martedì 29 ottobre 2013

Lou Reed - Lou Reed live in Italy (1984)


Inutile girarci intorno, un omaggio è doveroso. Quando scoccavano i primissimi anni Ottanta, 1980-1982, quella fugace, malferma e magica continuazione del decennio in cui avrei voluto vivere avendo vent'anni e più cervello; quando le guide musicali, al pari delle lire, latitavano; quando i negozi di dischi vendevano solo dischi; quando gli MP3 erano nella mente del Dio del Rock, certi album ingigantivano nell'immaginario dei quattordicenni brufolosi come un sogno erotico.
Non solo possedere, ma anche solo intravedere certe copertine regalava brividi mai più provati. A dir la verità mi capita ancora adesso a qualche mostra vintage, ma  allora era un'altra cosa.
Uno dei feticci era Transformer (quello con David Bowie ai cori di Satellite of love!) e, prima ancora, Rock and roll animal, una meraviglia live, con Lady Day; anzi no, macché live, fermi tutti, bisogna comprare Berlin, questo è il vero capolavoro asociale di Reed, altro che Transformer; contrordine! Prima ancora ci sono i Velvet Underground (non lo sapevate, coglioni?) e il primo disco (di cui si ignorava il colore della banana: gialla o rosa?): questo è il massimo, ragazzi, anche se, lo ammetto, qualcuno dice che, però, forse, è meglio il secondo dei VU perché ci sono White light white heatThe gift e Sister Ray: cosa dice Bertoncelli di Sister Ray, guarda un po' quella cazzo di guida che hai fregato a casa del porco ricco della classe ... Oh, dico, Sister Ray, venti minuti, vogliamo mettere, questa è musica free form, mica il melodismo della crucca che c'era prima ...
La morte di Lou Reed, e così sarà per i magnifici brontosauri ancora in giro (Dylan, Bowie, Jagger, Townsend), porta via non solo l'artista, ma proprio una parte di se stessi, anzi una parte di quelle ingenuità che, al pari delle esperienze più durature e immortali, formano la nostra personalità.
Basta, non ho altro da dire. 
Questo live l'ho sentito mille volte e Rock 'n' roll, il pezzo finale, mille volte più una.

domenica 27 ottobre 2013

Beyond the boundaries - Post rock vol. 5 (Saqqara Dogs/Mirza/Zebulon Pike)

Zebulon Pike

Saqqara Dogs (Usa, California, San Francisco) - Thirst (1987). Un piccolo capolavoro nascosto degli Ottanta. Costola dei Factrix, i Saqqara obliano le dissonanze sataniche degli ascendenti e confezionano una sorta di post rock etnico memore, ad esempio, dei Black Sun Ensemble. La chitarra frippiana di Bergland si esalta nei ritmi rilassati e crepuscolari di Gregorian stomp oppure si fa più tagliente in Sacrifice, il cui humus sonoro si colora di un’angoscia industrial. Bong Bergland, voce, chitarra; Sync 66, voce, chitarra, tastiere, violoncello, basso, percussioni; Hearn Gadbois, voce, percussioni, cembalo.

Mirza (Usa, California, San Francisco) - Last clouds (2001). Il disco assomma il 12’’ Ursa Minor, del 1996 (le prime quattro tracce, notevoli), e altri sette pezzi registrati, in maniera non impeccabile, fra il 1996 e il 1998. Tutti strumentali. Last clouds rimane sospeso fra psichedelia (decisivo il contributo delle tastiere), space e (rari) indurimenti post rock. Un disco risultato dalla compilazione di differenti momenti sonori, ma che trova compattezza nel diffuso tono trasognato e in certe godibili progressioni psych. Steven R. Smith, chitarra, batteria; Glenn Donaldson, chitarra, tastiere; Mark Williams, chitarra, basso; Brian Lucas, chitarra, basso.

Zebulon Pike (USA, Minneapolis, Minnesota) - II: The defeaning twilight (2006). Stoner progressive? Possibile? La prima, grande traccia (The pyramid is the ascending spiral, 12’29’’) dà fuoco alle polveri à la Kyuss; ben presto, però, si vira dalle parti di Polvo e Bitch Magnet, la partitura si fa più complessa, ma non confonde mai la profondità con la superfetazione di viluppi sonori esagitati da manierismi strumentali. Il resto è di pari forza (Structure of the black stallion, 22’14’’; Ashes of Xerses, 20’41’’; And blood was passion, 13’13’’): pozze statiche e riprese cingolate, distorsioni e iterazioni cacofoniche si alternano per uno dei migliori dischi di genere degli anni Duemila. Sarebbe bene ascoltarlo subito. Erik Fratzke, chitarra; Morgan Berkus, chitarra; Steve Post, basso; Erik Bolen, batteria.


