domenica 31 agosto 2014

Trilogia della collera/2 ovvero L'estinzione dell'Italia ovvero Charged GBH - City baby attacked by rats (1982)


La trilogia propone alcune riflessioni enigmatiche accompagnate da un terzetto musicale (nascosto dal consueto fogliame) suggerito dal blog Detriti di Passaggio: Exploited, GBH, Discharge.
Oggi la seconda puntata.

* * * * *

Ogni popolo segue il proprio destino.

Da Bombay a New York, ad Alessandria, Oslo, Plovdiv, Mosca; da Buenos Aires a Canberra a Shanghai a Roma, il pianeta è avvolto da una ragnatela che abbatte le distanze, le incomprensioni, le lingue.
L'utopia di millenni è forse realtà? L'umanità che si scioglie in un abbraccio universale.
Interconnessi, veloci, fluidi, omogenei, uniformi, informatissimi, globali, ecumenici, fratelli.
Non è questa la pace perpetua? La vittoria somma della civiltà, il culmine di ogni profezia benigna?
Fig. 1 Affreschi ancora visibili
Oppure dietro tutto questo si cela un vincitore di parte?
C'è un prezzo da pagare?
E chi è il debitore?
Noi ovviamente, l’Italia.
E non si esige una libbra di carne, ma il nostro passato, la nostra lingua: tutto ciò che dona un senso a volti, mura, torri, campagne, panorami, città.

Si è finalmente compresa questa guerra eterna a Iraq, Iran, Egitto, Palestina, Siria, Russia, Cina, Grecia e, ora Italia? Capite il suo fondo limaccioso?
Iraq, Iran, Egitto, Palestina, Siria, Cina, Grecia, Italia …
Ovvero Mesopotamia, Persia, Canaan, Catai; e Latini e Greci, i fondatori dell’Occidente.
La Storia.
Signori, questa è una battaglia contro il passato, contro la tradizione, la diversità, la lingua.

Ecco Walter Kurtz/Brando: "Drop the bomb. Exterminate them all". E Walter Kurtz/Conrad: "Exterminate all the brutes". 
Siamo noi i selvaggi.
Siamo messi a morte.

Chi non ha passato non ha futuro; non è in grado di prevedere, pianificare, opporsi; e chi non comprende la propria lingua non controlla la realtà.
Senza la storia e il linguaggio si generano omiciattoli devoti al qui e ora, ossequiosi, conformisti, inoffensivi, paghi delle miserabili granaglie di una finta libertà civile; ecco il piano.

Fig. 2 Gli affreschi trafugati
Abolizione del passato. Ci dicono: il passato appesantisce gli stivali tecnologici delle sette leghe; il passato è una memoria d'orrore, la storia non è più magistra vitae: a cosa serve? Rinunciate!
Ma col passato si cancella il futuro, ci si condanna alle minutaglie dell’attimo, all’eterno presente, all’autismo di massa, ai ceppi da servi.

Abolizione della lingua. L’italiano succube del nuovo esperanto: un cicaleccio universale e imbastardito dall'uso internazionale, fitto di tecnicismi, abbreviazioni, ammicchi, gergalità professionali; efficace per comunicare le stesse cose a qualsiasi latitudine, con la stessa espressione e il medesimo, estenuante e meschino simbolismo: di fatto un pastone generico, slabbrato; povero, poverissimo. Senza parole si sacrifica una parte della personalità. Senza parole ci si consegna alla monodimensionalità. Senza parole si pensa entro i confini della riserva. 
Quali sentimenti e intelligenza può avere un essere umano senza parole?
Solo quelli standard, confezionati; quelli pronti all’uso, in comodi pacchetti da acquistare online.

E questa sconfitta epocale cosa rende in cambio?
Rinunciamo a noi stessi, al nostro popolo, a millenni di luce in cambio della pace perpetua, della terra promessa?
Ve lo dico: questo è l’inferno. L’inganno del principe delle tenebre.
Dove la felicità se un pugno di uomini ha in mano le sorti del pianeta?
Quale progresso se ogni paese è schiacciato dal potere dell'oro, da un feudalesimo nichilista e tecnocratico?
Quale libertà se l'informazione viene costantemente distorta e fa a capo a poche e consuete sorgenti avvelenate?
Fig. 3 Parete a destra

