martedì 30 agosto 2011

Doldrums - Secret life of the machines (1995)


Justin Chearno (chitarra, dai Pitchblende), Bill Kellum (tastiere e chitarra, proveniente dai Rake), e il batterista Matt Kellum, fratello di Bill, diedero vita, alla metà dei Novanta, ad una delle più apprezzabili varianti della musica cosmica.
I Doldrums rinunciano, diversamente dai gruppi elettronici o da alcuni maestri dei Settanta, alla composizioni avvolgenti e antigravitazionali in cui è impossibile discernere punti di riferimento. Ciò avviene, oltre che per l’impiego di strumenti tradizionali e per l’assenza di campionamenti, grazie all’uso della batteria che impone inevitabilmente una linearità unidirezionale. In Weird orbits, ad esempio, dapprima echeggiano le risonanze dei “vacant interstellar spaces”*, minacciosi ed incombenti, poi l’irrompere delle percussioni dirada l’intensità dell’aura atemporale ed istrada il tutto verso una jam cosmica che si scioglie via via nelle atmosfere iniziali; Colossal scissors vanta una struttura simile: i galattici rumori di fondo, indistinti e sospesi, sono via via scanditi e temporalizzati dalla batteria che accresce e guida il ritmo verso uno straordinario crescendo.
Le restanti due tracce sono dissimili: Prog epilogue, introdotta dal probabile rumore di un tagliaerbe (!), esplode inusitatamente con un indiavolato duetto frippiano di Kellum e Chearno; nella bellissima Knife, Spoon, Zug, anch’essa vagamente crimsoniana, la linearità propria della ballata è interrotta da divagazioni e dissonanze che ne arricchiscono l’andamento freddo, ma perfetto.
Con HTMLosers si ritorna alle atmosfere dei primi due brani (ed allo stesso minutaggio, 15 minuti): sono le chitarre ora a dominare, inizialmente tese e sostenute; poi, allo spegnersi del ritmo, esse si riducono ad isolati raschi e fruscii; quindi gli strumenti tacciono, s’avverte il battere della pioggia, lo sgocciolio delle gronde, i rimbombi di un temporale che s’allontana.       
Preparatorio ai susseguenti e più complessi Acupunture, Feng Shui e Desk trickery, il disco d’esordio dei Doldrums, pur rientrando nell’ormai lasca categoria del post-rock, si distingue per la varietà dell’ispirazione e la semplicità dei materiali ad essa sottesi.

* T.S.Eliot, I quattro quartetti: East Coker, 1940


lunedì 15 agosto 2011

Aksak Maboul - Un peu de l’âme des bandits (1979)


Gruppo di origine belga, fondato nel 1977 da Marc Hollander and Vincent Kenis, e parte, pur nella fase iniziale di smobilitazione, di quella straordinaria koiné musicale europea (consonante negli intenti politici) tuttora poco conosciuta nelle sue articolazioni meno eclatanti.
Gli Aksak esordirono nello stesso anno di formazione con Onze danses pour combattre la migraine, eccellente raccolta di diciassette brani, prevalentemente strumentali e d’ispirazione variegata: dal jazz progressivo da camera a tocchi folk ed etnici a semplici divertissements.
Nel 1978 sono cooptati nel collettivo Rock in Opposition che annovera già Henry Cow, Samla Mammas Manna, Etron Fou Leloublan, Univers Zero e gli italiani Stormy Six*. Esso ambiva a promuovere la musica dei membri in opposizione, appunto, al circuito produttivo commerciale e di mantenere, al contempo, una tensione sociale nello sforzo creativo**. 
Un peu de l’âme des bandits nacque in questo clima da comune bohemienne, e si avvalse di imprestiti eccezionali: Catherine Jauniaux alla voce, Michel Berckmans e Denis van Hecke dei connazionali Univers Zero, il batterista Chris Cutler e il chitarrista Fred Frith degli Henry Cow.
Il disco ci propone subito un capolavoro, A modern lesson. Innervato dalla chitarra atonale di Fred Frith, il pezzo passa dagli urletti accorati della Jauniaux, cui rispondono beffardi fiati ed archi, all’intervento di questi ultimi che si contrappuntano via via al pianoforte, nuovamente ai fiati mentre, in sottofondo, agiscono i rumori di un flipper; una tessitura raffinata che rimane inavvertita poiché risolta brillantemente in un andamento scorrevole quanto arguto. Dopo l’alleggerimento di Palmiers en pots, un delizioso tango paradigmatico, Geistige nacht*** è un’improvvisazione prog-jazz dai toni misteriosi con soli di chitarra e sassofono sugli scudi; I viaggi formano la gioventù****, rielaborazione di ritmi mediorientali, ci lascia impreparati davanti a Inoculating rabies: giustapposizione bizzarra tra un punk sfrenato di Frith e Cutler e accenni di fagotto; Cinema*****, di ventitré minuti, è un patchwork lunare di tutti gli strumentisti, che, a turno, impreziosiscono la suite, ma senza che questa, di nuovo, abbia a soffrire di questa struttura rapsodica. Bosses de crosses, aggiunta nella edizione in CD, suona acerba rispetto alle composizioni precedenti (è uno dei primi lavori), ma rimane pur sempre godibile e congrua all’atmosfera generale. 
Un peu de l’âme des bandits compare nella famosa Nurse with Wound list, ovvero un catalogo di autori in larga parte misconosciuti, ma di valore, che il gruppo d’avanguardia Nurse with Wound elencò sulle copertine dei primi due album (1979-1980). C’è molto da scavare, ascoltare e godere. 292 artisti di cui 15 italiani; allora contavamo qualcosa.

