venerdì 28 febbraio 2014

Talking Heads - Memories can't wait. The best of Talking Heads (2014)



Cosa dobbiamo, a quasi quarant'anni di distanza, ai Talking Heads? Quella di averci liberato dal rock, dai patemi del rock, dalle pastoie del luogo comune del rock.
Ecco il cantante rock che avanza sulla scena, blatera, suda, urla - un Dioniso crocifisso che rende plastico il proprio dolore e il dolore del mondo; e il chitarrista che officia questo rituale sacrificio di morte e rinascita, dietro ai clangori della sezione ritmica; e tutti i parafernalia e il bric-à-brac connessi a tale messa in scena: le luci, i fumi, gli annunci roboanti, gli aizzamenti del pubblico - sempre meno pubblico e sempre più congregazione fanatica - e poi i bis, i tris, i karaoke, gli assoli, i ritornelli ...
David Byrne, Jerry Harrison, Tina Weymouth e Chris Frantz fanno retrocedere d'un colpo, sino al dejà vu, tutto questo (in alcuni casi lo rendono kitsch, improponibile): la loro musica è, invece, priva di pathos, asettica, bianca, ritmata sino al ballabile e alle fredde ingerenze world di I Zimbra e Remain in light; e declinata dalla voce pacatamente lounge e schizoide di Byrne. Per operare tale rottura i Nostri si affidarono alla persona giusta: Brian Eno; e svernarono nella capitale del mondo, New York, che, durante la no wave, di tale rottura sarà l'incubatrice, partorendo psicopatici in serie: Mars, Suicide, Arto Lindsay, DNA.
Ai Talking Heads va, però, riconosciuto un ulteriore doppio merito: quello di essere arrivati primi (i demos della CBS datano al 1975), mentre tutto il mondo si preparava, invece, al punk e all'hardcore, ovvero a quelle ultime, oblique reviviscenze della brutalità rock più sanguigna; e quello di aver seppellito, nella loro tana, pure il maledettismo dei Velvet Underground che, dalla loro prospettiva, gelida e distaccata, soffriva un decadentismo estetizzante troppo marcato.
Alle calde e rassicuranti mattane del rock 'n' roll, incendiarie e risapute, i Talking Heads opposero una pop dance fintamente composta: d'una calma inquietante come un paziente sotto sedativo.

mercoledì 26 febbraio 2014

Traditional music of the vanishing peoples vol. 4 (Iran/Siria) ovvero The grapes of wrath

Volete conoscere come svaniscono i popoli? Come si forma il blues? Chiedo la vostra attenzione: i seguenti brani (tre; brevi) sono tratti dal capolavoro di John Steinbeck, Furore (The grapes of wrath). Il primo presenta l'opposizione fra il popolo (legato a valori tradizionali) e un potere impalpabile e feroce, quello delle banche:

"I mezzadri alzavano gli occhi, pieni di spavento. E noialtri? Come si mangia?
Eh, a voi non resta che andarvene altrove. Viene la trattrice.
Ed ora gli uomini accoccolati si rizzavano in piedi, furenti. Ma questa terra l'ha presa mio nonno agli indiani, rischiando la pelle. E mio padre c'è nato e l'ha lavorata, lottando da disperato contro i serpenti e le erbacce. E' venuto un anno cattivo e ha dovuto ipotecare. E noialtri siamo tutti nati qui.
Ecco là i nostri bambini ... anche loro sono nati qui. Anche allora, quando mio padre ha fatto l'ipoteca, anche allora il padrone era la banca, ma ci ha lasciati stare, e ci spettava un tanto su ogni prodotto.
Tutto questo lo sappiamo, ma non siamo noi, è la banca. Una banca non è mica un uomo. E neanche è un uomo, il padrone di cinquantamila acri. Non è altro che il mostro.
Va bene, gridavano i mezzadri, ma la terra è nostra. L'abbiamo misurata noi, dissodata noi. Siamo nati qui, qui ci hanno ucciso, qui siamo morti. Anche se non è buona, è nostra lo stesso. E' l'esserci nati, l'averla lavorata, l'esserci morti, che la fa nostra. E' questo che ce ne dà il possesso, e non una carta con dei numeri sopra.
E' doloroso, ma noi non c'entriamo. E' il mostro. La banca non è un essere umano.
Va bene, ma è una società di esseri umani.
Niente affatto. Questo è il vostro errore. La banca è qualcosa di diverso da un essere umano. Capita che chiunque faccia parte di una banca non approvi l'operato della banca, eppure la banca lo fa lo stesso. Vi ripeto che la banca è qualcosa di più di un essere umano. E' il mostro. L'hanno fatta degli uomini, questo sì, ma gli uomini non la possono tenere sotto controllo.
I mezzadri gridavano: per avere la terra mio nonno s'è battuto con gli indiani, mio padre s'è battuto coi serpenti, a noialtri ci toccherà di batterci contro le banche, che son peggio degli indiani e dei serpenti. Vuol dire che ci batteremo, per tenerci la nostra terra, come han fatto i nostri nonni e i nostri padri.
E adesso i rappresentanti montavano in collera. Dovrete andarvene.
Ma è nostra, urlavano i mezzadri. Noi ...
No, è della banca, è del mostro. Dovete andarvene.
E se prendiamo i fucili, come il nonno quando vennero gli indiani? E allora?
In questo caso ve la vedrete con lo sceriffo, prima, e poi con la truppa. Non capite che, se v'ostinate a restare, contravvenite alla legge sulla proprietà, e che se fate uso delle armi siete dei delinquenti?
Il mostro non è un essere umano, ma può servirsi degli uomini per ottenere quello che vuole".

Capite? I padri, i nonni, i figli, il sangue, la terra ... Il popolo trae forza e origine dalla propria terra. Ma un mostro, impersonale e inesorabile, li scaccia da essa: non ha odore, personalità, colore, direzione, fattezza, sentimenti; è un golem senza occhi e bocca, cieco, onnipotente, privo di pensiero. Ed eccolo che si invera nei campi polverosi di Tom Joad:

"E arrivarono le trattrici. Strariparono dalle strade, invasero i campi, penetrarono dappertutto, strisciando come dinosauri dotati dell'incredibile forza degli insetti … sul suo sedile in ferro il conducente non aveva aspetto umano. Inguantato, occhialuto, mascherati il naso e la bocca contro la polvere, era parte integrante del mostro, era un fantoccio meccanico".

Perdere la propria terra, la propria lingua, le proprie abitudini significa perdere il proprio senso nel mondo. Significa esilio, perdizione. Incas, Aztechi, aborigeni australiani, Navajos, africani. E ora? Palestinesi, Greci, Italiani. Avanza un mondo alternativo. Il mostro. Credete che le rivoluzioni le facciano solo i giusti? Questa è una rivoluzione ideologica, che lascerà dietro di sé fiumi di sangue. Inodori, però. Visti da nessuno. Avanza il Moloch. Avete mai visto una banca? Le superfici lucide, immacolate, odorose di detergente, gli schermi azzurrini dei PC, i marmi ... ecco cosa sta vincendo; ecco a cosa si oppongono gli uomini di Furore ... Uno dei suoi protagonisti si aggira fra i campi desolati come uno spirito del deserto:

"Come nei cimiteri le anime dei dannati. Vado a visitare i posti che conosco, dove mi son capitati dei fatti indimenticabili. Vicino a casa mia c'è una conca, tutta cespugli. E' lì dentro che m'ero sverginato, a quattordici anni. Be', tornavo lì, e mi coricavo a terra, e rivivevo tutto l'episodio. E il posto dietro la stalla dove mio padre è rimasto sbudellato dal toro. Il suo sangue è ancora lì, sotto la terra; nessuno può averlo levato via. Be', vado lì, e m'inginocchio sulla terra bagnata dal suo sangue. Mi credete proprio tocco nel cervello?".