venerdì 25 ottobre 2013

Smiths - The sound of The Smiths (2008) 1^ parte/2^ parte



Quarantacinque tracce (quarantacinque) per una storia musicale che vanta solo quattro album, di cui solo un paio meritevoli d'esser ricordati; i curatori rappattumano, come al solito, qualche live e versione da 7'' o da Peel session per dilatare a due cd un'esperienza che ebbe la fortuna sfacciata di nascere ed affermarsi durante quel periodo ingenuo e irripetibile in cui vinili, musicassette e radio lasciavano frettolosamente il posto alle nuove televisioni commerciali specialistiche (MTV, Videomusic).
I primi video, i primi VJs consacrarono una nuova generazione pop che, con melodie ballabili o esangui linee chitarristiche post-punk, liquidava definitivamente, e in modo incruento, l'esperienza politicamente devastante del punk, dell'hardcore, del progressive e del folk autoriale. 
Fra le legioni, diversificate in base al target, ecco gli Smiths, destinati al lato meno cialtrone del consumatore medio; anzi destinati al teenager consumer avveduto e responsabile (viva la pace, meat is murder, la fame dei bimbi etc etc); avveduto e responsabile poiché egli, nonostante tutto, resterà tale (consumatore) senza scocciare più tanto, rimanendo avido di prodotti (ideologici e commerciali, di MTV e dei signori che usano il mezzo MTV) e, in più, illuso di aver dato il suo contributo di progressista medio (destro, sinistro, centrista) alla causa del capitalismo compassionevole (vi ricordate il Live Aid? Le canzoncine angloamericane Feed the world et similia?).
Non vorremmo far torto al gruppo di Morrissey (Johnny Marr, chitarra; Andy Rourke, basso; Mike Joyce, batteria): The queen is dead, What difference does it make, Barbarism begins at home, That joke isn't funny anymore, How soon is now sono sempre piacevoli; a distanza di trent'anni, però, il brodo ha un retrogusto un po' annacquato, e, alla fine dei quarantacinque pezzi del best of, sembra ancor più scipito.
Manca il sale, la forza. Gli Smiths sono bravi, ma carini. O carucci. E fortunati. In seguito arriverà il diluvio Oasis, Blur, Verve: dovremmo forse essere più indulgenti, ma le responsabilità sono di chi vive le vicende in un dato momento storico. Al massimo potremmo concedere le attenuanti della sincerità, ma, ormai, alla sincerità ci credo poco anch'io.
Approfittiamo del post per un saluto a Morrissey, trasferitosi qualche anno fa nei dintorni di Roma, attirato da un amore bruciante, e a tutte le ammiratrici romane del gruppo (quasi sempre hipster, biondine e spilungone: lo so per certo).

mercoledì 23 ottobre 2013

James Brown - Live at the Apollo Theatre vol. 2 (deluxe edition) (2001; recordings 1967)



Seconda parte della saga James Brown, Live at the Apollo Theatre (di New York): registrazioni che datano alle due giornate del 1967, 24 e 25 Giugno.
Più che un disco, questa è una riprova, sul campo, dell'intrusione di elementi non oggettivi nella valutazione di un'opera; l'abbiamo già affermato: a volte agisce la nostalgia, altre il fascino borderline dell'autore; in questo caso, oltre ai primi due fattori, ben presenti, si assiste alla consacrazione di un capolavoro per merito della pura personalità dell'interprete. 
James Brown.
Ventitrè tracce.
Se ne possono saltare ventidue (se non vi piace il genere).
Cliccate su It's a man's man's man's world. 19'12''. Composto l'anno precedente il concerto dallo stesso Brown e da Betty Jean Newsome, il brano (durata originaria: 2'46'') viene dilatato a diciannove minuti a mezzo di sermone erotico semplice e sincero (This is a man's world/But it wouldn't be nothing, nothing/Not one little thing/Without a woman or a girl), a mezzo tra il soul e il talkin' blues; diciannove minuti dal ritmo sgocciolante, trattenuti e nello stesso tempo intensi come un rapporto amoroso, sommessi sin quasi a spegnersi o improvvisamente accesi da grida brucianti. Come si è notato a proposito di stili completamente diversi (i Neu!, Captain Beefheart), James Brown riesce a sintonizzarsi su qualche ritmo biologico fondamentale dell'uomo: la recita potrebbe durare ore, vocalizzo dopo vocalizzo, tra discese e risalite e istrionismi. Un capolavoro assoluto.
E il resto pure.

