genere amiamo la quiete e sopportiamo tutto - tutto, purché non ci si distolga da questa letargia infinita, drogata! E, soprattutto, non ci distolga dalla pace! Vogliamo stare in pace! Cosa vuoi dalla vita, servo? La pace, la tranquillità. La serenità. Persuasi al nulla. Osservate gli uomini di un recente passato, leggete le loro parole. Parole umili, semplici; parole precise, inequivocabili, adamantine, che significavano qualcosa e parlavano senza inganno a tutti. Dopo le tempeste d'acciaio e sangue, uomini e idee, antichi e nuovi al contempo, rifulgevano d'una vitalità sorgiva, insopprimibile, netta - come antichi monili aurei riaffiorati contro la terra nera dopo una pioggia incessante e rovinosa; e la Natura, nell'aria finalmente pulita e tersa, si offriva nuovamente con le linee definitive della verità - ecco l'attimo da desiderare, il tempo della rinascita! Non abbiamo scampo. Dobbiamo desiderare la guerra e il dolore. Ognuno, fra sé, la appellerà come crede opportuno. Succedere a noi stessi, contro noi stessi, a nostro danno - riusciremo a tanto sacrificio? Give war a chance.