* Gli Henry Cow erano inglesi (e annoveravano la tedesca Dagmar Krause alla voce), Samla svedesi, Etron francesi, Univers Zero belgi e, naturalmente, gli Stomy Six italiani e milanesi.

** Nel 1979, assieme ai nuovi membri Art Zoyd ed Art Bears (che ospitavano membri dei disciolti Henry Cow), partecipano a Milano (Teatro dell’Elfo) ad un concerto programmatico, replicato poi in Svezia ed in Belgio.
*** Notte mentale.
**** Nel primo disco, a riprova del carattere cosmopolita degli Aksak, abbiamo una Fausto Coppi arrive!Milano per caso del jazzista italo-belga Paolo Radoni.
***** Articolata in quattro tempi: Ce qu'on peut voir avec un bon microscope; Alluvions; Azinou crapules; Age route brra! (Radio Sofia).

sabato 13 agosto 2011

Tony Conrad & Faust - Outside the Dream Syndicate (1973)

 

Tony Conrad (1940) è una delle figure di spicco dell’avanguardia musicale e cinematografica di New York dei Sessanta, segnatamente di quella forma artistica che, pur nella variabilità del significato, viene definita minimalista.
Essa consta di due elementi essenziali: l’impersonalità, ritrovata nell’utilizzo di materiali basici dilavati dalla fascinazione del colore e delle simbologie nonché da qualsivoglia tocco decorativo o artigianale che possa intaccare la fredda oggettività della resa artistica; la ripetizione, propria delle produzioni seriali industriali, o dei ritmi percussivi ed ossessivi, che strutturano certe sonorità etniche o artificiali.
Nel cortometraggio conradiano The flicker (1966), ad esempio, in circa trenta minuti, egli si serve di sole cinque inquadrature: le prime tre, sottolineate da una musica da two-reels* comico, consistono in semplici scritte (Tony Conrad presenta, The flicker ed un ammonimento**); le restanti due, accompagnate da una drone-music disturbante, sono un campo bianco e un campo nero che si alternano, con tempi variabili, fino alla creazione di una pulsazione stroboscopica.
In campo musicale Conrad fu un membro dei Theatre of Eternal Music (fondati da LaMonte Young e ribattezzati in seguito come Dream Syndicate) assieme a Terry Riley, Angus MacLise e John Cale. Nel 1972, invitato dal produttore dei Faust Uwe Nettelbeck, incide, assieme a tre componenti del gruppo, Werner Diermaier (batteria), Jean-Hervé Péron (basso) e Rudolf Sosna (chitarra e tastiere), uno dei lavori più puri e memorabili dell’arte minimale***.
Esso consiste in due pezzi di circa ventisei minuti, From the side of man and womankind e From the side of the machine. Nel primo pezzo Conrad, sorretto da una nenia percussiva estrema, estrae dal proprio violino, senza mai staccare l’archetto dalle corde, accordi prolungatissimi suonati con una totale assenza di finalismo melodico. Nel secondo, il lavoro della sezione ritmica e delle tastiere si fa più variato; per ciò stesso il lavoro di Conrad viene liberato dal fardello di una potenziale monotonia: una volta abbandonati al flusso della sua linea strumentale, quasi una cornamusa a corde, veniamo indotti in uno stato di trance evocativa. Proprio qui risiede la feconda contraddizione del minimalismo musicale rispetto a quello figurativo od architettonico: esso ingenera, con lentissime variazioni di temi elementari, deragliamenti dalla pura resa oggettiva e consegue coinvolgimenti emotivi di tipo quasi sciamanico****.
L’edizione in CD per il trentennale regala, oltre alla versione completa di From the side, alcuni cascami di quella storica registrazione rititolati The pyre of Angus was in Katmandu, dedicato alla morte di MacLise (avvenuta nel 1979, sei anni dopo), e The death of the composer was in 1962 che, come spesso accade, hanno semplice utilità filologica e non di arricchimento artistico di ciò che fu già edito.