Cominciate a capire qual è la posta in gioco? Terra, sangue, amore, tradizione contro lo spossessamento totale da parte di un  mondo asettico, autistico, individualista, plutocratico, freddo, indifferente, anticomunitario. Sembrano parole d'ordine antiche, dite? Avete colto nel segno. E sapete perché? Perché tutto, TUTTO, fascismo, socialismo, umanitarismo, anarchismo, tutto si oppone a questo superfascismo finanziario globale. E nell'opposizione si ritrovano tutte le parole; quelle di tutte le antiche fazioni. Non a caso l'eterno presente del fascismo finanziario ha un solo nemico indomabile: il passato.
Il passato, i popoli, il blues.
E l'Italia, che sta sparendo sotto i nostri occhi.

lunedì 24 febbraio 2014

Out of blue - Un collage


Ovvero liberi percorsi per strade secondarie. Accogliamo viandanti e viaggiatori, autostoppisti e musicofili.
A questo giro hanno collaborato:

Evil Monkey

Massimiliano Manocchia

Vlad

Mr. Hyde

Mr. Hyde che ringraziamo, oltre che per i contributi scritti, per il video e le immagini che trovate in questo post.

* * * * * *

E.M.: La precedente conversazione si è chiusa con una proiezione futurista del blues sulle autostrade dei Kraftwerk.
Riprendo dunque il filo quindi dai territori impervi del kraut-rock, ma lo faccio in modo meno fantasioso di Massi e mi limito a citare un brano da Schwingungen degli Ash Ra Tempel, Light: Look at your Sun, uno dei massimi esempi di blues incisi al di qua dall'Atlantico.E' il pezzo che Morrison e Buckley avrebbero sempre voluto cantare; e a dirla tutta ci sono andati vicino, (sopratutto Tim). Eppure quella vocalità dimessa, fatalista, di John L. accompagnata da quel notevole chitarrista che fu Gottsching, genera una foschia violacea ammantata di blue a cui ogni appassionato faticherà a resistere.
Non vado oltre, perchè in realtà vorrei rileggere l'intervento di Vlad (http://isle-of-noises.blogspot.it/2014/01/pyramids-lalibela-1973-ovvero-come.html), perentorio quanto chiaro nelle definizioni. Lo condivido in buona parte, mi piace l'ardire di citare Afrika Bambaata, Galeano e la “lavandaia italiana”. Cos’è per lui il blues:

“È prima dell’accademia. È la terra.
I canti degli italiani immigrati; degli europei immigrati in America ad esempio nordici, irlandesi, ebrei, est europei: sono blues.
Il blues appartiene agli sconfitti.
Il blues all’opposizione. Contro il potere, inevitabile.”

Scrivi blues, leggi folk.
Ma non sarà - e risparmiatemi le critiche per la superficialità dell'assunto - che il blues sia il folk dei neri, e il folk il blues dei bianchi?
Se gli orizzonti culturali, geografici e l'estrazione sociale degli esecutori sono così sovrapponibili, allora per trovare una discriminante dobbiamo davvero tornare al pentagramma?Le blue note, le 12 battute, la struttura AAB …
Alla fine dipende magari da come si afferra uno strumento. Nella presa del manico sta tutto. Del simpatico Big Jim Courier dicevano che impugnava la racchetta da tennis come fosse una mazza da baseball; con violenza e scarso talento tecnico. Il nero strappa chitarra e armonica dalle mani degli europei e le suona sovrapponendo la sua cultura musicale a quella per cui quegli strumenti erano stati fabbricati. Folklore sovrapposto ad hardware sonoro. Si direbbe d'istinto, senza metodo;con scarsa tecnica, inventando per necessità.
Mother of invention?
Lo strisciare un coltello sulle corde per riprodurre i miagolii degli strumenti monocordi tribali. E se non c’è il coltello? Va bene anche il collo di una bottiglia. Ecco l’invenzione. E la necessità.
Soffiare in un armonica diatonica per riprodurre una scala cromatica. E le note mancanti? Si soffia in modo da piegare appena l’ancia, ed ecco fatto. Alla lunga lo strumento si rompe, ma la nota si trova.
Necessità, invenzione.
Sarà così, o stiamo ancora perpetrando il mito del buon selvaggio che bambinescamente soffia coi sui labbroni nella Marine Band della Hohner e la trasforma in un piccolo sax tascabile? E’ davvero frutto di un approccio infantile, sregolato, estemporaneo e un po’ bizzarro? Chi si azzarderebbe a dire lo stesso del jazz?
Queste sono riflessioni che facevo mentre mi rigiravo tra le mani alcuni vecchi LP della gloriosa serie Folk della Fonit-Cetra,quella collana diretta da Giancarlo Governi per cui nei tardi anni '70 sono stati pubblicati numerosi album, tra cui senza dubbio ci sono anche le canzoni della “lavandaia” citata da Vlad.
Non so se quelle pubblicazioni siano mai state ristampate in CD; i vinili a volte li potete reperire in qualche negozio di seconda mano, forse anche a qualche vinylmania, pur se non sono considerati oggetti molto “cool”.
Tra i vari che ho soppesato ho optato per Gli alberi crescono alti (canzoni di lavoro, d'amore di guerra e di lotta delle Isole Britanniche) di Fred Lane e Kjell Westling, con una bellissima cover illustrata dagli Arcani Maggiori da farlo sembrare qualche oscuro progressive mistico.
Che c'entra col blues? Forse nulla, è un grande album involontariamente freak come fossa la Incredible String Band. Però è tutto quello che Vlad cita come "essere blues" e con cui sono d'accordo.

Vlad: Allora: un esempio.
Gli africani se ne stanno nella loro terra; qualcuno suona con strumenti indigeni; altri con strumenti influenzati dalla matrice araba islamica…
La loro musica può essere vincente, dolorosa, di vittoria, celebrativa, ma rimane la loro musica.
Gli africani vengono razziati, la loro cultura, di fatto, distrutta.
Essi cercano di ripristinarla in condizioni avverse, culturali, sociali, riadattando gli strumenti e formalizzando il tutto secondo le teorie dei conquistatori.
La lama del coltello, il collo della bottiglia, le scale…
Ecco il blues.
Allo stesso modo: Pizarro distrugge gli Incas; la loro cultura è di fatto dispersa.
Settant’anni dopo un discendente di Atahuallpa (ultimo sovrano Inca ucciso da Pizarro), il grande poeta inca (ma spagnolo naturalizzato) Garcilaso de la Vega, cerca di evocare la propria terra con gli strumenti linguistici, culturali e politici del conquistatore.
Una operazione blues.
Non so che chitarre o flauti  avessero gli Incas. Sorge una domanda: i peruviani oggi fanno il blues? Ricreano in terra ostile, con strumenti stranieri, le melodie Inca?
E i messicani fanno lo stesso con gli Aztechi?
E gli aborigeni australiani? E i persiani?
E i calabresi che suonano la pelle della capra che fanno? I calabresi, i Greci, la tragedia (detta canto del capro) … che musica avevano i Greci nella tragedia? Cosa sopravvive oggi delle culture sconfitte, cancellate, e viene riproposto (anche involontariamente) con diversi mezzi, quelli attuali, quelli dei vincitori?
C’è da indagare per decenni … Siria, Sardegna, Normandia, Yemen, Australia, Galles …
Il blues afroamericano è così famoso solo perché vicino a noi e miracolosamente vicino ai registratori vocali di Lomax e compagnia. In caso contrario (afroamericani razziati nel 1500 e peruviani sin nel 1800 e passa) non avremmo mai avuto Blind Lemon Jefferson o Leadbelly, ma una pletora di sudamericani che suonava strumenti Inca riadattati … Eric Clapton avrebbe schitarrato col suo nuovo gruppo: Balseros del Titicaca …
Il blues (quello classico e riverito) ha avuto una fortuna sfacciata.