Estinzione del passato, dell’Italia.
Una chiesa medioevale del centro Italia. 1200 circa.
Affreschi più tardi, di scuola umbra, fra Quattrocento e Cinquecento.
Nella fig. 1 in una foto degli anni Ottanta. 
Dopo mezzo millennio, nonostante le incurie e il menefreghismo, erano ancora visibili.
Eccoli oggi (figg. 2/3/4).
Trafugati, svaniti, annientati.
Il tetto della chiesa ha ceduto, l'altare è in macerie, l'acquasantiera è stata estirpata dalla parete, i fregi rubati; l'entrata è ostacolata da un enorme fico, l'intero vano è invaso da cespi di erbe selvatiche.
Il passato svanisce, svanisce il popolo che il passato teneva unito e in vita.
Fig. 4 Gli ultimi residui degli affreschi
PPP: “I monumenti, le cose antiche, fatte di pietra o legni o altre materie, le chiese, le torri, le facciate dei palazzi, tutto questo, reso antropomorfico e come divinizzato in una figura unica e cosciente, si è accorto di non essere più amato, di sopravvivere. E allora ha deciso di uccidersi: un suicidio lento e senza clamore, ma inarrestabile. Ed ecco che tutto ciò che per secoli è sembrato ’perenne’, e lo è stato in effetti fino a due tre anni fa, di colpo comincia a sgretolarsi, contemporaneamente. Come cioè percorso da una comune volontà, da uno spirito. Venezia agonizza, i sassi di Matera sono pieni di topi e serpenti, e crollano, migliaia di canali (stupendi) in Lombardia, in Toscana, in Sicilia, stanno diventando dei ruderi: affreschi, che sembravano incorruttibili fino a qualche anno fa, cominciano a mostrare lesioni inguaribili …”
Gioia e rivoluzione

Estinzione della lingua, dell’Italia. Il testo che leggete è apparentemente in italiano. In realtà è scritto nel gotico internazionale dei conquistadores. Garcilaso de la Vega, l’Inca sconfitto, scriveva nella lingua dei vincitori, lo spagnolo. Io stesso scrivo pensieri Inca, che il sangue ancora vivifica, ma la prosa, e il concetto che la doma, appartiene agli spagnoli del nostro tempo. Di fatto sono un traditore. Pensare secondo il volere dei barbari rende barbari; o inoffensivi. E patetici. Volete fare la rivoluzione via sms? Impossibile. La lingua è il pensiero. Se non ci appartiene, siamo noi che apparteniamo agli altri. Gli Incas lo sapevano bene:

“Appare un altro idioma ... decade la nostra lingua patria …” 
“Avrai perduto, uomo, la tua sapienza profonda, la tua scrittura …”
 “La tua storia, senza la tua lingua, sarà come immondizie raccolta"
“I barbuti uomini bianchi saranno i padroni anche della tua lingua?”

La piramide massonica della felicità
L’utopia menzognera esige dunque il nostro passato, la nostra lingua, l’anima dell’Italia.
Questo il demoniaco tributo.
In cambio di niente.
E noi ci consegn(i)amo, solerti.
Tutti uniti come nello spot della Coca Cola, ecumenici, libertari, pacifisti e innocui – disposti a piramide a cantare il ritornello dei fessi.

Lettera di Charles Darwin a Lyell, 1859: “In qualche periodo futuro, non molto distante se misurato nei secoli, le razze civilizzate dell'uomo stermineranno e rimpiazzeranno le razze selvagge in ogni parte del mondo … Le razze intellettualmente più deboli vengono [infatti] sterminate …” (The less intellectual races being exterminated)
We, the brutes.

Il nostro nemico è troppo potente. Ci ha già dissolti; e dissipato la nostra cultura, i costumi, la storia.
Rendersi conto di una sconfitta così gigantesca è un debole conforto. D'altra parte non c'è rimedio. L'Italia si appresta a diventare, con propria gioia, una nota a pie’ di pagina dei nuovi mercenari. Certo, rimane la possibilità di farsi ascari o kapo, cosa di cui la maggioranza si compiace, fessa o criminale com'è.
Poveri italiani, rinchiusi nelle riserve, ubriachi, rincretiniti, costretti a una lingua che gli fa pensare cose impensabili sino a qualche decennio fa; poveri babbei italiani, marci, corrotti, spaesati; che si coprono le orecchie non sapendo da dove arriverà il prossimo colpo. Ignoranti, afasici, istericamente felici. 
Felici come nelle pubblicità subliminali e surreali dell'Unione Europea: prima era il male, ora invece, tutti fratelli ... ordine, progresso, libertà, sorrisi ...
Felici e, sì, traditori.

Ci faranno aprire un casinò come i Navajos dell'Arizona? Il gioco d'azzardo va forte. Ci avete mai pensato? Lotterie, riffe, bet win, bingo, gratta e vinci: una babilonia del rischio. D'altronde non è ciò che facciamo di continuo? Giocare per passare il tempo? Giocare col pc, gli emoticon, le telefonate, la televisione, le email - interconnessioni del nulla.

