sabato 30 novembre 2013

Mahavishnu Orchestra - The inner mounting flame (1971)/Between nothingness & eternity (1973)/Birds of fire (1973)


Uno meglio dell'altro. Una tripletta di rara bellezza (ricordiamoli: John McLaughlin, chitarra; Jan Hammer, tastiere; Jerry Goodman, violino; Rick Laird, basso, Billy Cobham, batteria) che culmina nel tripartito live del 1973, in cui spicca la monumentale The dream (davvero, credete, è così: monumentale).
Della Mahavishnu si è parlato versando fiumi di inchiostro e mettendone in risalto le radici jazz, poi sublimate in jazz-rock ... In effetti McLaughlin compare in due album meravigliosi di Miles Davis e allora ... di lui potremmo mettere in risalto pure le radici blues, dato che cominciò a undici anni suonando blues, ma, già che ci siamo, perché non mettere nella pentola della strega critica pure le radici swing? Ammetto di non replicare a chi cita le radici swing: lo swing, o la parola swing, non fa nascere nella mia mente alcuna associazione d'idee: radici swing ...
Perché, invece, non ammettere che questo disco, completamente libero, suonato, allo stesso tempo, con forza fiammeggiante e fluidità strumentale, deve il fascino proprio ai tempi in cui fu concepito?
Chi riesce oggi a imitare queste sonorità? Nessuno. Ogni tempo possiede i propri timbri: le chitarre, le tastiere, i bassi, le grancasse, l'afflato ideologico, la libertà, le influenze culturali (orientali in questo caso) si miscelano con il talento (a volte smisurato) e rendono frutti succosi e caldi di jazz progressivo come questo; un frutto che la storia successiva non riuscirà a replicare in questi termini poiché tutto il terreno umano e ideologico a venire sarà inquinato dalla serialità e ogni spontaneità sostituita dalla fredda professionalità.
Il che non significa che non nascano altri capolavori, ma suonano in maniera irrevocabilmente diversa. Maledetti Settanta!

mercoledì 27 novembre 2013

Chrome - Alien soundtracks (1977)/Read only memory (1979)