Massi: Ah, gli Ash RaTempel: mi hai colpito in un punto debole… che mi strappa ovvietà adolescenziali: è una delle mie band preferite (l’ho detto, chiedo venia). E quel John L. che nella vocalità somiglia non poco a un altro John L., arrivato quasi un lustro dopo a minacciare l’anarchia nel Regno Unito, per poi trasformarsi in un muezzin che intona cupi mantra psicotici.
Inevitabile che si debba parlare anche di folk. Nessuna critica per la “superficialità dell’assunto”, poiché anche un’eventuale definizione di folk deve per forza possedere i connotati delineati da Vlad. Forse in parte sì, dobbiamo tornare al pentagramma, a patto che si comprenda che il blues non è trascrivibile. O meglio, lo sarebbe anche, ma se provassimo a suonare un blues eseguendo pedissequamente, vale a dire col “rigore esecutivo” cui si accennava, la trascrizione, il risultato sarebbe tutto fuorché blues. Mi spingo oltre: se inseriamo un brano qualsiasi, anche di musica classica, in uno dei tanti software che “suonano” i pentagrammi, avremmo un risultato ottimo: per quanto mancante di feeling (e questo può metterlo solo un esecutore “umano”), l’output sarebbe comunque ottimale. Ma se proviamo col blues, questo non accade; si ha quasi l’impressione che esso non si lasci “catturare” in modo definitivo, che non sia mai uguale a se stesso, che si nutra di micro-variazioni di ritmo, shifting di accenti non codificabili sul pentagramma; a volte il blues sembra essere quel tipo di tensione emotiva che sfugge a qualsiasi tentativo di codifica.
Il tentativo di riappropriazione della propria cultura da parte di un popolo ‘deportato’ in terra straniera risente necessariamente delle “influenze” culturali e sociali della terra che lo “ospita” (sfruttandolo), e il blues non fa eccezione. È vero, come afferma Vlad, che  ha avuto una fortuna sfacciata, avendo in qualche modo tratto vantaggio dalla tecnologia, ma credo sia l’ultima grande forma di musica folk prodotta dall’umanità. Posto che si tengano fuori dal discorso la house e la techno, col suo corollario di cosiddetta “cultura rave” che, personalmente, considero altrettanto “folk.” Scontato, allora, ma da sottolineare, il collegamento precedentemente accennato ai Kraftwerk, ormai indiscussi precursori (consentitemi un luogo comune, per una volta) della techno.
E forse, oggi, il blues non lo si fa più “strisciando coltelli sulle corde”, né mettendo bene in evidenza le blue notes o la struttura AAB, e a dire il vero già alcuni bluesmen appartenenti alla “classicità” – mi viene da citare ad esempio Lightnin’ Hopkins, benché non sia il solo – avevano fatto più di un tentativo per rivitalizzare la loro musica uscendo, ancorché di poco, dagli stereotipi sonori e strutturali già consolidatisi da qualche decennio.
Ecco quella che mi sembra una buona domanda: come si fa il blues oggi che non esistono più le lavandaie?

E.M.: “Come si fa il blues oggi che non esistono più le lavandaie?”
Ma io credo che quelle sono almeno 40 anni che non ci sono più. Non c’erano più già quando Clapton clonava l’assolo di Otis Rush su All your lovin’.
Però non per questo manca autenticità. Che magari non è sempre sinonimo di grande musica.
“Autentico è ricreare originalmente”, scrive Carmelo Bene citando Foscolo.
Alcuni dei blues migliori – e autentici - li ho sentiti per strada, tra i buskers.
Uno era un giapponese enorme che suonava una fantastica National Steel. Si faceva chiamare The Fujii e vendeva il suo CD autoprodotto su un marciapiede sotto il portico di una banca, 10.000 lire: Anyway what time did you get up this morning. Uno di quegli slide solitari e stonatissimi, tirate di sei setti minuti, trombettisti free, bordoni di armonica, registrato per strada.  Una favola… Crecatelo in giro, ne vale la pena.
Gli altri erano un trio di svizzeri con un batterista che batteva su una specie di bidone del rusco e uno che suonava un manico di scopa infilato in un secchio. L’unico che aveva uno strumento era il chitarrista. Si chiamavano Hell’s Kitchen e suonavano quei groove ipnotici alla John Lee Hooker.
Ecco questi due esempi sembrano proprio schegge di qualche cultura mista, di rifugiati, di evasi. Apolidi. Cari a Vlad. Eh, sì, il blues è stato fortunato. Ma si è meritato tutto quanto.


Corollario

Mr. Hyde: "Voglio essere considerato un poeta jazz che suona un lungo blues in una jam session d’una domenica pomeriggio" [Jack Kerouac – nota su Mexico city blues].

E’ vero: il blues è un’entità spirituale che vaga tra un’anima e l’altra. Ne sceglie una a caso e comincia a tormentarla. Aleggia nell’aria, preferisce quella mefitica delle metropoli, città abbandonate come, per fare un esempio, Detroit, un tempo capitale dell’auto, oggi deserto urbano. Ma anche gli acquitrini, il Mar Nero, i giardini di arance sommersi dalla lava dell’Etna. Desolazione. Passato. [Hyde]

"Nobody know the other side of my house, my corner where I was born, dusty guitars" [Jack Kerouac – Mexico city blues, framm. da 127h Corus].

Sono convinto che la beat generation ebbe come riferimento il blues e lo Zen. Forse non ne fu consapevole ... Kerouac però scrive: "Charlie Parker assomigliava a Buddah" [Jack Kerouac – Mexico city blues, framm. da 239h Corus].