Spianate le colline, dissipati i confini, sbriciolati i fianchi delle montagne, oltrepassati i fiumi, resi innocui i marosi dell'oceano, domati il caldo ardente e il gelo che rende secche le membra, ogni uomo - un servo eguale all'altro - si congiunge mano nella mano, nell'estasi dell'ebetudine.

La Storia è finita.

giovedì 28 agosto 2014

Zamrock rules - Seventies rock from Zambia vol. 1 (Rikki Ililonga/Musy-O-Tunia/Ngozi Family/Chrissy 'Zebby' Tembo)

Chrissy 'Zebby' Tembo
Apprendo, con una certa trepidazione (è un piccolo brivido che mi coglie ogniqualvolta scopro una vena preziosa nelle viscere della montagna del conformismo e del deja entendu), che:
“Zamrock emerged in the 1970s in Zambia as a combination of Jimi Hendrix's psychedelic rock and James Brown's funk. Rikki Ililonga & Musi-O-Tunya are generally credited as the creators of this music genre. Other notable artists include WITCH, The Peace, Amanaz, Chrissy "Zebby" Tembo, Paul Ngozi and his Ngozi Family among others.
Zamrock's roots can be traced back to the 1950s with northern singers from the Copperbelt Province such as Stephen Tsotsi Kasumali, William Mapulanga and John Lushi.”
Nikki Ililonga e Musy-O-Tunia
La combinazione che mi ha portato a queste povere righe di Wikipedia (e al post vero e proprio) si compone di una mail di Evil Monkey (che includeva il link a un gruppo prog dello Zambia, The Invaders) e della mia personale maniacalità, ai limiti del disturbo ossessivo (il controllo totale di un fenomeno artistico, ad esempio: dello Zamrock in tal caso).
Su tale corrente misconosciuta si può, da pionieri, e da disboscatori pionieri della Virgin Forest, osservare:
1. Vale la pena ascoltare lo Zamrock? Sì, assolutamente. Se qualcuno si sdilinque per i Necromandus o perde tempo dietro il cinquantesimo live dei Pearl Jam; se alcuni si eccitano per la versione remaster di Led Zeppelin 1 (22 euri) o per il bootleg Live in Amsterdam dei Rolling Stones, è persino doveroso ascoltare lo Zamrock.
WITCH (We Intend To Cause Havoc) live
2. Ci sono capolavori nello Zamrock? Si giudicherà, Tembo e Ililonga sono ottimi artisti; in generale è possibile ascoltare buone canzoni, gustare delle interessanti impennate funky e world, un rock basico e viscerale, oltre ad annusare un’aria sincera e frontista (il secondo album di Rikki Ililonga è titolato Soweto [1978], in discreto anticipo sui piagnistei ecumenici e occidentalisti anti apartheid).
3. Cosa manca allo Zamrock? Al solito: le buone produzioni (che, spesso, 'creano' gli artisti), la pubblicità e la propaganda, i ritornelli buoni per la cattivazione mainstream (una Hey Jude zambiese, per intenderci; o una Get lucky).
4. Lo Zamrock è derivativo? Questione complessa. Gli zambiesi usano sicuramente strutture rock occidentali (e quindi derivano da Hendrix o James Brown); operano, tuttavia, nella loro terra. In altre parole: il jazz e il blues (e, poi, il rock) afroamericani sono creazioni in terra ostile (i deportati africani rigenerarono la propria musica con mezzi di fortuna trovati nel continente degli aguzzini), ma il sentire degli zambiesi è quello sorgivo: si può dire che, allo stesso modo dei nuovi americani, utilizzino sì mezzi di fortuna ed estranei alla propria cultura (chitarre elettriche, moderne percussioni …), ma al fine di concretare una forza popolare e tradizionale; altrove irriproducibile: Public Enemy, Miles Davis e Black Panthers possono sbattersi quanto gli pare … altro che négritude … lo dico al netto della genialità espressiva che è propria a tali artisti e rivoluzionari, ovvio …
Ah, il rock vietnamita ...
5. Notiamo ancora una volta, en passant: c’è da disboscare parecchio … osservate la copertina a lato … il lavoro è immane … si procede in terra incognita … si prende un sentiero, questo si biforca, ci si incammina a destra: strada sbarrata. Si torna indietro, via a sinistra: ancora biforcazioni, triforcazioni, piante carnivore, miraggi vegetali, inganni prospettici, trappole: lungo la strada si inciampa in una pietra affiorante: un sasso? Parte di un rudere? La sommità di un tempio sepolto? Quien sabe …