Certe canzoni dei Chrome neanche iniziano. I quattro (ovvero la coppia Helios Creed, voce, chitarra, elettronica e Damon Edge, tastiere, batteria, nastri e altre cosette; oltre a John Lambdin, chitarra, basso, violino e Gary Spain, basso, violino, solo su Alien soundtracks) erano lì già prima che noi porgessimo orecchio, anzi prima ancora d'aver acceso lo stereo o il PC o quel che è. Stavano già suonando a mille o distorcendo il distorcibile: noi abbiamo solo spalancato la porta imbottita ed eccoli là; questo e non altro è il segreto di certi attacchi mirabili come in The monitors o Chromosome damage, poi ulteriormente sublimati nei primi dieci incredibili minuti di Half machine lip moves (T.V. as eyesZombie warfareMarch of the Chrome police et cetera).
Il disco è quello che è, un capolavoro. Lo espone bene Webbaticynel post dedicato
Quel che mi preme dire è altro. Sino a metà degli anni Novanta non avevo mai ascoltato i Chrome; non sapevo neanche chi fossero i Chrome. Ignoravo totalmente Helios Creed. Poi lessi qualcosa sul sito di Piero Scaruffi (quando le connessioni andavano a vapore); Scaruffi è stato un incidente nucleare nella storia della critica musicale italiana. Egli stesso, in quanto poliforme mostruosità, non può essere che o amato o disprezzato, non c'è verso. 
Di lui voglio dire solo questo: Scaruffi è l'unico (l'unico) che abbia scritto, in una lingua italiana immaginifica e apocalittica, di artisti di cui nessuno (dico: nessuno) aveva il minimo sentore. Scaruffi ha infranto la vulgata aristotelica che c'imponeva la trimurti Beatles-Rolling Stones-Who; ha schiantato alcuni miti acquisiti; ne ha ridimensionato qualcun altro; ha trascurato l'intero cantautorato italiano; ha spinto come un forsennato sul versante più brado e sperimentale della nuova musica; ha, infine, aperto al rock quale fenomeno globale, pur riconoscendo agli Stati Uniti il ruolo di epicentro del sommovimento tellurico.
Alcune volte ha esagerato, ma è giusto: meglio esagerare per eccesso che per difetto. Gianfranco Contini non si è impipato Elsa Morante nella sua storia letteraria. Scandalo! Ma la pagina bianca, a volte, è un giudizio critico. Si può, all'opposto, rimproverare a Scaruffi di aver speso troppe parole su alcune nullità, ma anche questo era giusto: lui, almeno in Italia, era un precursore e pesava su di lui l'onere della prova e della chiarezza.
Qualche gonzo rimprovera a Scaruffi di aver assegnato 6,5 a Harvest o di aver portato un 6,5 dei Nirvana a 7. Strepitoso: su diecimila schede (o ventimila?) ha toppato di mezzo punto su Neil Young e Kurt ...
Ancora: egli neanche reclama a sè il merito di tutto questo: più semplicemente dichiara: tali giudizi era merce corrente negli Stati Uniti; ho avuto solo la fortuna di crescere criticamente dalla parte giusta dell'Atlantico ...
Da ultimo: egli ha completamente, scientemente, liberato il campo critico della nuova musica dal feticismo rock, dal trovarobato satanico, dalle goliardate teatrali o dal maledettismo studiato a tavolino. Giusto anche questo, pur se, a volte (e questo è un mio parere) è proprio l'elemento spurio (autoriale o nostalgico) a incidere sulla valutazione di un dato artista. 
E noi? Alcuni fra noi (io fra questi) hanno ampliato il bagaglio sonoro secondo le sue linee guida. Col tempo, ovviamente, sono cresciute le differenze critiche, gli assestamenti, le eresie, i ripensamenti, le rivalutazioni: ognuno seguendo il proprio istinto e il gusto congenito. L'importanza del lavoro consisteva nel passare attraverso la breccia finalmente aperta, ormai liberi dalla cappa pubblicitaria (pesantissima in Italia) che sanciva ciò che era o non era degno di ascolto.
Il lavoro pesante, e ancora lungo, di scardinamento, oltre ai pionieri come Piero Scaruffi, l'ha operato la potenza micidiale del web: è il web che ha permesso (per la prima volta! e a costi irrisori) di ascoltare oceani sonori dapprima sconosciuti. Oggi, grazie alla rete, si sta lentamente costruendo una nuova scala gerarchica di valori, profondamente diversa da quella, angusta, che eravamo abituati a venerare qualche decennio fa (il che non impedisce di gustarci i Pink Floyd o gli Who, ovviamente).
Ho la certezza che tipastri come WebbaticyEvil MonkeyCassetti confusiVerso la StratosferaOrnitorinco NanoLa ScigheraDetriti di Passaggio stiano ridefinendo, come ingegneri paesaggistici, il panorama critico che, fin qui, ci hanno ordinato (con la forza pubblicitaria e l'ignoranza) di apprezzare.
Che Dio ci conservi!

domenica 24 novembre 2013

Modern Lovers - Modern Lovers (1976; reissue 2003)/The original Modern Lovers (1981)


Cominciamo con qualche puntualizzazione: i Modern Lovers NON coincidono con Jonathan Richman & The Modern Lovers.
I bostoniani Modern Lovers, di cui ci occupiamo, operarono dal 1970 al 1974; la formazione classica: Jonathan Richman, voce, chitarra; Jerry Harrison, voce, tastiere; Ernie Brooks, voce, basso; David Robinson, voce, batteria. Robinson, in seguito, confluirà nei Cars, Harrison nei Talking Heads. I Modern Lovers non pubblicarono nulla nella loro vita artistica: il primo album, The Modern Lovers, (che racchiudeva tracce risalenti al 1971 e al 1972, nate sotto gli auspici di John Cale) fu pubblicato nel 1976 e rieditato, con otto bonus tracks, nel 2003; il secondo album, The original Modern Lovers, uscirà, invece, nel 1981, sotto gli auspici del mattacchione Kim Fowley: comprende registrazioni del 1973.
Nel 1976 Jonathan Richman formerà i Jonathan Richman & The Modern Lovers, di cui non ci occupiamo; il primo album dei Jonathan Richman & The Modern Lovers, omonimo, uscirà nel 1976, in contemporanea con Modern Lovers, disco, come detto, dei Modern Lovers: quelli di cui ci occupiamo.
Le registrazioni dei Modern Lovers sono piccoli capolavori. Richman e compagni organizzano un'apparente serie di canzonette che molestano con successo la memoria, ancora fresca, dei Velvet Underground: Roadrunner, ad esempio, dietro una facciata svagata, cela acidezze tastieristiche da Sister Ray; l'interpretazione ennui e strascicata di I'm straight sarebbe piaciuta a Lou Reed; lo strumming notturno e sognante che si respira qua e là sottende una sottile psichedelia decadente, prossima al verbo dei vellutati. 
Qualcuno, più immaginoso, vedrà in tali brani un'anticipazione della new wave; qualcun altro, ancor più immaginoso ci sente persino un po' di Talking Heads prima maniera.
Importa poco. Più importante è ascoltare; e diffondere. E sapere che, mentre i Velvet si preparavano al culto e Lou Reed accumulava gloria con Satellite of love e Walk on the wild side, si aggiravano, non lontano da lì, quattro bostoniani di livello ben superiore al semplice apostolato.