domenica 20 ottobre 2013

Krautrock party vol. 8 - Cosmic Jokers - Cosmic Jokers (1974)/Cosmic Jokers - Planeten sit-in (1974)/Sand - Golem (1974)



Cosmic Jokers - Cosmic Jokers (1974). I Cosmic Jokers sono meno un gruppo che una accolita di geniacci riuniti per l'occasione. I nomi parlano da soli: Klaus Schulze, Harald Großkopf, Jürgen Dollase, Manuel Göttsching, Dieter Dierks, Rolf Ulrich Kaiser ovvero Ash Ra Tempel e Wallenstein; e, soprattutto, Cosmic Couriers, gli interpreti della strepitosa trilogia Tarot (con Walter Wegmüller), Lord Krishna von Goloka (Sergius Golowin) e Seven up (Timothy Leary). Il primo album dei Jokers si divide in due suite (22'38''; 19'24) interamente strumentali: un piccolo capolavoro, l'ennesima cavalcata di space-psychedelia che trotta al ritmo biochimico della mente finalmente libera dal fardello della realtà.   

Cosmic Jokers - Planeten sit-in (1974). Lavoro frantumato in ben tredici tracce, alcune al limite dello sketch elettronico (e di un certo didascalismo fine a se stesso). Le ultime composizioni, però, si riappropriano del modus Ash Ra Tempel e il disco decolla: Intergalactic radio guri broadcasting, Der planet des lukas e, soprattutto, Interstellar rock-Kosmische musik, quest'ultima più un paradigma epocale che semplici quattro minuti di musica celeste.

Sand - Golem (1974). Ignorarli non cambierà la percezione onnicomprensiva del progressive totale tedesco, ma vi priverà dell'ascolto di due ottime tracce: quella iniziale, quasi un classico, Helicopter (13'42''), fascinosa, incombente e dalla struttura elementare come parecchi capolavori del periodo; e quella finale, Sarah (10'42''), processione funebre che solo all'ultimo si rilassa quasi impercettibilmente in una più pacata aria purgatoriale. Da ascoltare. Hannes Vester, voce, tastiere; Ludwig Papenberg, voce, chitarra; tastiere, batteria; Christian von der Schulenburg, tastiere; Ulrich Papenberg, basso, percussioni. 

venerdì 18 ottobre 2013

Country Joe McDonald - Electric music for the mind and body (1967)/I feel like I'm fixin' to die (1967)



Country Joe McDonald, al secolo Joseph Allen McDonald: meno un cantante che una sola canzone live (I feel like I'm fixin' to die rag). Una composizione che assommava, per quelle combinazioni non inusuali nella beffarda sequenza degli eventi manicomiali che appelliamo storia, tutto il sentire politico della purissima stagione contestataria di fine Sessanta: l'istinto antagonista, la ribellione alla sporca guerra, la consapevolezza di classe, i diritti civili and so on.
Una canzone di cui tutti conoscono la versione presentata a Woodstock e ignorano quella presente nell'album omonimo; forse giustamente, poiché ad un'irresistibile carica folk, moltiplicata dal karaoke del pubblico, Country univa un sarcasmo antimilitarista degno di M.A.S.H. e Comma 22, nonché uno dei più divertiti e liberatori vaffanculo della storia rock.
La versione in studio, più complessa, svela, invece, uno dei lati del carattere di McDonald, quello più teatrale, in cui l'improvvisazione popolare da jug band assume i contorni dello scherzo circense. Uno dei lati, dato che in lui convivono anche la denuncia politica schietta e, soprattutto, la canzone più rilassata, spesso virata verso una morbida psichedelia (come ad esempio nell'ottima Grace, dedicata a chi sappiamo).
Non in grado di competere né con le asprezze di Guthrie, nè col melodismo sommo di Bob Dylan; incapace di ricreare la forza d'urto militante dei Fugs, egli raggrumò la propria esperienza più nobile, consumata in un paio d'anni, attorno a un gruppo di composizioni dal tono medio, che hanno il pregio e la fortuna d'esser marchiate da quella delicata atmosfera propria di un periodo politico e musicale irrecuperabile (e chissà se nel sound, ora vintage, dei Country Joe & The Fish non sia decisivo il tastierista David Cohen, uno dei primi ad usare i timbri dei marchigiani organi Farfisa).
Il resto, la gloria che l'ha consacrato sino a oggi, la fecero i tre minuti di Woodstock e una manciate di parole che il tribunale della storia sancì come vere e inoppugnabili:

E un due tre
ma si combatte per che?
Non chiederlo a me, m'importa una sega,
prossima fermata: Vietnam!
E cinque sei sette
spalancate le porte del cielo,
non c'è neanche il tempo di chiedersi che cazzo succede,
yu-uuuu! si muore!

mercoledì 16 ottobre 2013

Sid Vicious - Sid sings (1979)


Neanche trenta minuti di musica, per così dire, undici canzoni undici live di cui nove rifacimenti, low fidelity davvero low: questo il meschino resoconto sonoro di uno dei più riconoscibili simboli del punk anglosassone.
Abbiamo già affermato, a proposito di Michelle Shocked, che un'esistenza borderline, vissuta sinceramente, influisce anche sulla considerazione estetica di un dato artista. Spesso, però, è proprio il dato biografico, nel caso di Vicious di sovrabbondante maledettismo, a prevaricare sulla valutazione della figura storica. Vogliamo essere esagerati e crudeli: cosa sarebbe Cobain senza lo spettacolare suicidio? Probabilmente un quarantaseienne che si trascina di palco in palco, imbolsito e sfiatato, riproducendo gli accordi del tempo che fu annegati nelle tracce del nuovo disco presentato fresco fresco su MTV e Rolling Stone... Meglio non pensarci.
Cosa sarebbe Vicious senza l'omicidio dell'amante groupie Nancy, le successive indagini, le intemperanze, l'overdose? Nulla. Le sue doti musicali, interpretative, compositive semplicemente non esistono. Rotten, che genio lo fu davvero, testimonia in tal senso. Di Vicious possiamo congetturare (lo dicemmo al riguardo di Darby Crash, uno parecchie volte meglio di lui, però) ciò che scoprì l'indagatore Gottfried Benn: "Genio è follia, genio è degenerazione ... La comunità culturale ... cerca questa circolazione di psicopatia e anomalie negative; essa forma ... la moderna mitologia fatta di ebbrezza e decadenza e tutto questo lo chiama genio".
Eppure, nonostante la plateale inconsistenza di Vicious, si è riusciti a farne il santino punk dell'Inghilterra ribelle e a strizzare da quella misera esperienza decine di album.
Per fortuna c'è il web e ci sono i volumi della serie Early British punk from A to Z!

domenica 13 ottobre 2013

Early British punk from A to Z vol. 12 (Leyton Buzzards/Lightning Raiders/Living Daylights/Lockjaw/London/London Cowboys/Lurkers/Machine)

The Lurkers

Leyton Buzzards (Londra) - Jellied eels to record deals (1979). Geoff Deane (Nick Nayme), voce; Dave Monk (Chipmonk), chitarra; David Jaymes (Dave DePrave), voce, basso; Kevin Steptoe (Gray Mare), batteria.

Lightning Raiders (Londra) - Sweet revenge (1981). Gass Wild, voce; Bruce Irvine, chitarra; John Hodge, chitarra; Duncan Sanderson, basso; George Butler, batteria.

Living Daylights (Exeter) - Heart stop (1979; 7’’). John Thorne, voce, chitarra; Ian Neale, voce, basso; Rob Ward, batteria.

Lockjaw - Radio Call Sign/The Young Ones (7''; 1977)/Journalist jive (7''; 1978). Bozo, voce; Steve Mushroom, chitarra; Stupendous, chitarra; Simon, basso; Oddie Ordish, batteria.

London (Londra) - Animal games (1978). Riff Regan, voce; Colin Wright, chitarra; Steve Voice, basso; John Moss, batteria.

London Cowboys (Londra) - Animal pleasure (1982). Steve Dior, voce, chitarra; Barry Jones, voce, chitarra; Rikki Sylvan, tastiere; Ron ‘Norville’ Asprey, sassofono; Tony James, basso; Terry Chimes, batteria.

London SS. Mick Jones; Tony James.

Lurkers (Londra) - Fulham fallout (1978). Howard Wall, voce; Pete Stride, voce, chitarra; Nigel Moore, voce, basso; Esso, voce, batteria; Pete ‘Plug’ Edward, voce, armonica.

Luxound Deluxe. Introvabili.

Machine (Coventry) - One song (Character change) from the anthology Sent from Coventry (1980). Jackie, voce, tastiere; Mike Collins, voce, chitarra; Simon Finch, chitarra; Julian Bell, tastiere; Silverton Hutchinson, batteria.

venerdì 11 ottobre 2013

Mutant Sounds reborn - The Italian posts of Mutant Sounds vol. 7 (Egisto Macchi/F.A.R.)