Ngozi Family - 45000 volts (1979)

Chrissy 'Zebby' Tembo - My ancestors (reissue 2010; recordings 1974)

Rikki Ililonga & Musy O Tonia - Dark sunrise. The birth of Zamrock as told through the music of its pioneer: 1973-1976 (2010; recordings 1973-1976?)


martedì 26 agosto 2014

Supersister - Present from Nancy (1970)/To the highest bidder (1971)

Occhio alle date. Gli olandesi furono tra i primi a distillare un progressive puro e non derivativo dai modelli anglosassoni. Le ottime Present for Nancy e Memories are new, dal primo album, oscillano fra il brillante e fluido incedere e gli arabeschi più complessi e acidi delle tastiere. Il resto dell'opera prima si compone di un eclettismo lodevole seppur forzato (da una cover di Eight miles high sino ad accenni di musica sacra per organo); To the highest bidder conferma tale vena (A girl named you; No tree will grow) nonostante le prime infiltrazioni d'una attitudine pop piuttosto facile.
Robert Jay Stips, voce, tastiere, vibrafono; Ron van Eck, basso; Marco Vrolijk, voce, batteria, percussioni; Sacha Van Geest, voce, flauto [solo su Present for Nancy]

sabato 23 agosto 2014

Focus - Live at The Rainbow (1973)

Il cuore dell'album è sicuramente l'esecuzione del classico Hocus Pocus, un melange ipercinetico fra hard rock, flauti prog e yodel, una delle gemme tenuta in serbo da qualsiasi radio DJ per scaldare i motori o i padiglioni assonnati. Incastonato a Hocus troviamo anche Sylvia, brano in cui l'energia live si stempera in un melodismo facile, ma indubbiamente accattivante. Eruption e Answers! Questions! Questions! Answers!, dal tono quasi funky, completano perfetti questa esibizione di forza coinvolgente.
Tale ultimo tratto nei live sublima in pregio; nella restante produzione di studio, invece, scevra dalla rutilante estroversione, s'avverte costante l'insidia della grossolanità. 
Thijs van Leer, voce, tastiere, flauto; Jan Akkerman, chitarra; Bert Ruiter, voce, basso; Pierre van der Linden, batteria.

mercoledì 20 agosto 2014

Cosmos Factory - An old castle of Transylvania (1973)

Fuori dai 50 dischi del Japrocksampler, An old castle si è guadagnato una discreta fama fra i melomani rock in virtù di un noto binomio: l'oscurità e il fascino insondabile delle atmosfere anni Settanta (Ah, quel moog!); abbiamo già accennato qualcosa in proposito. I Nostri oscillano fra psichedelia e progressive: i primi brani sono piuttosto anonimi; cominciamo a staccarci da terra con Fantastic mirror; l'acme si raggiunge la quadripartita ed eponima suite: solida e pienamente devota agli stilemi del tempo essa vanta quella piacevolezza che consiste nel far trovare all'ascoltatore ciò che questi s'aspetta di trovare in un prodotto psichedelico/prog degli anni Settanta.
Godurie del deja entendu ...
  
Hisashi Mizutani, voce, chitarra; Tsutomu Izumi, voce, tastiere; Toshikazu Taki, voce, basso; Kazuo Okamoto, batteria, percussioni.

domenica 17 agosto 2014

Present - Le poison qui rend fou (1985)

Transfuga dagli Univers Zero (parte del movimento Rock in Opposition assieme a Henry Cow, Aksak Maboul, Etron Fou Leloublan, fra gli altri), il chitarrista Trigaux assolda il vecchio compagno Denis e licenzia il secondo album del gruppo.
Progressive non facile, obliquo e perturbante come in alcune tirate zeuhl dei confinanti transalpini (soprattutto nei brevi inserti vocali della Pollaris). Trigaux, la mente dei Present, riesce a miscelare atmosfere da finis terrae (come nella prima metà del brano iniziale, 15'24'') con orchestrazioni sofisticate e complesse. Da ascoltare subito.
Roger Trigaux, chitarra; Alain Rochette, tastiere; Ferdinand Philippot, basso; Daniel Denis, percussioni; Marie-Anne Pollaris, voce.

giovedì 14 agosto 2014

Mutant Sounds reborn - The Italian posts of Mutant Sounds vol. 13 (Luciano Dari/Magazzini Criminali/Malombra)


Luciano Dari - Idrogeni superiori/Wajd (1990). Great release from the founder of Musica Maxima Magnetica records.Actually re-release of his 2 80s LP ,by Soleilmoon records. Sometimes reminds me of early 70s German poineers Kluster or Tangerine Dream mixed with MB industrialism with hidden hints of a minimal synth pop feeling.By all means amazing work!