giovedì 21 novembre 2013

Nurse With Wound vol. 32 (Nine Days' Wonder/Nosferatu/Nu Creative Methods/Oktober/John Lennon & Yoko Ono/Opération Rhino)

NWW vol. 32. John Lennon & Yoko Ono

190. Nine Days’ Wonder (Germania) - Nine Days’ Wonder (1971). Piccolo capolavoro che schizza, mercuriale, fra progressive colto (Henry Cow, Soft Machine, Jethro Tull), accensioni rock e tonalità acustiche più rilassate. Inclassificabile. Grande John Earle, ma una menzione va alla sezione ritmica che bracca sassofono e flauto senza tregua imprimendo un ritmo impetuoso, seppur controllato, all’intera vicenda. Da sentire, ovvio. Rolf Henning, chitarra, tastiere; John Earle, voce, chitarra, flauto, sassofono; Karl Mutschlechner, basso; Walter Seyffer, voce, batteria, percussioni; Martin Roscoe, batteria.

191. Nosferatu (Germania) - Nosferatu (1970). Disco bifronte sospeso fra una psichedelia manierata e derivativa e brani dal ritmo rallentato e dilatato (Willie the fox, 10’49’’) o meritoriamente inacidito (No. 4, 8’48’’), che meritano il prezzo del biglietto: ovvero l’ascolto. Michael "Mick" Thierfelder, voce; Michael "Xner" Meixner, chitarra; Reinhard "Tommy" Grohé, tastiere; Christian Felke, sassofono, flauto; Michael "Mike" Kessler, basso; Byally Braumann, batteria.

192. Nu Creative Methods (Francia) - Nu jungle dances (1978). Improvvisazioni jazz con tocchi esotici che donano un (retro)gusto malfermo e squilibrato all’intera opera. Free macerato al punto giusto. Ottima la seconda parte di No jungle folies (19’50’’). Attenzione: è per orecchie allenate. Pierre Bastien, chitarra, basso, tastiere, sassofono, flauto, clarinetto, corno, cembalo, nastri, percussioni; Bernard Pruvost, voce, chitarra, basso, tastiere, sassofono, flauto, oboe, clarinetto, corno, cembalo, nastri, shenai, percussioni.

193. Oktober (Germania) - Die Pariser Commune (1977). Rock politico (celebra la Comune parigina del 1871 in polemica contro eventi storici più prossimi, come il Vietnam), seppur immemore della vena sarcastica, virulenta e funebre di Brecht e degli espressionisti, e orientata ai Genesis di The battle of Epping Forest. Quattro lunghe suite (venti minuti circa), a tratti piacevoli; già si avverte, però, la graveolenza del declino ideologico e musicale del fiume germanico, avviato verso il grossolano oceano sonoro degli Ottanta. Carl-F. Dörwald, voce, flauto; Kalla Wefel, voce, chitarra, basso; Hans-Werner Schwarz, chitarra; Pierre Meyn, chitarra, basso; Michael Iven, voce, chitarra, tastiere; Peter Robert, tastiere; Klaus-Peter Harbort, percussioni.