Ma c’è un altro lato non proprio Zen, del Blues, sanguigno e terreno:

Il blues è un uomo in una notte gelida, che cammina per un’eternità, di luogo in luogo, Sutton Place o Bowery, vivendo. No! Non vivendo. E’ quella memoria viva ma non condivisa, che vive la vista che vediamo viva e vivente. Contenuto? Perché ridicolo? Donne su cuscini abbracciati in piscio pisciato, piscio schizzato nel rigagnolo non o perfino non come il suo disconoscente getto che imbeve l ’inguine vestito e filtra attraverso i suoi resti abbigliati. Puzzando nel suo angolo moccioso che si trasforma in carta raramente in cambio della sua ragione, alcool, risposte della vita agli onniscienti, le audacie con le donne, il vino, i canti, le danze e gli stordimenti. Risuonano vecchie azioni fredde, egli respira e vive momenti no, di stravaganti momenti benedetti d’amore detti d’amore, tutte menzogne, menzogne di non-verità reciproche che sfortunatamente si sono unite e hanno odiato le verità universali, dentro e fuori, a seconda che si presuma che lui non è una lei. Dannazione a tutto blues; Avvitato al gelido marciapiede fondente di pietra audacemente abbracciata, erezione di cemento, immaginato morbido solo per ritardate erezioni di solitudine che sono diventate femminili e ti rispondono umide, calde lacrime,non troppo allontanato dal suo comune denominatore, urina ghiacciata che fonde alla audace morte bollente che si aggrappa alla vita per amore al pensiero di una risposta, sia sulla creta, sulla terra o sull’asfalto io osservo nella mia ebbra febbrile ricerca di un vero inguine femminile, che mi vuole come io voglio lei,senza mai odiarmi perché abbiamo trovato rifugio e soddisfazione come due pietre ubriache che si riscaldano fianco a fianco dentro e fuori della nostra debilitata idea della scopata di lati opposti” [da “Peggio di un bastardo”– Charles Mingus]

E.M.: C'è una musica blues. Ma c'è anche una “prosa” blues? Cosa la rende così? Il lessico, o meglio il “gergo”'? La (mancanza di) punteggiatura? I soggetti? Più ecumenicamente, tutte e tre le cose? La letteratura blues è la letteratura beat. O meglio il beat è blues “sotto copertura”'o assomiglia di più all' improvvisazione di un bopper fatto di droga?

Mr. Hyde: Blues genere letterario? Prova a dirlo ad uno di quei diavoli ciechi ! Piuttosto linguaggio blues usato in letteratura. Blues trasversale. (che brutta parola..) Potremmo parlare di elementi blues inseriti nella prosa.
Però quello che piace del blues è che non è completamente definito e definibile. Il poter aggiungere qualcosa di personale, come in un racconto non scritto. Certo, il linguaggio, gli argomenti (girovagare, donne, alcool, droga, la notte) gli stati d’animo (rabbia, tristezza,rassegnazione) i luoghi, sono elementi caratterizzanti, ma è il ‘colore’ (non so come definirlo)quell’oscuro affascinante disagio che avverti anche ascoltando Pretty As You Feel dei Jefferson Airplane, che non è dichiaratamente un blues. Forse un blues in acido…

Playlist

- Ash Ra Tempel - Light: look at your sun
da Schwingungen (1972)

- Fred Lane e Kjell Westling - Gli alberi crescono alti (canzoni di lavoro, d'amore di guerra e di lotta delle Isole Britanniche) 1977

- Otis Rush -  All your lovin’ (1958)

- The Fujii - Anyway what time did you get up this morning (2001?)

- Jefferson Airplane - Pretty as you feel
da Bark (1971)

venerdì 21 febbraio 2014

Banco del Mutuo Soccorso - Darwin! (1972)/Io sono nato libero (1973)


C'è poco da dire ... Dopo Freak Antoni, Francesco Di Giacomo. Avevo preparato un altro post, polemico, politico e inacidito dalla frustrazione, ma non è aria.
Per natura non sono incline a celebrazioni, eulogie, necrologi, entusiasmi postumi. Se una persona merita lodi cerco di rendergliele in vita. Dopo è tardi; ed è facile. Non mi piace, altrettanto, il feticismo autoriale; non ho mai cercato di conoscere artisti, dietro, avanti o a lato delle quinte; non ho mai ammiccato. Credo di non possedere neanche un autografo; e neanche un biglietto di concerto incorniciato.
Stavolta però è diverso. Lo sento. Con Freak e Di Giacomo svanisce un mondo. La foto sopra, in bianco e nero, è straziante. Non scompaiono solo i testimoni di un'età che, più o meno sinceramente, non si accontentava del presente; scompare una parte della Patria che, a posteriori, era migliore della nostra.
Impegnata, beffarda, coraggiosa; forse velleitaria, ma vitale.
Scompare l'Italia ... 
Il Banco del Mutuo Soccorso: traditional music of the vanishing peoples ...
Il Banco del Mutuo Soccorso era prog, ora è blues ...
Addio.

martedì 18 febbraio 2014

The wickedest man in the world - The Aleister Crowley rock collection 1^ parte/2^ parte


L'uomo più malvagio del mondo ... ipse dixit ... il mago, il satanista, il pervertito, l'occultista ... probabilmente non fu che un nicciano con parecchia fantasia in più (e una inestinguibile brama sessuale che lo differenzia dal verginello tedesco).
Ateo e anticristiano, tutto il suo credo può risolversi in questo guscio di noce: "Do what thou wilt shall be the whole of the Law", ovvero Fa quello che vuoi, questa è la tua legge; una frase liberatoria mutuata dal capolavoro eroicomico di François Rabelais, Gargantua e Pantagruele.
Ho provato spesso a decrittare gli scritti di Aleister Crowley (si autodefinì To Mega Therion, la Grande Bestia dell'Apocalisse), ma ne sono stato respinto con perdite. Impossibile penetrare la foresta di simboli, locuzioni e neologismi della sua prosa, a meno di non volergli dedicare lo studio di tutta una vita ... lo ammetto, son rimasto colpito da qualche frase qua e là ... "Ogni uomo e ogni donna è una stella", "Lasciate che i miei servitori siano pochi e segreti, domineranno le moltitudini", "Ricordate che l'esistenza tutta è pura gioia; che ogni dolore altro non è che ombra: passa e finisce, ma esiste ciò che rimane" oppure, da quelli più misterici: "Io sono la figlia del Tramonto con le Palpebre Blu. Io sono la Nuda Brillantezza del Cielo Notturno" o "Io sono l'Imperatrice e il Gerofante. In tal modo sono Undici, come la mia sposa che è Undici" ... e via così, in una serie che sarebbe piaciuta al Nietzsche sentenzioso, o, almeno, al Nietzsche postremo, quello alle soglie della verità e della pazzia.
I cantanti del rock classico (Bowie, Jagger, Beatles, Ozzy) e gli eroi del nuovo metal, più o meno dark (Ministry, Tool, Fields of the Nephilim, Manson) presentirono, invece, qualcosa di obliquo, profondo e malsano in Crowley e se ne servirono per ammantare di maledettismo à la page parecchie loro composizioni .. nulla di male, salvo che, forse, il loro eroe era più illuminista e libertario (e meno diabolista) di quanto s'immaginavano ... 
Ed ecco la compilazione che riunisce tutti coloro che citano o evocano, più o meno direttamente, la Grande Bestia.
Attenzione, va ascoltata di giorno.