* Letteralmente due bobine; tale era la consistenza di molti cortometraggi comici muti (16 minuti circa).
** Si avverte che l’effetto stroboscopico può causare attacchi nei soggetti predisposti all’epilessia.
*** Il disco fu così titolato poiché eseguito fuori del gruppo The Dream Syndicate.
****
Alcuni autori, infatti, derivano le loro rielaborazioni da musiche etniche, africane o mediorientali.


venerdì 12 agosto 2011

Missing Foundation - 1933

I Missing Foundation fioriscono nel 1984 ad Amburgo su impulso dall’americano Peter Colangelo*; registrate alcune tracce, poi disperse, Colangelo (meglio noto come Peter Missing) ritorna verso l’odiata madrepatria e, a New York, con nuovi membri, rifonda il gruppo come collettivo antagonista multimediale (egli, peraltro, è pittore e designer).
Il raggio d’azione delle loro lotte sociali è il Lower East Side che essi marchiano con il famigerato stemma The party’s over! (un calice Martini rovesciato sormonta tre linee verticali tagliate da un’obliqua); i Foundation combattono la speculazione edilizia, l’invadenza della nuova borghesia reaganiana, la brutalità delle forze dell’ordine a favore di una prassi conflittuale che, oggi, si potrebbe ricondurre alla glocalizzazione. Tale movimentismo si concretò negli avvenimenti di Tompkins Square Park per cui Missing fu anche indagato dalla Polizia Federale. La zona, di secondaria importanza sino ai primi anni Ottanta, ma focolaio di aggregazioni giovanili e controculturali, fu investita da una crescente speculazione commerciale tesa a riqualificarne l'assetto per renderla appetibile al vincente yuppismo finanziario. Questo fenomeno, noto come gentrificazione, portò alla repressione di tutti i fenomeni alieni a tale nuova composizione sociale ed urbana, tanto da indurre il sindaco Ed Koch a dichiarare il coprifuoco del parco di Tompkins Square (chiusura alle 24.00), usuale ritrovo di anarchici, punk o semplice rifugio per i senzatetto. La misura amministrativa innescò una serie di proteste che, nella notte del 7 Agosto 1988, sfociarono in aperti scontri con la polizia che, intervenuta in massa, trasformò i tafferugli in un pestaggio indiscriminato.
In tale contesto, di assoluta negazione della realtà sociale maggioritaria, si sviluppano le tracce sonore dei Missing Foundation, virate verso un primitivo noise industriale.
Kingsland 61 è puro sfogo composto da urla e tonfi; in Journey from the ashes, At the gates, Invasion of your privacy le cieche invettive da prete spretato di Peter Missing vengono doppiate da un tambureggiare pervasivo ed assillante; Death of a wolf è un rapido sferragliamento, CIA world’s fair, sostenuta dai borborigmi del basso, è l’ennesima disperata enciclica alla Throbbing Gristle; anche le canzoni meglio costruite (Martyr of the city, Jameel’s turmoil e, sopra tutte, Burn trees), in cui è possibile rintracciare la struttura dell’hardcore, sono però sovrastate, ancora una volta, dalle percussioni tribali di Chris Egan e dalle liturgie post-industriali del cantante.
I Missing Foundation individuarono, nell’ambito metropolitano, la decadenza del sentire comunitario indotta dalle nuove dinamiche economiche; disinteressati all’analisi ed all’elegia, materializzarono in questo album lo sconforto e la rabbia per l’avanzata dei nuovi conquistatori del capitale, consustanziali alle forze politiche tradizionali. Circa un decennio più tardi, a Seattle, e, nel 2001, a Genova, le loro istanze sarebbero divenute tema di dibattito universale.