194. John Lennon & Yoko Ono (Gran Bretagna/Giappone) - Unfinished music vol. 2. Life with the lions (1969). Yoko Ono, la mente della coppia, volto da strega e strega a tutto tondo; artista i cui meriti, di sabotatrice goliarda, dell’accademia e delle trite e irresistibili canzonette del marito, assumono, già da oggi, un rilievo non banale. Scrittrice, regista (celebre il film sulle natiche) e pesce a suo completo agio in quel demi-monde sperimentale americano in cui tutti fanno qualcosa anche se non hanno nulla da dire. Ma a Yoko va riconosciuto un coraggio sfacciato: i 26’33’’ di Cambridge 1969 coi suoi vocalizzi etnici da sciroccata giustapposti ai feedback di Lennon; il silenzio à la John Cage di Two minutes of silence; il battito cardiaco del figlio mai nato (Baby’s heartbeat); i folli concretismi radio di Radio play; le intonazioni infantili e malate di Mulberry: tutta farina dell’ottuagenaria di Tokyo. Da sentire. Uno dei migliori dischi dei Beatles. Yoko Ono, voce; John Lennon, voce, chitarra.

195. Opération Rhino (Francia) - Fête de politique hebdo Lyon 76 (1976). Claude Bernard e Raymond Boni (NWW40), Gilbert Artman (NWW23), Pierre Berrocal (NWW35), Pierre Bastien (NWW192) uniscono le forze per un album sospeso fra jazz e sperimentazione: se Improvisation 1 (18’56’’), e la coda di Improvisation 1. Suite, ricreano le inquiete atmosfere da grande orchestra come in Urban Sax di Artman, la Improvisation 2 cede a un free jazz paradossalmente più rassicurante. Opera obliqua, notturna, da sentire assolutamente. Mallot Vallois, chitarra; Patrice Raux, chitarra; Raymond Boni, chitarra; François Tusques, tastiere; Evan Chandlee, flauto, clarinetto; Dominique Christian, basso; Harald Kenietzo, basso; Pierre Bastien, basso; Claude Bernard, sassofono; Richard Raux, sassofono; Daniel Deshays, tromba; Itaru Oki, tromba; Tonia Munuera, trombone; Philippe Pochan, violoncello; Alain Pinsolle, vibrafono; Jacques Berrocal, corno, trombone, oboe; Gilbert Artman, batteria; Mion Cinellu, percussioni.

mercoledì 20 novembre 2013

Iron Maiden - Triumph of the Beast (2013)


Il post previsto era un altro, poffarbacco ... Un Nurse With Wound vol. 32, nientemeno, ma, come sapete tutti, il web è fluido, fluidissimo e, all'ultimo momento, ho trovato un album introvabile e son stato costretto a rifare un po' di cose.
Il post tampone, debitamente coatto, è dovuto alle mie ormai consuete riletture adolescenziali; che preludono alla prostata infiammata. Quando si comincia a provare nostalgia, si comincia ad invecchiare. La canizie, però, non intorbida lo sguardo, anzi.
Lo ammetto, Eddy, il mostriciattolo della Vergine di Ferro, come le labbra di Mick Jagger, il guanto di Michael Jackson e l'occhio di Marilyn Manson appartiene al trovarobato più insopportabile della nuova musica. E nella produzione dei Nostri, dai Novanta in poi, di paccottiglia ne troviamo tanta. Eppure ... i primi due album, col grande Paul Di'Anno reggono ancora botta; Steve Harris, la mente, è un musicista e autore sottovalutato; Bruce Dickinson, l'usurpatore, secondo alcuni, è un brav'uomo, parecchio simpatico; lo si conobbe qualche eone fa mentre presentava un suo album solista in una radio locale romana: chitarra acustica e voce, ovviamente, una voce da far tremare la terra. Davvero. 
Quindi sono indulgente. I Maiden hanno piazzato nelle orecchie di tutti almeno quindici hit strepitosi, da risentire con tutti gli onori: Killers, Murders in the Rue Morgue, The trooper, Number of the beast, Can I play with madness; hanno sdoganato Edgar Allan Poe e Samuel Taylor Coleridge; e non mi sembra abbiano mai affaticato i rotocalchi con vicende men che oneste. 
Non mi pare poco. Che dire? Auguri per il quarantennale del 2015.

domenica 17 novembre 2013

Pink Floyd - BBC sessions 1967-1971 (1967/1968/1969/1970/1971)



27.01.1967 (UFO Club; BBC TV Scene Special)

- Interstellar overdrive
- Matilda mother

14.05.1967 (BBC Tel. Centre; Look of the Week)

- Pow R Toc H
- Astronomy domine

07.1967 (BBC Radio)

- Interstellar overdrive

32.07.1967 (Cosmopolitan Ballroom)