Egisto Macchi


Egisto Macchi - Bioritmi/Futurissimo (197?). "Egisto Macchi was raised in Rome, where he studied literature, piano, violin, singing and composition, as well as courses in medicine and physics. The first years of his work were dedicated to instrumental composition. He was then involved in the investigation of musical theater, for which he wrote experimental works, as A(lter) A(ction) (1962), based on texts by Antonin Artaud. In 1965, he founded with Domenico Guaccero and Silvano Bussotti the Compagnia del Teatro Musicale di Roma. Starting in 1968, Macchi wrote scores for films and television, for Joseph Losey, the Taviani brothers, Bernardo Bertolucci, among many other filmmakers. From 1980, he was dedicated to the composition of works for the female voice, combining voices with chamber orchestras, small instrumental groupings and even fireworks, and experimenting with new technologies. This led to the creation of the Istituto della Voce in 1983, with Guaccero.
With his friends Franco Evangelisti, Daniele Paris and Guaccero, Macchi was active throughout his life in organizations related to music, such as an editorial, the publication 'Ordini', dedicated to reviews and studies of new music, and the Palermo New Music Festival, all in 1959; the group Nuova Consonanza in 1960, to promote contemporary music; in 1967, with Evangelisti, Guaccero and Gino Marinuzzi Jr., he was one of the founders of Studio R7, an electronic workshop for experimental music, he was a member of the Italian Commission of Music for UNICEF, with Evangelisti, Nino Rota, Ennio Morricone and Luis Enríquez Bacalov, and he joined the Gruppo d'Improvvisazione Nuova Consonanza, created by Evangelisti; from 1976 to 1981 he organized the Corali Riunite in his home town, Grosseto, and since 1984 he directed the sound archives of the Institute of Research for Musical Theater.
In his last years, Macchi had been working with Morricone on a project to promote the 'new opera'. He had arranged La Bohème for 16 instruments and four synthesizers, and Morricone had worked on Tosca. Both works were ready to be staged, when Macchi died in 1992".
From RYM:
Here are 2 classic LPs for the fans of the so called 'library music', by one of the masters of the genre. Released on Gemelli and Montparnasse 2000 labels respectively, these 2 are some serious examples of abstract electronics from the early 70s. Bioritmi is an interpretation of some medical actions to music, though Futurissimo is more abstract space music oriented.

F.A.R. - Presto i topi verranno a cercarci (1987). Great dark droning experimental/industrial electronics from these Italian pioneers of experimental electronics. Will appeal to all HNAS, Sigillum S, Throbbing Gristle, etc fans.

mercoledì 9 ottobre 2013

What the fuck is this post? 43 fuck songs for the mind and body



Il maestro ("Gimme an F! F! Gimme an U! U! Gimme a C! C! Gimme a K! K!") in un post a parte. Ovvio, ci sono dei buchi. Aspetto suggerimenti. Se non siete d'accordo, sapete cosa rischiate.

Bad Religion - Fuck Armageddon, this is hell
Bad Religion - Fuck you
Beastie Boys - Hey, fuck you
Blizzard - Fuck the universe
Brian Jonestown Massacre - Slowdown (fuck tomorrow)
Briard - Fuck the Army
Cake - Shut the fuck up
Crass - What the fuck
Dead Kennedys - Nazi punks fuck off
Dead Kennedys - Too drunk to fuck
Eminem - Fuck you
Eminem - Just don’t give a fuck
Exploited - Fuck the system
Fear - Fuck Christmas
Gits - Here’s to your fuck
John Lennon - When in doubt, fuck it
John Zorn - Fuck the facts
Kills - Fuck the people
KLF & Extreme Noise Terror - Fuck the election
KMFDM - Find it fuck it forget it
Lily Allen - Fuck you
Liz Phair - Fuck and run
Liz Phair - Fuck or die
Lucrate Milk - I love you fuck off
Marylin Manson - Fuck Frankie
mclusky - Fuck this band
Monsoon Bassoon - Fuck you fuck your telescope
Monty Python - Usage of the word fuck
Motörhead - Fuck Metallica
NWA - Fuck the police
NOFX - Fuck the kids (revisited)
P.J. Harvey - Who the fuck
Peaches - Fuck the pain away
Phish - Fuck your face
Pigface - Fuck it up
Raw Power - Fuck authority
Replacements - Fuck school
Skid Row - Get the fuck out
Suzie Quatro & Smokie - Who the fuck is Alice
System of a Down - Fuck the sustem
Towers of London - Fuck it up
Venetian Snares - I’m a fucking idiot
Wu Tang Clan - Ain’t nothing ta fuck wit

martedì 8 ottobre 2013

Fear Factory - Demanufacture (1995)