Magazzini Criminali - Crollo nervoso (1980).Though they've never been properly credited for it, these terminally obscure Italian nutters were the first to execute an album length work of explicit plunderphonics. Having said that, you'd be hard pressed to find an album more inscrutable in both concept and execution, Magazzini Criminali here treating extended passages of Eno instrumentals from Another green world along with The Beatles, ethnic recordings and a raft of other appropriated audio as just so many square feet of interchangeable aural wallpaper on which to splash extended passages of overlapping histrionic yammer on concepts of earth shaking gravity like, er...papaya juice concentrate and dancing in Ghana. It's maddening, baffling and oddly amusing by turns and to be honest, I still haven't the slightest fucking clue what to ultimately make of this thing myself. Come to your own conclusions.
Note: Many thanks to the commentator who straightened me out about the correct artist at hand here. Turns out that for years I'd been mis-identifying this LP as being by Crollo Nervoso, rather than it being the debut LP by Magazzini Criminali (the cover and spine are of little aid here). Now that it's been clarified, all the pieces are finally beginning to come together in my head. It turns out that their follow-up LP Notte senza fine was posted some time back on the Enatiodrome blog Here and that they're some sort of theatrical troupe turned musical à la Chene Noir, which would account for the conceptual dimension I was grappling with above.

Malombra - Malombra (1991). You may all have noticed that i really enjoy dark organ dominated LPs,in Jacula,Antonius Rex,etc. vein. One of the most representative labels of this genre is the Italian Black Widow records.This LP was released by this label in 1991 and is long sold out.Stunning dark atmosfear in Black Widow meets King Crimson guitar works meets early Black Sabbath(!) jamming together with Jacula and Robert Smith or Peter Murphy on vocals. Anyway,some categorise it as black metal ... I disagree, this is pure organ driven dark progressive music with some Black Sabbath hints. Searck within blog for Jacula, Antonius Rex and other Black Widow records releases posted.
A band bio from Black Widow homepage:
"Based in Genoa and one of the historical acts of Black Widow Records, MALOMBRA has become an institution among non-commercial music fans since their first self-titled release back in 1993. Their incredible mix of gothic and darkwave influences, as well as progressive and avant-garde moods took an even more professional shape with the next Our lady of the bones, which spread MALOMBRA's name world-wide and let the band start playing tons of live gigs. Led by the charismatic figure of the frontman Mercy, MALOMBRA passed a troubled period of radical line-up changes while the band worked to some tribute albums and side projects like IL SEGNO DEL COMANDO and HELDEN RUNE. Eventually new members were found and MALOMBRA started concentrating on their new opus, The dissolution age, a modern come-back which will be an enthusiastic surprise for old and new fans!The long-awaited "The Dissolution Age" witnesses a deep change in MALOMBRA's sound, different from the past but still personal and recognisable. "If my band happened to turn foreseen, I'd rather shut it down" states Mercy, and voilà: the superb vocals by Mercy are supported by a wall of sound as never before by Roberto Lucanato and Francesco La Rosa, while the eclectic bass lines by Diego Banchero deal with the incredible synth-work by Franz Ekurn, which explores symphonic atmospheres as well as electronic and even EBM-oriented ambiences. With lyrics ranging from philosophy to politics, from religion to socio-cultural problems, "The Dissolution Age" is the perfect soundtrack for new millennium's decadence!"

lunedì 11 agosto 2014

Pelican - Australasia (2003)