- Reaction in G
- Set the controls for the heart of the sun

25.09.1967 (broadcast 01.10.1967; BBC Playhouse Theater; Top Gear)

 - Flaming                                          
 - Scarecrow                                      
 - Matilda mother                              
 - The gnome                                     

20.12.1967 (broadcast 31.12.1967; Maida Vale; Top Gear)

Pow R toc H                                  
 - Vegetable man                               
 - Scream thy last scream                  
 - Jugband blues                                

25.06.1968 (broadcast 11.08.1968; BBC 210 Piccadilly Studios; Top Gear)

- Let there be more light                   
- Murderistic women                        
- Julia dream                          
- Massed gadgets of Hercules

03.11.1968 (BBC TV London; All My Loving)

- Set the controls for the heart of the sun     

02.12.1968 (broadcast 15.12.1968; Maida Vale; Top Gear)

- Point me at the sky             
- Embryo                                           
- Baby blue shuffle in D major         
- Interstellar overdrive                      

12.05.1969 (broadcast 14.05.1969 [Night Ride] + 01.06.9169 [Top Gear]; BBC Paris Cinema)

- Daybreak                                        
- Nightmare                                       
- The beginning                     
- Beset by creatures of the deep       
- The narrow way

16.07.1970 (Paris Cinema)

- Intro
- Embryo
- Fat old sun
- Green is the colour
- Careful with that axe, Eugene
- If
- Atom heart mother

30.09.1971 (Paris Cinema)

- Intro
- Fat old sun
- One of these days
- Embryo
- Echoes
- Blues


mercoledì 13 novembre 2013

Michael Hoenig - Departure from a Northern wasteland



Già con Agitation Free e, brevemente, con Tangerine Dream, il tastierista Michael Hoenig licenziò, in epoca di ripiegamento e declino della musica celestiale germanica, uno dei migliori prodotti dell'elettronica dei Settanta. 
Un tardo e turgido fiore di una stagione avviata all'autoparodia degli anni seguenti. La traccia eponima (20'55'') è una straordinaria elaborazione in cui il sostrato minimale delle tastiere, reiterate e ipnotiche come nel classico A rainbow in a curved air, di Terry Riley, viene speziato da echi etnici (la chitarra di Lutz Ulbrich in secondo piano) e da una seconda, avvolgente ed evocativa, linea del sintetizzatore: un mantra possente e irresistibile che, lentamente, va a spegnersi fra insistiti borborigmi elettronici e delicati tocchi space.
Il seguente Hanging garden transfer (10'59'') riassume due pregi: raddoppia i pregi di Departure (con più decisi tocchi ambientali) e rende ragione di una disputa antica: perché l'elettronica nasce e si raffina in Germania? Perché, azzardo, essa non è che l'oggettivazione (in chiave strumentale moderna, artificiale e asettica) di un sentimento profondo dell'anima germanica: la venerazione per il fato (Wyrd), per le potenze celesti che incombono incontrastate e invincibili sugli dei (destinati a una rovinosa sconfitta) e, di conseguenza, sulle famiglie degli uomini. Una visione dell'universo assolutamente pessimista da cui essi si difesero concretizzandola in pura arte evocativa: poesia mistica ed elegiaca, e musica e, poi, con più forza, musica elettronica, del tutto scevra da timbri individuali, specchio immacolato, veritiero e impersonale di un cosmo maestoso e implacabile colto nelle sue relazioni più profonde.
Di fronte a tale avidità per l'assoluto qualsiasi tentativo (specie meridionale) appare derivativo: e così è, a cominciare dagli esperimenti del pur valido Battiato. Altro ancora furono i minimalisti americani, volgarizzatori, pur geniali, di una serialità inumana, postmoderna.

lunedì 11 novembre 2013

Samla Mammas Manna - Samla Mammas Manna (1971)