* Vi militava Mark  Chung, poi bassista negli Einstürzende Neubauten.

giovedì 11 agosto 2011

Bobby Beausoleil - Lucifer rising (1980)


Lucifer rising è, innanzitutto, la colonna sonora di una pellicola eccezionale; in secondo luogo coinvolge una tale serie di personaggi da essere, inconsapevolmente, uno studio su larga parte della controcultura americana al suo disfacimento.
Kenneth Anger (1927), cineasta indipendente, esoterista, scrittore pettegolo nelle due crudeli edizioni di Hollywood Babilonia, concluse con questo suo sesto cortometraggio (circa mezz’ora) il Magick Lantern Cycle, di cui fanno parte anche Inauguration of the Pleasure Dome e Fireworks. Il film, influenzato dalla simbologia magica di Aleister Crowley e assolutamente scevro da connotazioni teologiche tradizionali, innalza un inno al progresso dell’umanità che può trarre linfa dalle forze occulte nella propria anima. Sarà Lucifero, evocato, a risvegliare la scintilla indistruttibile ed immortale in noi prigioniera, una volta depurate le apparenze transeunti. Un insegnamento millenario di salvazione, proprio, peraltro, delle prime dottrine gnostiche.
L’opera fu concepita nel 1967; un primo abbozzo fu rubato, pare, da Bobby Beausoleil. Con il metraggio superstite fu allestito Invocation of my demon brother (1969), con i Rolling Stones protagonisti. Lo stesso Jagger approntò la colonna sonora suonando il moog*.  Nell’estate dello stesso anno Beausoleil fu arrestato (e poi condannato a vita) per un omicidio commesso su istigazione della cerchia di Charles Manson. Anger, per le musiche, dapprima si affidò a Jimmy Page***, poi, pare, deluso dai risultati, nuovamente a Beausoleil. Nel 1980 fu presentata l’edizione definitiva del film**. 
Lucifer rising è una sinfonia psichedelica, articolata in sei movimenti, e si attaglia perfettamente alla pellicola definendone ulteriormente l’evocatività. Il movimento 1 sottolinea le fulminanti e quasi subliminali associazioni di Anger (l’eruzione dell’Etna, lo schiudersi di uova di coccodrillo); il bellissimo gioco delle tastiere di 2 fa da sfondo alle invocazioni, ambientate tra le rovine egizie, per il risveglio di Lucifero da parte di Iside e Osiride, coppia sacra simboleggiante, rispettivamente, i poli della fecondità e della morte; 3-4-5, segue, dapprima con toni lunari ed ipnotici, il risveglio di Lilith, figura precedente ad Eva, femminino puro indipendente dalla tradizione patriarcale (che la trasformò in demone); quindi, con ritmi più concitati, il rito per la definitiva irruzione di Lucifero-Horus-Cristo**** nel mondo, officiato da un mago e dal suo adepto (tramiti tra il dio della luce e l’uomo): pentacoli, tocchi kitsch, omaggi a Crowley si alternano ad immagini di complessi megalitici, processioni misteriche, rivoluzioni naturali. Ritorna quindi il secondo movimento per sottolineare il finale straordinario: un disco volante sorvola le rovine del tempio di Luxor. Tutta la simbologia religiosa umana di ogni tempo non può che riferirsi all’unica verità degna di venerazione: dai druidi all’antico Egitto al futuro essa è presente eternamente sotto le spoglie del contingente e addita la via alla rinascita (Iside brandisce l’ankh, geroglifico e segno di vita eterna). 
Scheggia lisergica dei Sessanta, impregnata di umori eccentrici e financo malsani, Lucifer rising vide la luce proprio all'alba della presidenza Reagan e della conseguente liquidazione del ventennio freak. Un film e una musica fuori tempo, prodotti da un milieu artistico irripetibile; per ciò stesso degni delle rivelazioni ultraterrene cui alludono.


* A completare: il corto vede la compresenza dei Rolling Stones e degli Hell’s Angels, poco tempo prima del concerto di Altamont in cui un membro del servizio d’ordine degli Angels assassinò un diciottenne. In seguito all’evento gli Stones si rifiuteranno di suonare, per anni, Simpathy for the devil, canzone incoraggiata ed ispirata proprio da Anger.
** La colonna sonora fu edita in doppio CD solo nel 2004.
*** Un Page barbuto compare brevemente nel film assieme a Marianne Faithfull e Chris Jagger, fratello di Mick.