Album strumentale di mesozoica graniticità e geologica scossa tellurica, prodotto negli anfratti orfici in cui furono precipitati la Gerusalemme degli Sleep, le anfetamine degli Earth e i mantra degli Om.
Lunghi brani che coniano, rinnovano, resuscitano forse, un metal chitarristico progressivo ma schietto e ruvido, direttamente dalle sabbie rosse di Joshua Tree, senza l'alea e il free form totale di un Haino, o il rumorismo di un Brötzmann, ma con l'impatto deformante dei Boris prestati a monologhi che, se a prima vista appaiono flussi destrutturati, sono in realtà incastri meccanici di riff, armonie e ritmi colossali ma pur sempre riconoscibili, addirittura accattivanti; come quando il vento spazza le dune e lascia affiorare le ossa del titano sepolto.
Il dialogo finale di NightEndDay, chitarre che si danno le spalle, schiena contro schiena, parlandosi addosso; l'assalto maledetto dei carri armati in Drought, che avanzano tra popoli di pastori avvolti solo in bandiere verdi, rosse e nere. Una Reign in Blood per un emisfero davvero al buio, mai artatamente horror o fintamente violento, mai auto indulgente, nemmeno nell’enfasi di Angel Tears, inno per una nazione senza più parole. C'è la subdola pressione psicologica al prigioniero altre le linee nemiche, la contestazione all'ordine costituito che culmina con l'assalto caotico ai Wall-Mart di un popolo di consumatori zombie che si mangiano l'un l'altro con perverso compiacimento.
Come se le grandi jam della Baia o del southern - Gold and Silver, Whipping Post, Dark Star - fossero state ricoperte da colate di lava luminescente, solidificatasi nella schiuma dell’oceano, in cordoni di basalto nero che lasciano appena trasparire la melodia sotto un perenne drone sotteso a tutto il racconto, che diventa eco di abbandono nostalgico nell'ultimo capitolo dell'avventura.
Finchè la faglia non arriva talmente in profondità nella crosta continentale da esplorare tutti i colori del rosso, per riemergere su di un lembo di spiaggia al tramonto.
Pelican: notevole (e personale) riscoperta di inizio millennio.

- See more at: http://theevilmonkeysrecords.blogspot.it/#sthash.vLK1oD8t.dpuf

venerdì 8 agosto 2014

Woodstock in Argentina - Rock hasta que se ponga el sol (1973; recordings 1972)

Cosa sovraintende all'apprezzamento di un'opera artistica (e di una manifestazione naturale; o della bellezza)? Il contesto culturale, direte. E sia, in parte è così. In parte, tuttavia.
Contesto personale. Questo è il più facile: i gusti propri di un fruitore musicale, ad esempio. Liberi quant'altri mai: soggiogati dalla latitudine, dagli usi, ma anche (somma contingenza) dalle vicende soggettive: un amore, una vicenda fortunata, il rimembrare la giovinezza legano a doppio filo dischi o brani e li sottraggono alla razionalità della critica.
Contesto tradizionale (famiglia, educazione, nazione etc). L'ascendenza familiare, il genio della nazione sbozzano fruitori estetici predisposti verso timbri, toni, melodie, assonanze e ritmi che, a fruitori altri, paralleli ed estranei, suonano incomprensibili, oppure anonimi.
Contesto epocale. Sottogenere del precedente. Un preciso periodo storico aggruma tendenze, simpatie a cui i singoli fruitori, volenti o nolenti, si acconciano irresistibilmente: rococò, liberty, Biedermeier, funzionalismo, progressive, country rock, grunge, art pompier, techno. Il contesto epocale si accompagna a vezzi, mode, propensioni: la sovrastruttura di tale gusto spesso estemporaneo.
Contesto pubblicitario. Fiammate indotte del gusto: balli di San Vito, pestilenze, isterismi commerciali; con una precisa scaturigine, quasi sempre artificiale e scientifica. La resistenza pare impossibile: maghi e streghe, al riparo delle multinazionali, filtrano i beveraggi per il popolo bue; si punta alla maggioranza silenziosa (la campana di Gauss: i consumatori al centro, i falliti e i piantagrane di lato ...); si centra il bersaglio: da silenziosa la maggioranza diviene quasi sempre ossequiosa (a Lady Gaga, U2, Justin Bieber, Oasis et cetera).
Contesto culturale indotto o acculturazione. Come quello pubblicitario, ma tarato su lunghe distanze temporali al fine di trasformarlo in culturale. Ne parlava (mezzo secolo fa) Pier Paolo Pasolini. 
La tradizione di un popolo cede a quella di un altro: l'Italia quale esperimento di colonizzazione angloamericano; il fruitore musicale riceve, sin dall'infanzia, l'imprinting dell'anatroccolo (l'anatroccolo apre gli occhi e segue il primo vivente che cade nel circolo della propria coscienza). E così l'italiano: Elvis Presley, Beatles-Rolling Stones-Who, Frank Sinatra, poi Pink Floyd (Another brick in the wall!), Police, U2, Blur; il resto del mondo sonoro per l'italico cane di Pavlov sfuma da subito in intrico indistinto e indesiderabile: la Virgin Forest; per il consumatore la via è tracciata; la sua vita di ascoltatore anche; i dischi son già pronti sul piatto: per il ribelle c'è pronto Bruce, per il melodico il nuovo wall of sound inglese e così via: per il nazionalista di provincia, ancora, istintivamente, meno globalizzato, si approntano modelli ad hoc: per il ribelle c'è Ligabue e Vasco, per il melodico Pausini e Antonacci. 
Questo nel migliore dei casi.