Gruppo svedese (Lars Hollmer, voce, tastiere; Lars Krantz, basso; voce, Hasse Bruniusson, batteria; Henrik ''Bebben'' Öberg, percussioni), uno dei più famosi dell'ondata progressive nordica dei primi Settanta; un fenomeno ancora da valutare nel suo insieme.
Il loro esordio è fra i più citati dalle storie del settore, quelle che, quando esondano dagli alvei prog anglosassoni, tendono a farsi un po' sbrigative. Invece i Nostri meritano un ascolto approfondito. Per la carriera che li collocò (nel 1978) in RIO (Rock In Opposition), movimento anti-commerciale che riuniva, nella sua pristina integrità, altri quattro monumenti del rock contestatario: Univers Zero, Henry Cow, Etron Fou Leloublan e gli italiani Stormy Six. E per la qualità della musica che, senza toccare vette di originalità, o sorprendere per soluzioni ardite, riesce ad affascinare per il caloroso impasto vintage di tastiere e sezione ritmica; c'è poco da dire, la liquidità di questi timbri non è mai stati più recuperata nella sua virginale purezza ed è questa (a distanza di quarantadue anni) a decretare la sopravvivenza artistica di queste esili tracce.
Quanto poi alle atmosfere circensi e agli arieggiamenti da Frank Zappa che taluni sentono insistiti nel disco, meglio lasciar perdere.

sabato 9 novembre 2013

Julian Cope - Japrocksampler vol. 8 (Flower Travellin' band/Brast Burn/Akira Ishikawa & Count Buffaloes/Kuni Kawachi & Flower Travellin' Band)

Akira Ishikawa & Count Buffaloes

28. Flower Travellin’ Band - Anywhere (1970). È più famoso il disco o la copertina (i Flower nudi à la Easy rider)? Riascoltando i quattro pezzi portanti (tutte cover: 21th century schizoid man, Louisiana blues, Black sabbath, House of the rising sun) bisogna ammettere che i Nostri pompavano alla grande e avevano (ricordiamolo: è il 1970) un certo gusto nel riconoscere i superclassici. Ma sì, da ascoltare, specie gli ottimi quindici minuti di Louisiana. Joe, voce, armonica; Hideki Ishima, chitarra; Jun Kozuki, basso; Joji Wada, batteria.

27. Akira Ishikawa & Count Buffaloes - Uganda (1972). Il grande Ishikawa, reduce da un viaggio nel Centroafrica, che combina al ritorno? Diventa un Santana afro-nipponico. Le due tracce centrali insistono su ritmi derivativi del Grande Continente, ma la prima e l’ultima speziano il tutto con la grande chitarra di Mizutani, sino a trovare una fluidità quasi funky. Si aggiunge, fascinosa, l’inevitabile patina d’epoca. Da ascoltare. Kimio Mizutani, chitarra; Chihara Hideaki, basso; Ishikawa Akira, batteria, percussioni; Larry Sunaga, percussioni.

26. Brast Burn - Debon (1975). Già recensito qui.

25. Kuni Kawachi & Flower Travellin’ Band - Kirikyogen (1970). Un album minore dei Flower Travellin’ Band, in effetti; con qualche punta, il grande Yamanaka alla voce e la consueta chitarra incendiaria del buon Ishima. Nella media, con buone screziature oriental-psych. Bene To your world, Graveyard of love e l’eponima traccia. Da sentire, senza troppo fretta, però. Joe Yamanaka, voce; Hideki Ishima, chitarra; Kuni Kawachi, tastiere; Pepe Yoshihiro, basso; Chito Kawachi, batteria.

mercoledì 6 novembre 2013

Motörhead - The very best of Motörhead (2002)


Per Evil Monkey, blogger depresso

Succede, nella vita. La verità è quella che è, non quella che dovrebbe essere.
La condanna: il libero arbitrio, la facoltà di scegliere. Non la nostra: quella degli altri.
Se le volontà degli altri potessero acconciarsi alle nostre, ecco la felicità.
Ma questo non è dato all'uomo, condannato ai saliscendi della passione, agli andirivieni della fortuna.
D'altra parte se non fossimo eternamente e ineluttabilmente infelici non ci sarebbe bisogno della poesia e della musica.
Non ci sarebbe arte, in effetti.
E nemmeno Shakespeare, Klaus Schulze e Richard Wagner.
Se fossimo perfettamente, pienamente, felici, così felici da non avere sentore della nostra propria felicità, non esisterebbero nemmeno la guerra e la disperazione, concime dell'arte.
Niente Balthus, Bach, Kafka, gotico, espressionismo, fortificazioni, astuzie, storia, psicologia, culto della morte. 
E, incredibilmente, non ci sarebbero nemmeno i Motörhead, i tre canaglioni dall'aria truce e coatta, quella dei fascisti da circo, dei birraioli e degli attaccabrighe da quattro soldi.
Sarebbe una gran perdita? Forse no. Fatto sta che i Motörhead servono, come Black Sabbath, AC/DC, Van Halen, Iron Maiden (vado a decrescere ...) a curare il blues che, di solito, affligge i rockettari intorno alla metà della vita. Elementali, maleducati, trucidi, menefreghisti, i Motörhead rigettano (a parole) tutte le virtù che fanno di un uomo qualunque un cittadino accettabile. I Motörhead simulano il ritorno a una vita brada, pre-borghese, ribellista: possiedono il fascino primario del rock 'n' roll più classico e ferino. Motörhead assaltano i padiglioni, mettono sotto le vecchie sulle strisce pedonali, ruttano di fronte alla fidanzata, e, soprattutto, quando pisciano (attenzione!) pisciano altissimo. Una bella parabola liberatoria, lunga, distesa, come quella di Arthur Rimbaud ne L'orazione della sera:

Poi, quando ho ringhiottito i miei sogni con cura, mi volgo, dopo aver bevuto trenta o quaranta tazze, e mi raccolgo per dar sfogo all'acre bisogno. 
Mite come il Signore del cedro e degli issopi, io piscio altissimo, verso i cieli bruni, col consenso dei grandi eliotropi.

Così si fa. Invece il borghesuccio depresso, che ascolta Vasco Rossi, e si alza piano per non svegliare la moglie coi bigodini, come si libera? Con una pisciatina da stringere il cuore, un filo stentato, intermittente, uno stillicidio plic pluc ploc ...
No, quando si è depressi bisogna riscoprire il galateo dei Motörhead, le rudezze rock, gli istinti basilari, le mani in faccia, i non serviam, e la verginità dell'insulto, poiché l'insulto e la sgarbatezza, come disse Nietzsche, sono indizio di salute. Poi, finita la convalescenza, si torna alla psichedelia e al rock sperimentale. In alto i cuori!

domenica 3 novembre 2013

Ramones - Ramones mania (1988)



Quasi tutti hanno avuto degli amori. E, quasi tutti, hanno avuto degli amori adolescenziali. E tutti (la totalità) saranno stati visitati, almeno una volta nella loro breve vita, da un pensiero a mezzo tra il nostalgico e il sadico: chissà come Luana o Bianca o Maria (sì, proprio quella tipa là) sarà diventata oggi.
Lo stesso penso dei miei vecchi amori discografici. Quelli rock 'n' roll, gli amori per i brontosauri che, complice la mancanza del web, monopolizzavano gli ascolti degli adolescenti alle prime prese con un mondo sonoro sconfinato. Mi dico: chissà come suonerà alle mie orecchie The musical box oppure Isolation o Speed king, oggi, dopo decenni di altri ascolti e interessi. Un esercizio (fra il nostalgico e il sadico anch'esso) che applico, da qualche tempo in qua, con una certa frequenza. Qualche tirannosauro regge all'esame, altri meno. I Ramones a metà. Ammetto che siano trascinanti; ammetto parimenti che i due minuti al fulmicotone delle loro canzoni, portati avanti con tetragona mancanza di serietà, abbiano favorito la nascita del movimento punk-hardcore ovvero della corrente musicale in cui il ribellismo era esplicitato da una rozza goliardia e da una carica antintellettuale e antisistemica. Tuttavia, proprio le qualità più storicamente celebrate (la struttura elementare delle composizioni e la balda sicumera dei loro più sciocchi e irresistibili ritornelli) costituiscono un punto a loro sfavore. I Ramones non celano nulla: i loro giochi sono quello che sono e non hanno la minima carica eversiva; anzi, a dirla tutta, essi sono la versione riadattata dei gruppi surf rock degli anni Cinquanta, il periodo sociale più vagheggiato, nella sua innocenza, dalle nostalgie americane piccolo borghesi. Da questo punto di vista essi sono meno punk e meno frontisti di uno dei tanti gruppi hardcore dei primi anni Ottanta, specialmente quelli più trucibaldi e spontanei. 
Naturalmente, a parte tali considerazioni personali e senili, questa loro raccolta di successi (la prima pubblicata) è tutta da godere; ci sta dentro tutto, da Sheena is a punk rocker a Blitzkrieg bop, da I wanna be sedated a Teenage lobotomy.
Trenta canzoni, trenta divertenti proiettili a salve.