Alphaville - Red rose
Beatles - Sgt. Pepper's lonely hearts club band
Behemoth - Decade of Therion
Can - Aumgn
Carcass - Firm hand
Celtic Frost - Dawn of Meggido
Coil - Tainted love
Cold Chisel - Bal-a-Versailles
Coral - Liezah
David Bowie - Quicksand
Devildriver - Nothing's wrong
Edguy - Out of control
Fields of the Nephilim - Love under will
Fields of the Nephilim - Moonchild
Graham Bond - The magician
John Frusciante - 666
John Frusciante - Emptiness
John Frusciante - Look on
Kimya Dawson - Velvet rabbit
Manic Street Preachers - You love us
Marylin Manson - Disposable teens
Marylin Manson - Misery machine
Mick Jagger - Invocation to my demon brother
Ministry - Golden Dawn
Ministry - Grace
Mudvayne - Know forever
Mudvayne - Mercy severity
Ozzy Osbourne - Mr. Crowley
Police - Sinchronicity II
Primal Scream - Star
Throbbing Gristle - United
Tiamat - Light in extension
Tool - Lateralus

venerdì 14 febbraio 2014

David Crosby - The complete David Crosby 1965-1972 1^ parte/2^ parte/3^ parte


Un periodo storico può vantare cantori di diversa natura e spessore.
Alcuni sono naturalmente e sinceramente celebrativi; altri approfittano, più o meno consapevolmente, dell'aria che tira per lasciarsi cullare in favore di corrente; c'è che stravolge la propria epoca filtrandola attraverso la personalità debordante e chi la riassume in modo dolente e mai stentoreo.
David Crosby fra questi ultimi. Crosby fu uno dei pochissimi in grado di rivaleggiare con Neil Young, e di attraversare o sfiorare leggende come Byrds, Jefferson e Grateful Dead: eppure, nonostante ciò, si riservò, per decenni, un solo album, sbriciolando un talento smisurato in un paio di dozzine di pezzi (almeno dal 1965, quando tutto iniziò, al 1972, quando tutto finì: parecchi i capolavori).
In lui tutto era crepuscolare, trascolorato; il suo folk psichedelico, soffice e delicato, appariva già segnato dal declino e dal rifugio nel particolare.
La personalità dell'artista, insomma, geneticamente rinunciataria e poco propensa alla fanfara, riassunse naturalmente e anticipò il corso e il verdetto della storia.
La sua carriera successiva, tra picchi non eccelsi e bassi avvilenti, conterà davvero poco. 

From Byrds, Turn! Turn! Turn! (1965)

Wait and see (Crosby)

From Byrds, Mr. Tambourine man (1965)

You and me (Crosby/McGuinn/Clark)

From Byrds, Fifth dimension (1966)

Wild mountain thyme (Crosby/McGuinn/Clark/Hillmann)
I see you (Crosby/MCGuinn)
What's happening!?!? (Crosby)
Eight miles high (Crosby/McGuinn)
Captain soul (Clark/McGuinn/Hillman)
Eight miles high (Crosby McGuinn; alt. version)

From Byrds, Younger than yesterday (1967)

Renaissance fair (Crosby/McGuinn)
Everybody's been burned (Crosby)
Mind gardens (Crosby)
Why (Crosby/McGuinn)
It happens each day (Crosby)
Mind gardens (Crosby; alt version)
Lady friend (Crosby)

From Byrds, The notorious Byrd Brothers (1968)

Draft morning (Crosby/Hillman/McGuinn)
Tribal gathering (Crosby/Hillman)
Dolphin's smile (Crosby/Hillman/McGuinn)
Triad (Crosby; bonus)
Draft morning (Crosby/Hillman/McGuinn; alt. version)

From Crosby, Stills & Nash (1969)

Guinnevere (Crosby)
Wooden ships (Crosby/Stills)
Long time gone (Crosby)

From Crosby, Stills, Nash & Young, Déjà vu (1970)

Almost cut my hair (Crosby)
Déjà vu (Crosby)

From Crosby Stills Nash Young, Four way street (1971)

Triad (Crosby)
The Lee shore (Crosby)
Long time gone (Crosby)

If I could only remember my name (1971)

Music is love (Crosby/Nash/Young)
Cowboy movie (Crosby)
Tamalpais High (at about 3) (Crosby)
Laughing (Crosby)
What are their names (Crosby/Young/Garcia/Shrieve/Lesh)
Traction in the rain (Crosby)
Song with no words (Tree with no leaves) (Crosby)
Orleans (traditional)
I’d swear there was somebody here (Crosby)

From Graham Nash & David Crosby (1972)

Whole cloth (David Crosby)
Where will I be? (David Crosby)
Page 43 (David Crosby)
Games (David Crosby)
The wall song (David Crosby)

From Crosby, Stills & Nash (1991)

Guinnevere (Crosby; demo)
Song with no words (Crosby; unreleased)
Almost cut my hair (Crosby; unreleased)
The Lee shore (Crosby; unreleased)

From Voyage (2006)

Critical mass (Crosby)
Long time gone (Crosby; demo)
Guinnevere (Crosby; alt. version)
Almost cut my hair (Crosby; demo)
Games (Crosby; demo)
Dèjà vu (Crosby; demo)
Triad (Crosby; demo)
Cowboy movie (Crosby; alt. studio version)
Kids and dogs (unreleased)
Have you seen the stars tonight (Crosby)

mercoledì 12 febbraio 2014

CCCP Fedeli alla linea - Enjoy CCCP! (1994) plus Live in Punkov (1996)



Forse il miglior gruppo rock italiano di sempre. Arrivarono tardi: tardi per il socialismo e il punk e la controcultura; anzi tardissimo: in pieno riflusso, fra la decomposizione dell'Italia profonda nata dalla Resistenza e le maggiorate di plastica del Drive-in, eppure, come scrive Webbaticy, l'esordio Affinità-divergenze tra il compagno Togliatti e noi è "un disco che spezza in due gli anni '80, che sconvolge l'Italia".
I CCCP furono fra i rarissimi gruppi italiani a non patire esteticamente la derivazione: non imitavano nessuno, non adoravano nessuno, non avevano punti di riferimento precisi, non facevano dediche o prediche, non s'inginocchiavano a chicchessia.
Essi riuscirono a miscelare in una sintesi semplice e diretta elementi diversi e apparentemente irriducibili che galleggiavano ormai dimenticati nel brodo di coltura della sinistra comunista: era presente in loro lo sberleffo del Movimento del '77 contro la piccola borghesia e il perbenismo (Battagliero), l'apostolato operaista  (la carne che muove l'acciaio), il compiacimento per l'ortodossia sovietica (la piccola patria che schiacciò il nazismo da Stalingrado in poi: A ja ljublju SSSR), il messianismo apocalittico, il disagio psicotico (Curami, Noia e la scheggia immortale di Io sto bene: "Non studio, non lavoro, non guardo la TV, non vado al cinema, non faccio sport"), l'anticonsumismo (Morire: "Produci, consuma, crepa! ... sbattiti, fatti, crepa!", le parodie pubblicitarie di Profezia della Sibilla), il recupero della provincia emiliana profonda e della tradizione (anche cattolica) alla precisa luce di un antimodernismo pasoliniano (Madre) e, perciò, assimilabile a quello storico di destra (Pound, Mishima, Céline); e tutto veniva filtrato da brucianti accensioni punk (soprattutto agli inizi) e da una teatralità distaccata propria di cabarettisti alla fine del loro viaggio politico (Depressione caspica); "Non si svende non si svende anche se non funziona ... grande la confusione sopra e sotto il cielo osare l'impossibile osare perdere": recita Ferretti in Manifesto sopra il tappeto chitarristico di Zamboni mentre le percussioni battono liturgicamente il crepuscolo degli dei dell'ideologia.
La disperazione dell'inattualità ... la dissoluzione dell'utopia e del rifugio che essa offriva contro l'inaccettabile realtà ... Non sarà un caso che, in seguito, lo sbertucciato Ferretti troverà ricovero presso l'ultimo sistema articolato di valori in ballottaggio con il presente: la Chiesa cattolica. Una mossa urtante, ma assolutamente conseguente rispetto alle premesse antioccidentali.
I CCCP, almeno in Italia, furono la retroguardia sardonica e angosciata di un esercito in rotta, quello del Novecento e del pensiero forte.
Ora su tutte le vette è pace.