* * * * *

Rock hasta que se ponga el sol fu la colonna sonora del film omonimo diretto da Aníbal Uset nel 1973; si basava sulle registrazioni del Festival Rock di Buenos Aires dell'anno precedente. Nei primi anni Settanta in Argentina regnava un conflitto politico cruento e durissimo fra sinistra e peronisti: esso portò, per l'implacabile coazione a ripetere della Storia, alla richiesta di legge e ordine; l'anelito al viver quieti s'inverò stavolta con le fattezze piccolo borghesi del dittatore Jorge Videla.
Ascoltando il disco pensavo: nonostante la musica sia, fra le arti, quella universale, poiché spiccia da ingombri contingenti; nonostante l'esperanto di chitarra, tastiere e ritmica, che accomuna tutti dall'Artide all'Antartide, cosa posso capire di tale disco? Come posso immedesimarmi in quel contesto culturale (l'ansia di democrazia, l'odio politico etc etc)? Quale la mia comprensione profonda, a quarant'anni e undicimila chilometri di distanza? E tale ignoranza, non dolosa, non si rifletterà sul mio (nostro) giudizio critico?
E ancora: possibile che, dopo tutti questi decenni di ascolti serrati, non avessi il minimo sentore di tale Woodstock sudamericana? Non sarò anch'io preda e vittima di quell'acculturazione indotta, di quell'imprinting che m'induce a riandare esclusivamente alla Woodstock della contea di Bethel (Oh, Richie Havens! Oh, Santana! Oh, Canned Heat!)?
E, dopo decenni di Joe Cocker and Little help from my friends (ascoltati e riascoltati, magnificati, amplificati, sedimentati) l'analisi di Rock hasta que se ponga el sol quale valore avrà?
Le ansie e le palpitazioni dell'arena di Buenos Aires (quanti di loro sopravvissero alla dittatura?) erano forse inferiori ai moti del cuore degli hippies? E la musica? Così insulsa da meritare un oblio tenace e universale? Uno scarto di considerazione così abissale?
No, assolutamente no.
A volte la gloria è di chi se la piglia. Per questo servono i critici: per riequilibrare le sorti della fortuna e dell'inganno commerciale.
Per questo oggi non ne esistono più.

01. Color Humano - Larga Vida Al Sol
02. Color Humano - Coto De Caza (Cosas Rusticas)
03. Leon Gieco - Hombres de Hierro
04. Vox Dei - El Momento En Que Estas (Presente)
05. Vox Dei - Las Guerras
06. Vox Dei - Jeremias Pies de Plomo
07. Gabriela - Campesina Del Sol (con Edelmiro Molinari)
08. Billy Bond Y La Pesada Del Rock & Roll - Tontos
09. Claudio Gabis - Raga (con Isa Portugheis)
10. Orion's Bethoveen - Nirmanakaya
11. Sui Generis - Cancion Para Mi Muerte
12. Litto Nebbia - El Bohemio (con Domingo Cura)
13. Litto Nebbia - Vamos Negro
14. Opiniones Del Publico (interviste)
15. Pappo's Blues - En Las Vias Del Ferrocarril
16. Pappo's Blues - El Tren De Las 16
17. Pescado Rabioso - Ya Despiertate Nena
18. Pescado Rabioso - Corto
19. Pescado Rabioso - Post Crucifixion
20. Arco Iris - Hombre

martedì 5 agosto 2014

French zeuhl and progressive vol. 4 (Artcane/Ma Banlieue Flasque/Rahmann)