"La Città della Notte era come un esperimento dissennato di darwinismo sociale, concepito da un ricercatore annoiato che tenesse un pollice in permanenza sul pulsante dell’avanti-a-tutta-velocità. Smetti un attimo di farti largo a spintoni, e affonderesti senza lasciare traccia; muoviti un po’ troppo velocemente, e finiresti per spezzare la fragile tensione superficiale del mercato nero; in entrambi i casi spariresti senza che di te rimanesse niente, salvo un vago ricordo nella mente di un infisso come Ratz, anche se il cuore, i polmoni o i reni avrebbero potuto sopravvivere per i serbatoi delle cliniche al servizio di qualche sconosciuto fornito di Nuovi Yen ... Era nello Sprawl adesso, quel calderone caotico di umanità dov’era casa sua ... lì, nella notte giapponese, i sogni arrivavano come il filo animato del voodoo, e lui urlava, urlava nel sonno, e si svegliava da solo nel buio, raggomitolato nella sua capsula in qualcuno di quegli alberghi-bara giapponesi, dalle stanze rimpicciolite all’essenziale, con le mani che artigliavano le piastre del letto, la gommapiuma temprata serrata tra le dita, cercando di raggiungere una consolle che non c’era ... adesso, dormiva negli alberghi-bara più economici, quelli vicini al porto, sotto la luce dei riflettori al quarzo che illuminavano i moli durante l’intera notte come enormi palcoscenici; là dove non si potevano vedere le luci di Tokyo a causa del bagliore del cielo televisivo, neppure la torreggiarne scritta della Fuji Electric Company, e la baia di Tokyo era una nera distesa in cui i gabbiani volteggiavano sopra banchi di bianca schiuma di plastica alla deriva. Dietro al porto si stendeva la città, le cupole delle fabbriche dominate dagli enormi cubi delle arcologie delle corporazioni. Il porto e la città erano divisi da una stretta linea di confine fatta di strade più vecchie, un’area che non aveva un nome ufficiale. La Città della Notte, con Ninsei nel suo cuore. Durante il giorno i bar di Ninsei erano chiusi e anonimi, i neon spenti, gli ologrammi inerti, in attesa, sotto il velenoso cielo argenteo".

William Gibson, Neuromancer, 1984

sabato 5 ottobre 2013

Early psychedelia vol. 14 (Kaleidoscope/Litter/Silver Apples)

Kaleidoscope

Indice generale/General index

Kaleidoscope (USA, Los Angeles, California) - A beacon from Mars (1968). Psichedelia purissima, anticipazione della world music (Canaxis 5 di Holger Czukay e Alchemy della Third Band usciranno l’anno seguente), grazie alla splendida Taxim, e crossover eccezionale che si ciba di influenze (medio)-orientali, ma non dimentica inflessioni celtiche, western, acid-rock (A beacon from Mars). Il primo capolavoro della triade in esame. Saul Feldthouse, voce; David Lindley, chitarra; Pete Madlem, dobro; Maxwell Budda, tastiere; Chris Darrow, basso; John Vidican, batteria.

Litter (USA, Mineapolis, Minnesota) - Distorsions (1967). Secondo disco recensito per i Litter. Psichedelia che inclina verso la zona Yardbirds e Who (c’è la cover di Substitute; non manca peraltro la tangente Hey Joe). Action woman è il loro singolo più famoso e dirompente, ma non si va oltre una generica gradevolezza. I loro dischi sono introvabili, ma la rarità di un oggetto non fa salire le quotazioni nel borsino estetico. Dennis Waite, voce, tastiere, arpa; Dan Rinaldi, voce, chitarra; Tom 'Zippy' Caplan, chitarra; James Worthington Kane III, voce, basso, tastiere; Tom Murray, batteria, percussioni.