domenica 9 febbraio 2014

Van Morrison - Into the music (1979)


E risolleviamo il livello ... Album sopra la media, già eccelsa, dell'irlandese; opera che apre subito a una chiarità compositiva tangente (in maniera mai pericolosa) all'intrattenimento melodico da barrelhouse per bianchi (Bright side of the road, Full force gale).
Già con Steppin' out queen, però, tale breve concessione è complicata dallo strumento insondabile di qualunque line up che Morrison abbia mai vantato: l'interpretazione vocale. Questo brano, ad esempio, che nella versione degli altri (poche le eccezioni) sarebbe residuato come facile, qui viene irresistibilmente stravolto in un flusso di coscienza crooner dai toni caldi e avvolgenti.
Oppure It's all in the game: datela a Michel Bublè e vedrete cosa ne resterà ... invece non possiamo che restare attoniti:

Many a tear has to fall
But it's all in the game
...
All in the wonderful game
That we know as love
And he'll kiss your lips
And caress your fingertips
And your heart will fly away

Quante volte abbiamo sentito queste parole? In Morrison, però, che, al meglio, aborre persino la captatio benevolentiae del ritornello, il tutto si scioglie in una confessione da uomo a uomo, allo stesso tempo virile e commossa - di chi sa; perché questo è stato sempre fondamentale in ogni tempo: non sono le parole a fare la poesia, ma è la personalità a fondarne lo status lirico (e se c'è disciplina artistica tanto meglio).
Per lo stesso motivo si parla di 'presenza' per le capacità attoriali: Jean Gabin, Humphrey Bogart o Bette Davis potrebbero recitare anche l'elenco del telefono; Shia LeBeouf, nonostante anni d'accademia, renderebbe ridicoli anche i monologhi di Macbeth.
E così il vecchio toro celtico ci rende partecipi delle sue cicatrici, davanti a un bel bicchiere, stavolta con un amaro sorriso accomodante: e anche noi, di fronte a tale verità, ci confidiamo, quali amici d'antica fratellanza: "Sì, tu conosci la vita, è così. Questa è l'essenza dell'esistenza e della breve felicità".
Quando poi egli organizza capolavori totali e crepuscolari come And the healing has begun non rimane che arrenderci muti alle lacrime.
Grandi Mark Isham ai fiati e agli arrangiamenti e Toni Marcus al violino.

sabato 8 febbraio 2014

Jumbo - DNA (1972)/Vietato ai minori di 18 anni? (1973)


Gruppo storico del progressive italiano, ovviamente. Come spesso accade i Jumbo ricadono nell'ambito prog più in virtù d'un comune sentire anti-sistema, e vagamente controculturale, che per le stimmate essenziali di genere - quelle che l'hanno definito a livello continentale e, soprattutto, anglosassone.
Ai Jumbo son naturalmente estranee le tinture escapiste, tolkeniane, oppure la lavorazione laboriosa della tessitura musicale propria di Canterbury o il dramma psicologico proprio dei Generator o Wyatt.
Il loro è un rock acido, d'assalto (vedi Biglietto per l'Inferno) che cede spesso al blues (e al beat più avvertito) grazie alla voce aggressiva di Fella (che, a tratti, stempera in un lirismo alla Lucio Dalla); non mancano nell'impasto le coloriture davvero progressive: quelle più prevedibili e caduche, alla fin fine.
DNA è dominato dai venti minuti di Suite per il signor K in cui tutti i disparati elementi della loro ispirazione convergono potentemente, fra alti e bassi.
Vietato ai minori di 18 anni? accentua la veemenza e la crudezza dei testi (toccando begli accenti di verità), e trascura gli scatti progressivi e terragni del precedente lavoro (ma non mancano, comunque, certi ruvidi empiti: Come vorrei essere uguale a te) a favore di storie di disagio metropolitano, violenza, depressione.
La musica e il cantato appaiono decisamente più equilibrati: Specchio, Gil, Come vorrei e il frontismo, pur facile, di No! caratterizzano tematicamente il miglior lavoro del gruppo.

* Alvaro Fella, voce, chitarra; Daniele Bianchini, chitarra; Dario Guidotti, chitarra, flauto, armonica; Sergio Conte, tastiere; Aldo Gargano, basso; Vito Balzano, batteria (Tullio Grantello, batteria).

giovedì 6 febbraio 2014

A brief history of electroacoustic music vol. 7

Philippe Manoury


1982-1985

01 - François Bayle - Motion-èmotion
02 - Pierre Boulez - Dialogue de l'ombre double
03 - Luigi Nono - A Pierre. Dell'azzurro silenzio, inquietum
04 - Jean-Claude Risset - Sud

1984-1986

01 - Kaija Saariaho - Jardin secret I 
02 - Daniel Teruggi - E così via
03 - Vaggione, Horacio - Thema
04 - Marc-André Dalbavie - Diadèmes
05 - Magnus Lindberg - Ur

1983-1986

01 - Philippe Manoury - Jupiter
02 - Michael Obst - Kristallwelt

1986

01 - Bernard Parmegiani - Exercisme 3
02 - Ake Pamerud - Repulse
03 - Barry Truax - Riverrun

1986-1987

01 - Tamas Ungvary - Gipsy Children's Giant Dance with Ili Fourier
02 - Trevor Wishart - Vox-5
03 - Gerald Bennet - Kyotaku
04 - James Dashow - Oro, argento e legno
05 - Richard Karpen - Il nome

1986-1987

01 - Francis Dhomont - Chiaroscuro
02 - Ricardo Mandolini - Microrreflexiones
03 - Dirk Reith - Nahe zu fern
04 - Saariaho, Kaija - Yo

E che sò Pasquale io?



Tranquilli, stasera si riprende a postare illegalmente ...
Volevo solo ricordarvi, in quanto italiani, uno sketch di Antonio De Curtis, in arte Totò:
 
Un tale prende Totò a schiaffi.
Uno, due, tre, quattro.
E Totò ride, ride, ride.
Ogni colpo l'energumeno grida: "Pasquà si’ nu puorco!". E giù sberle.
E Totò ride, ride, ride.
Un amico si avvicina trafelato e preoccupato: "Ma che fai, Totò, quello ti piglia a sberle e tu ridi?".
"E certo che rido", risponde Totò serafico "e che sò Pasquale io?".

C'è una variante ancor più graziosa.

Stessa scena, stesso amico.
"Ma che fai, Totò, quello ti piglia a sberle e tu non reagisci?"
"Ma sì" dice Totò "Voglio proprio vedere questo stupido dove vuole arrivare".
 