Vi invito a un esperimento molto soggettivo: confrontate i toni progressive di questi tre gruppi francesi della seconda metà dei Settanta con quelli di formazioni transalpine presenti nella Nurse With Wound list (Archaïa, Magma, Art Zoyd, Ame Son, Jean Cohen-Solal, Lard Free et cetera). Non sentite sulla lingua un sapore diverso? Più aggiustato, rifinito, ordinato, professionale; meno ricco d'empatia e partecipazione: in altre parole, grossolane, ma veritiere: più freddo? Come certi sommelier che sono in grado di distinguere annate, vigneti ed esposizioni con una semplice degustazione, non potete, voi, individuare una sottile crepa strutturale, epocale e rovinosa, rispetto al recentissimo passato (Sessanta e primi Settanta) - un cambio di aria e atmosfera presente nei timbri, nelle percussioni, nella foga d'esecuzione, nella passionalità d'insieme?
Perché la fine dei Settanta e i primi Ottanta sono, al netto della qualità dei singoli interpreti, più falsi, costruiti e controllati rispetto a quel periodo?
Cos'è cambiato in poco tempo?
Sono cambiati gli strumenti? O le produzioni, la tecnica di registrazione? I discografici hanno puntato sulla grana grossa? Ancora: l'avvento d'un nuovo ordine sociale (anzi, del ritorno all'ordine sociale e al conformismo compiaciuto) si riflette anche nella musica?
Oppure la forza ideologica e delle illusioni, che gonfiava quel decennio mirabile, s'era dileguata per sempre, lasciando sul campo solo autori professionali ed eccezionali strumentisti (come in Rahmann o Artcane, ad esempio?).
Nonostante la qualità (alta), lo scarto si avverte, a orecchio (stavo per dire: a naso).
Altri uomini, altri musicisti e cantautori, ovviamente, rinnovelleranno quelle passioni: sempre individualmente, però; mai con quell'urgenza collettiva, unificante, totalizzante; quando ogni cosa pareva possibile.

Artcane - L’Odyssée (1977). Jack Mlynski, voce, chitarra; Stanislas Belloc, voce, basso; Alain Coupel, voce, tastiere; Daniel Locci, percussioni.

Rahmann - Rahmann (1979). Louis César Ewandé, chitarra, percussioni; Gérard Prévost, basso; Michel Rutigliano, tastiere; Amar Mecharaf, batteria, percussioni.

Ma Banlieue Flasque - Ma Banlieue Flasque (1979). Marc Le Devedec, voce, chitarra; Philippe Maugars, voce, chitarra; Philippe Botta, flauto, sassofono; Loïc Gauthier, basso; Chypo, voce, batteria. 

sabato 2 agosto 2014

Julian Cope - Japrocksampler vol. 13 (J. A. Caesar/Takehisa Kosugi/Geinoh Yamashirogumi/Masahiko Sato & Sound Breakers)

Masahiko Sato

10. J. A. Caesar - Jashumon (1972). Già recensito qui.

9. Takehisa Kosugi - Catch-wave (1975). E se fosse Kosugi il maestro segreto della musica rock giapponese del dopoguerra (assieme a Keiji Haino, ovvio)? Le sue idee innervano altri quattro dischi presenti nel Japrocksampler: JPR46, JPR40 (Group Ongaku), JPR37 e JPR35 (Taj Mahal Travellers). Qui è al suo meglio: due composizioni (26’35’’ e 22’39’’) in cui bordoni cosmici si avviluppano lentamente su se stessi, una incarnazione elettronica dell’Om, mantra di meditazione e via per l’immersione nell’inner space. Da ascoltare; melodici astenersi.

8. Geinoh Yamashirogumi - Osorezan/Doh No Kembai (1976). Primo disco di un collettivo fondato nel 1974. Due composizioni influenzate dai tradizionali nipponici: se la prima, Osorezan (La montagna di fuoco, 18’51’’), rielabora la materia sino a calibrarsi su una psichedelica ampiamente apprezzabile anche ai palati europei, la seconda (Doh No Kembai, 18’40, La ballata della spada di rame) è il probabile resoconto, senza accompagnamento strumentale, d’uno spettacolo teatrale: molto più ostica per l’ascoltatore, ma affascinante nella sua spettrale ritualità. Seiji Hayamizu,chitarra; Takayuki Inoue, chitarra; Katsuo Ohno, tastiere; Takanori Sasaki, basso; Jiro Suzuki, batteria.

7. Masahiko Satoh & Sound Breakers - Amalgamation (Kokotsu no Showa Genroku) (1971). Abbiamo già incontrato Satoh (JPR21 e JPR34).  Il primo brano, con l’apporto di Kimio Mizutani (JPR16 e JPR27) e Yanagida dei Food Brain (NWW17), è una giustapposizione affascinante di rock, funky, inserti di musica colta (e discorsi hitleriani); il secondo s’instrada nei binari più riposanti dell’improvvisazione jazz. Notevole. 1° brano: Shigenobu Okuma, voce; Kimio Mizutani, chitarra; Shungo Sawada, chitarra; Hiro Yanagida, tastiere; Wehnne Strings Consort; D.D. Dickson, trombone; Jochen Staudt, trombone; Jackie Heimann, tromba; Peter Davis, tromba; Masaoki Terakawa, basso; Louis Haynes, batteria. 2° brano: Masahiko Sato, tastiere; Mototeru Takagi, sassofono, clarinetto; Hideaki Sakurai, voce, batteria, percussioni; Sabu Toyozumi, percussioni; Kayoko Ishu, scat.