Silver Apples (USA, New York) - Silver Apples (1968). Quasi mezzo secolo ed è ancora un capolavoro vero. Uno dei primi album elettronici (grazie a The Simeon, “meccanismo organico composto da nove oscillatori e 86 controlli da manovrare con mani, gomiti, ginocchia e piedi”), ma che non risente di alcun ingenuità pionieristica, anzi: il canto e le percussioni di Taylor aggiungono un tocco catatonico e straniante che garantisce la piena attualità dell’opera. Difficile valutarne la carica rivoluzionaria vista la ridotta diffusione del debutto e del successivo Contact, ma gli va riconosciuta la primogenitura, pur lasca, di alcuni generi, come il synth pop, il drum ‘n’ bass o l’elettronica nichilista di New York, a partire dai Suicide. Dan Taylor, voce, percussioni; Simeon Coxe, sintetizzatore.

giovedì 3 ottobre 2013

John Fahey - America (1971; 1998 reissue)


Musica assolutamente evocativa e priva di notazioni descrittive. Folk strumentale (solo chitarra) la cui sostanza intima coincide con l'anima profonda di una nazione. Un'opera che possiamo tentare di comprendere solo abbandonandoci all'ascolto.
I luoghi più appartati, i panorami solitari, la natura imponente, presso cui gli uomini bivaccano reverenti, il senso della frontiera, del limite da varcare, l'immensità degli orizzonti, tutto questo, (ridicolizzato in Cinemascope e reso goffa maniera dall'industria hollywoodiana), vibra in queste tredici tracce. L'album è la riedizione del disco del 1971 che contemplava solo quattro pezzi (tra cui Voice of the turtle, qui assente).
Molto è stato scritto su Fahey mettendone in risalto le radici bluegrass o lo spirito naïf (il cosiddetto primitivismo), una sorta di innocente predisposizione capace di elaborare i temi della propria terra sotto una luce immediata.
A mio avviso America è il rendiconto emozionale del viaggio in una terra incontaminata. E' l'America prima dell'arrivo degli invasori occidentali. Questo il fascino, altrimenti inspiegabile, della nostalgia presente nel disco.
Vi è un bellissimo film di Terence Malick, Il nuovo mondo, che narra dell'arrivo degli inglesi sulle coste della Virginia, nel 1607. L'avventuriero britannico, John Smith, viene catturato dalla tribù dei Powhatan; conosce una bellissima adolescente, Pocahontas; grazie a lei scampa la morte. Fra i due sorge una storia d'amore, forse platonica. La natura, incontaminata, inesauribile, offre una quinta maestosa; il cielo, illimitato, la sua protezione. Una vicenda a noi sconosciuta, ma definitivamente universale.
Due figure, John Smith e la dolce Pocahontas, che si muovono lente e mute su uno sfondo immacolato, lungo una terra ancora innominata e senza tempo. Questo è il vero sogno americano, la patria perduta e rimpianta, l'Arcadia che commuove negli accordi tintinnanti del bardo del Maryland.   

mercoledì 2 ottobre 2013

Morphine - B sides and otherwise (1997)/The best of Morphine (2003)



Che il fascino dei Morphine (Mark Sandman, voce,chitarra,basso, tastiere; Dana Colley, sassofono; Billy Conway, batteria, percussioni, poi Jerome Deupree) sia quella di una controllata decadenza? Dai generi, ovviamente. Come Il mucchio selvaggio o Pat Garrett & Billy the Kid di Sam Peckinpah traggono la loro sostanza dalla negazione dell'apoteosi della frontiera (ma non del mito della frontiera), così i Morphine si sostanziano della grande stagione dei generi che omaggiano (il cool jazz, il blues), ma la assimilano accogliendone la vena più sotterranea e problematica, meno celebrativa.
Super sex è uno dei brani paradigmatici. Un sassofono dai toni lancinanti viene ritmato dalla due corde di Sandman: ne esce, con la massima semplicità di mezzi, un notturno metropolitano hard boiled (I got the whiskey baby/I got the whiskey/I got the cigarettes/You are a super ultra maxi mega super funkie/American love baby) il cui cupo sottofondo è rigato dai fasci di luce di automobili lanciate su strade perdute. 
Questo sangue nerissimo scorre in tutte le tracce e si acquieta raramente; in realtà riposa come una seconda coscienza sotto la scorza dei ritmi più lineari, predisponendo a un ascolto solo apparentemente rilassato.
C'è da dire che il Best of non racchiude tutto il meglio dei Morphine. Per ascoltare il meglio occorre ascoltare la discografia dei Morphine; in toto. Potete prendere spunto dal meglio, integrarlo con le splendide frattaglie dei B sides e quindi passare per Good e Yes e arrivare al capolavoro che mette tutti d'accordo, Cure for painIn ricordo di Mark Sandman, che il dio del rock l'abbia in gloria.


martedì 1 ottobre 2013

Nina Hagen - Nunsexmonkrock (1982) : Tu quoque, Nina, filia mea ...