Questa scenetta mi viene in mente sempre più irresistibilmente negli ultimi tempi.
L'Italia cade a pezzi, la disoccupazione è alle stelle, la gente mangia cibi scaduti, la corruzione dilaga sin nelle fibre più riposte dell'apparato pubblico, la giustizia è ferma, i governi collusi con poteri antinazionali, i monumenti si sbriciolano, la scuola è fallita, ma la gente si fa in quattro per giustificare l'ingiustificabile. Soprattutto a sinistra.
"Dobbiamo rimboccarci le maniche ... non è vero ... allarmismo del web ... in fondo al tunnel la luce ... Disinformato! Secondo l'articolo 23cz/ter desunto dalla normativa XXY che aveva già approvato il testo unico XTC, in parziale deroga alla sentenza K20/1971 quater, hai torto marcio ... c'é del buono, basta trovarlo ... il rovescio della medaglia ...".
Hanno un palo nel culo e si lamentano di un leggerissimo bruciorino. Passeggero, a sentir loro.
Basta, d'ora in poi darò ragione a tutti.
Non voglio passare per disfattista.
Che spettacolo la storia. Che spettacolo l'Italia.

lunedì 3 febbraio 2014

Out of blue - Una conversazione

Pablo Picasso, Le vieux guitariste, 1903

Ovvero: out of blues
Uno sguardo trasversale e rigorosamente “eterodosso” sul blues, prodotto di un collage fatto di libere conversazioni tra blogger, sempre aperte a nuovi contributi e scritte nella speranza di sfuggire al solito nugolo di luoghi comuni e slogan superficiali che ammorbano questo genere musicale.
Percorsi non segnati, lontani da piantagioni, incroci e piedi caprini, che si intromettono in anfratti inesplorati e cercano di origliare a qualche porta nascosta.

Contributi di:

Evil Monkey

Massimiliano Manocchia

Vlad

* * * * * 
Don Van Vliet - China pig

E.M. Curioso iniziare una conversazione sul blues con un quadro astratto.
Ma questo “China Pig” è di un certo Don Van Vliet, pittore già apprezzatissimo in vita, che all'occasione faceva musica sotto lo pseudonimo di Captain Beefheart.
China pig, prima di essere dipinto, fu anche titolo di un brano del famigerato Trout Mask Replica: un brano che è uno dei grandi blues "eterodossi" del dopoguerra. Primordiale, rupestre come il quadro, razziale, finanche ironicamente razzista e politicamente scorrettissimo. Una TroubleEveryDay al contrario?
Procede a cadenza acustica, con quel tempo elastico di chi batte il piede a terra tanto per darsi una regola bella da infrangere più che da seguire. Nella sua eresia, finisce per essere l’idea stessa di blues che abbiamo nella testa, prima che nelle orecchie.
E' il prodotto di un musicista bianco, senza dubbio. Nessun vecchio bluesman di colore avrebbe potuto riprodurre quella “esternalità” di cui vive il brano, quella voluta de-voluzione, quello studiatissimo primitivismo. Non è certo la sublimazione della tecnica che piaceva agli appassionati britannici post-Yardbirds – post Mayall del periodo, nè la parodia un po' oscena di Bringit on Home dei Led Zeppelin o le schitarrate sublimi ma calligrafiche dei Fleetwood Mac. Credo sia il risultato analitico dell'occhio del pittore; che osserva la natura e la musica attorno a sè, quella bruciata dal sole, quella che preferisce. E la ridisegna e la ricostruisce filtrandola attraverso una personalissima sensibilità. Potrebbe esser un manifesto “indie” con 20 anni di anticipo, una visione di “alternative rock” da manuale.
China pig, il quadro, la canzone.
Il blues, quello che nell'immaginario è tradizione, continuità e immutabilità, che si presta alla travisazione e alla riscrittura con un’elasticità nascosta, tanto da divenire, nelle mani giuste, veicolo di innovazione.

Massi. Questa elasticità nascosta, più che gli stereotipi diavoleschi, è il vero elemento, o meglio qualità esoterica del blues. Riconoscibilissima in ogni sua multiforme diversità. La sparo grossa: è possibile che esista un filo occulto (e spinosissimo) che collega Robert Johnson ai Death In June? Facilissimo scorticarsi, lungo quel filo…
Una sola eretica nota aggiunta a una miserrima scala pentatonica e la musica è cambiata per sempre. A volte quella nota non viene nemmeno suonata, eppure ciò che ascoltiamo sa di blues. Se questa non è magia, cosa lo è? Mi spingo oltre: si può vedere il blues nel quadro di Van Vliet. E si può sentire il blues in Blood of winter dei succitati Death In June. Ed è blu(es) anche l’orrore dipinto sui volti dei puristi che stanno leggendo queste righe e che presumo si aspettino che io arrivi a concludere che ‘tutto è blues’. Ahi loro, non è questa la conclusione cui voglio arrivare. In realtà, non voglio arrivare a nessuna conclusione. Anche perché il blues, sotto qualsivoglia forma, non “conclude” mai, essendo la “sospensione” una delle sue caratteristiche – anche tecniche – precipue. Il che mi porta a dire che trarre conclusioni sul blues significa non aver compreso il blues. Con buon pace di LeRoi Jones (o Amiri Baraka, se preferite), che peraltro è passato a miglior blues il 9 gennaio di quest’anno. “Il Popolo del Blues” - pur nella sua blackness integralista – rimane forse uno dei testi migliori per cominciare a comprendere il tema, un punto di partenza quasi perfetto per chi voglia seguire un percorso lineare, limitato, tuttavia, alla tradizione.
Ma qui non è di tradizione che vogliamo occuparci. Qui rifuggiamo, pur riconoscendola,  la tradizione intesa come unica forma di verità pura. Qui rifuggiamo il blues come tradizione. Congelarlo entro rigorosi limiti espressivi e storici significa ucciderlo. Ciò che Van Vliet/Beefheart aveva compreso benissimo. E lo aveva compreso benissimo anche Zappa, il quale, dalla vetta dell’”esternalità”, seppe tendere fino all’impossibile l’elastico blues senza mai romperlo.

E.M. Zappa, Beefheart, Death in June da una parte. Il buon Amiri Baraka dall’altra.
Ma c’è una sintesi possibile tra il bianco e il nero?
O meglio: dopo anni di commistione - interpretativa sul palco, di ascolto tra il pubblico - i bianchi possono suonare il blues? Certo che si, quella è forse la cosa più facile.
Ma possono anche ascoltarlo senza, anche involontariamente, lasciarsi andare a quell’oppiaceo sonno paternalistico di chi ascolta l’espressione musicale, se non artistica, di una “razza” differente; che ha conosciuto schiavismo, umiliazione e che ancora non ha ricomposto quella frattura epocale?
L’ottimista risponderebbe “si”, anche se spesso, quando ascoltiamo i vecchi brani di Son House, Leadbelly e compagnia bella, spesso dimentichiamo o rimuoviamo, o NON vogliamo riconoscere che si tratta del prodotto di ubriaconi attaccabrighe, a volte perfino assassini, avanzi di galera analfabeti che hanno appreso quei tre accordi e poco altro e su quel poco altro hanno costruito tutto. Esagero?
Il blues revival dei primissimi anni ’60, un fenomeno che ha imposto all’attenzione del pubblico che conta (cioè quello che compra) un genere altrimenti “morente”, è stato fomentato dall’interesse un po’ morboso e snob di giovani borghesi bianchi dei college che ritenevano “alla moda” ascoltare in religioso silenzio qualche vecchia e cadente gloria da juke joint cantare sguaiatamente con una chitarra scordata.
Eppure… quella scordatura, quella sguaiatezza, quel vendersi prontamente a qualsivoglia pubblico per qualche spicciolo… Quella “sospensione” – come la chiama Massimiliano - quella fatidica nota incerta e perennemente in bilico: sono loro che fanno tutto il lavoro sporco e rappresentano anche una discriminante importante tra libertà interpretativa e rigore esecutivo. Il blues sta dalla parte della prima, e non c’è ipertecnicismo claptoniano che possa farmi cambiare idea.
Due grandi visionari hanno dato “definizioni” della loro musica che pur non essendo blues, penetrano il cuore della questione.


Quell’ultima frase non andava perché I’avete suonata giusta. Dovete suonarla sbagliata, appena in anticipo. È molto efficace. È così che suonavano i vecchi jazzisti. Suonavano appena in anticipo, poi i musicisti di Chicago decisero di suonare appena in ritardo, il che non è facile. Appena in anticipo o appena in ritardo. E poi c’è la musica suonata perfettamente a tempo. Be’, quello possono farlo i bianchi
Se è a tempo ti vengono a dire: «Quella è roba mia!» Se anticipi o ritardi quelli là parlano di te e dicono che quella non è mica musica, perché non la sanno suonare. Se suonate a tempo siete spacciati, non troverete un lavoro. Perciò anticipate, senza contare.

Sun Ra

Fu quando mi accorsi che facevo degli errori che mi resi conto che ero sulle tracce di qualcosa di nuovo

Ornette Coleman

Cosa significa?
Non so; almeno non so dirlo a parole. Ma se ascoltate Lonely woman capirete senz’altro.

Vlad. Dobbiamo definire il blues?
Secondo me è necessario. Non per averne un concetto giusto; o accademico. Solo per capire di cosa parliamo. Per comprendere, in tale discorso, cosa NON è blues.
Ho letto Jones, e La Musica del diavolo e Lomax e, al di là della meritoria ricchezza dei testi e delle ricerche effettuate, musicali e culturali, ne sono rimasto un po’ sbalestrato. Non riuscivo a cogliere l’essenza profonda. Oltretutto l’esame del blues (del fenomeno afroamericano del blues) mi sembrava riduttivo.
Così ho raffinato una personale gerarchia di concetti che, per me ovviamente, definiscono il blues. Un blues internazionale, onnicomprensivo, ed esclusivo. Onnicomprensivo perché include ANCHE il blues afroamericano; esclusivo poiché esclude certe concrezioni sonore che, pur apparentemente blues, ne sono estranee.

1. TRADIZIONE. Sì, il blues è nel sangue. Immediato. Cola giù dagli antenati. Ce lo portiamo appresso. È prima dell’accademia. È la terra; un gesto che conserva la storia. Attraverso esso possiamo capire un popolo. È musica, ovvero un concetto senza parole.

2. IL BLUES OPERA IN TERRA STRANIERA. Quasi sempre un canto dell’esule. I neri americani, gli immigrati. I canti degli italiani immigrati; degli europei immigrati in America ad esempio nordici, irlandesi, ebrei, est europei: sono blues. I canti degli Americani bianchi costretti a emigrare durante la Depressione sono blues. Guthrie è blues. È blues anche il canto di chi rimane straniero nella propria terra: Aztechi, Incas, Guaranì; Tibet, Palestina.

3. IL BLUES APPARTIENE AGLI SCONFITTI. Gli sconfitti dalla storia: indios, africani, culture schiantate dal capitalismo di rapina. Il blues, spesso, è canto di nostalgia operato con linguaggio non proprio. Garcilaso de la Vega ha scritto poesie blues in cui rievocava con nostalgia i propri antenati Inca: le ha scritte in spagnolo, però. Leadbelly in inglese. I brasiliani in portoghese. I vietnamiti in francese. Molte volte si è blues senza saperlo. Dai canti blues, scritti nella lingua dei conquistatori, traspare la cultura del sangue, antica e inestinguibile.

4. IL BLUES ALL’OPPOSIZIONE. Contro il potere, inevitabile. Se passa al campo avverso, compiacendosi, non è più blues. Sarà un’altra cosa, pur bella, ma un’altra cosa. Attenzione! Non ne sto facendo una questione estetica. Steve Ray Vaughan, Gary Moore, Eric Clapton e compagnia sono bravi, bravissimi, ma non sono blues.

5. IL BLUES È ANTISPETTACOLARE. Non va in televisione. È retrogrado. Non va su facebook, twitter e non si lascia registrare dalla Virgin. Non perché sia snob, ma perché individua da subito il nemico. Al massimo, come detto, si serve della lingua e dei costumi dei conquistatori e dei tiranni, ma solo perché questi hanno distrutto e disperso la sua cultura.

Attraverso questo setaccio si opera un filtro da cui si ottengano risultati bislacchi, ma originali.
I bluesman afroamericani degli anni Dieci blues, va bene. Anche molti jazzisti sono blues. Non è un fatto razziale, però. Guthrie è più negro di Obama, secondo me. I canti tradizionali sono blues. La world music mainstream no. Una lavandaia italiana che canticchia è blues, certe blues singers leccatissime no, anche se blueseggiano a tutto spiano. Le jug band sono blues, il Live Aid no, anche se canticchiavano per l’Africa. Il talking blues bianco è blues. Il rap disco di Afrika Bambaata è blues; Snoop Dogg no. I tamburi rituali giapponesi buddisti sono blues; Haino è blues; i Rolling Stones e i Led Zeppelin no. Leadbelly è un ignorante e un assassino, ma è blues; BB King che suona con gli U2 no. Hendrix è blues, la disco music nera no. Eduardo Galeano è blues; i Blues Brothers no. E così via … Antonio Ligabue e van Gogh sono blues, Mario Schifano e Magritte no.


Massi. La risposta a una “sintesi possibile tra bianco e nero” su cui s’interroga Evil credo sia in parte stata già fornita da Vlad (quanto meno dal punto di vista concettuale), e la citazione di Sun Ra è una conferma illuminante del fatto che il blues sia soprattutto “libertà interpretativa” e non “rigore esecutivo.” Sotto il profilo tecnico (e non solo), questa è la ragione per cui tantissimi bluesmen, soprattutto bianchi, non sono affatto bluesmen.
Nell’istante in cui si cerca di suonare inseguendo il rigore stilistico della tradizione e i canoni più o meno accademici delineati nel corso del Novecento (le 12 battute, la sequenza armonica I7-IV7-V7,  le blue notes, ecc.), il blues sfugge, sparisce, non si fa trovare.
Il blues è una puttana. Non di mestiere. Di natura. Il concetto di “appena in anticipo o appena in ritardo” di cui parla Sun Ra non è formalmente codificabile ma è proprio in quella frazione di secondo, in quel varco spazio-temporale tra la nota suonata in anticipo o in ritardo e il punto esatto in cui dovrebbe essere suonata che accade la magia blues. Ed è lì che vivono i perdenti, gli sfruttati, gli emarginati, gli esclusi; non sono mai perfettamente a tempo, non sanno esserlo, non vogliono esserlo. Ed è sempre lì, in quel microscopico vuoto che sa quasi di antimateria, che nascono le novità, le intuizioni e le diversità. In una parola, la Libertà. Quando Sun Ra afferma, “E’ così che suonavano i vecchi jazzisti,” incita alla libertà espressiva chiamando in causa la tradizione. A ben pensarci, non è quello che hanno fatto anche i Kraftwerk? Trans-Europe Express non è forse blues europeo futuribile?
Mi piace molto il “setaccio” costruito da Vlad; ha un retino a maglia finissima e il suo utilizzo potrebbe contribuire a una ridefinizione del concetto di “blues” senza pregiudicarne l’essenza.

Playlist

Captain Beefheart - China pig
da: Trout mask replica (1969)

Frank Zappa  - Frank Zappa - Trouble every day
da: Freak out! (1966)

Kraftwerk - Trans-Europe Express (1977)

Death In June - Blood of Winter
da: The world that summer (1986)

Ornette Coleman - Lonely woman
da: The Shape of Jazz to Come (1959)