Link rimosso dopo intimazione DMCA
(Prego, ringraziate Nina Hagen)

Chi dice donna dice danno ... avevo appena cominciato una piccola serie di post al femminile, quando la porta del blog è stata schiantata da un giusto calcio legalista (della DMCA) che l'ha mandata in minuscoli frantumi ... Violazione del copyright. Giusto, sono passati appena trentun anni. Sembrano tanti? No, sono pochi. Sembravano tanti solo a me: in fondo Esenin è morto a trenta, Rimbaud a ventisette, Hendrix, Morrison, Cobain e compagnia negli stessi dintorni e guardate quanto hanno scritto e fatto. Ad ogni modo trentuno anni (31) sembrano un bel lasso di tempo per incassare qualche secchiata di dobloni. Occorre poi dire che la porta non ha subito violenza fisica, solo digitale. Anzi, no. Neanche quella. La porta era già aperta per benevola concessione di Blogger, ovvero per concessione di quelli di Google, ovvero i buontemponi che infrangono il copyright su Youtube (pure quello roba loro), ma con il consenso (velato?) degli artisti (e della DMCA) così i guglatori (e gli artisti che piangono miseria) possono fare un bel po' di talleri aggiuntivi (dice il comico: sossoldi) e rifarsi delle spese che hanno sostenuto consentendomi di postare su Nina Hagen, illegalmente. Loro hanno buon cuore, e ti fanno fare le cose gratis, poi ci sono le canaglie che li pugnalano alle spalle come Tepes ...
Comunque mi ravvedo. Ed ecco il post evirato, che mantengo.

* * * * *

Chi guida ha l'indubbio vantaggio di scegliersi la propria musica; chi non guida, per cause di forza maggiore, ha il dubbio piacere di subire le playlist altrui. Non dico che sia sempre un male: si impara da tutti; col tempo ho accettato questa verità, principio della tolleranza.
Qualche tempo fa esercitai il dovere di codesta tolleranza per circa centoquindici minuti; tanti ne occorsero per scavallare dal Lazio verso l'Umbria e, abbastanza incredibilmente, per consumare sino all'ultimo micolo tre CD di una raccolta di successi di Madonna. Le circostanze che mi costrinsero a tale spiacevolezza sono irrilevanti. 
Fu, invece, rilevante la sorpresa nel constatare che una tizia che domina figurativamente e musicalmente la musica leggerissima internazionale da quasi un trentennio abbia lasciato ai posteri davvero poca roba degna d'essere canticchiata sotto la doccia. Non sto qui a sindacare sull'allure charmante della Nostra; indubbiamente irresistibile per il gonzo medio-basso che ormai è legione (recentemente la Ciccone ha aperto una palestra, a Roma, nei pressi del Colosseo: al suo arrivo parecchi fessi erano in lacrime). No, parlo proprio delle cosiddette hit: a parte Material girl e Lucky star, e frattaglie, il resto è una teoria di ammicchi alle mode del momento (la svolta ispanica, ad esempio) con furbesche uscite pour epater les crétins (il bric-à-brac cattolico, le provocazioni finto punk-dance degli inizi, gli accenni all'incesto, all'aborto e a quasi tutte le parafilie sessuali; la pregnanza appaia la saggistica edita su Top Girl o Ragazza Moderna).
Negli stessi anni in cui Madonna cominciava la sua carriera irresistibile, muoveva i primi passi Nina Hagen, anch'essa promanante da un mondo in disfacimento, quello punk; con il punk rovinava l'ultimo tentativo di ribellione comune a livello europeo: all'orizzonte si profilava il vincente edonismo, tuttora vigente. La Hagen agiva al confine fra le due sensibilità: quella morente, in lei più ribellista che ribelle, in realtà, e quella gaudente, disimpegnata e discotecara; una miscela che la berlinese aveva il pregio di filtrare con un'interpretazione polimorfa (memore della tradizione immarcescibile del cabaret politico tedesco) capace di trascolorare follemente da profondi toni androgini, a vocalità infantili, sino all'aria d'opera, alle sguaiatezze beffarde, ai classici toni rock. Antiworld, Smack Jack (gustata su Videomusic trent'anni fa), The future is now, Born xixax sono i capitoli di un'opera che regge solidamente la pressione del tempo trascorso. A differenza di quelli dell'Abruzzese più nota del globo.
Peccato che la Hagen infranse quasi subito quel godibile equilibrio fra residuati estetici dei Settanta e nuove istanze consumiste, consegnandosi, con poca intelligenza, alla dance più grossolana.