**** Iside ricompose il corpo di Osiride smembrato da Seth. Dall’unione nacque Horus. L’identificazione tra Horus e il Cristo è nota in ambienti esoterici, ma non scientifici.

mercoledì 10 agosto 2011

Warhammer 48K - An ethereal oracle (2006)

I tempi sono gravidi di sciagure: “i cieli, sconvolti per l’azione dell’uomo, minacciano questo sanguinoso teatro!”*; la città di Columbia (Missouri)**, e l’intero Midwest americano sono stati polverizzati da un attacco nucleare. Un gruppo di superstiti si aggira fra paesaggi sbriciolati e radioattivi, reperti anacronistici e razze mutanti; l’insorgere di nuovi culti post-atomici sostituisce le vecchie credenze ormai inservibili e fraudolente.
L’anno è l’ominoso 2012 (i Warhammer lo stampano sin sulla grancassa) ed An ethereal oracle, suddiviso in nove pezzi senza titolo, è il resoconto sonoro di queste immaginarie cronache del dopobomba. 1 esordisce con un annuncio radio in cui un militare, come in un film di George Romero sui risorgenti, rende conto della situazione; la trasmissione è presto soffocata dalle urla dei superstiti mentre la sezione ritmica entra e comincia a menare randellate. In 2 il cantato viene progressivamente insidiato e quindi soverchiato dalla chitarra per poi improvvisamente ricomporsi e spegnersi nei suoni di un paesaggio palustre; ma è un’illusione: un micidiale giro di basso introduce e sostiene il potente strumentale 3 che, a sua volta, apre la strada a 4, forse la traccia rivelatrice della versatilità di questo gruppo: la linearità quasi progressive dell’inizio è sconvolta dalle distorsioni chitarristiche che, scombinando le carte e velocizzando il tutto, porta al collasso la canzone sino al sabba finale con urla dannate alla Khanate. 
5 è l’intelligente cesura che, al netto di un inizio noise, consente di ripigliare fiato. 6 si struttura in modo anzidetto: l’andamento regolare e caratterizzante viene spezzato sino al deragliamento risolto in distorsioni e gorgoglii. 7 vanta, come contrassegno, rimbombi di basso e  percussioni: sostrato di un breve concerto da camera per sega circolare; 8 è la traccia monotona del disco, mentre 9, come di consueto, vede il ritmo accelerare in un vortice di riff sino alla brutale cesura.
L’univocità dell’ispirazione garantita dall’idea di fondo consente ai Warhammer 48K di poter variare, all’interno del singolo pezzo, i toni più prevedibili e bruciare, quindi, la trita aspettativa di genere (come in 4 e 6). Il progetto parallelo Cave, con la restaurazione di certo progressive lineare alla Neu, in special modo nell’eccellente Pure moods, confermerà tale ammirevole predisposizione all’eterodossia. 

* Macbeth, II, 4
** Terra d’origine dei Warhammer 48K.

lunedì 8 agosto 2011

Nadja - Radiance of shadows (2007)

Il 6 Agosto 1945, un Lunedì, e il successivo Giovedì 9, le due città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki e i loro duecentomila abitanti vennero vaporizzati da due ordigni atomici, Little boy e Fat man, sganciati rispettivamente dai bombardieri statunitensi Enola Gay e dal Boeing B-29 Superfortress.
Il fisico americano Robert Oppenheimer (1904-1967), direttore scientifico del Progetto Manhattan di armamento nucleare, poche settimane prima, di fronte all’enormità delle conseguenze della propria ricerca, aveva dichiarato: “Ora io sono diventato Morte, il distruttore di mondi”*. La sentenza, tratta dal Bhagavad Gītā, il sostrato teologico più rilevante dell’induismo, fornirà ai Nadja materiale per uno dei capolavori doom-shoegaze del decennio passato.
Nato come progetto solista del canadese Aidan Baker (voce, chitarra, tastiere), Nadja si arricchì di un secondo membro, Leah Buckareff (voce, basso), per le esibizioni dal vivo. Gruppo sin troppo prolifico, nel 2007 diede alla luce i suoi migliori lavori, Thaumogenesis, Guilted by the sun e, appunto, Radiance of shadows.
Quest’ultimo si articola in tre possenti composizioni (rispettivamente 23, 27, 29 minuti circa).
La prima traccia, Now I am become death the destroyer of worlds, inizia lentamente, a simulare l’arrivo della morte dal chiaro cielo agostano; viene quindi scandita dal pesante incedere degli strumenti (i colpi di un destino ineluttabile) per poi rallentare nuovamente: l’attesa prima della deflagrazione; quindi l’epifania atomica vera e propria risolta musicalmente con un clamoroso scrosciare chitarristico che sembra allargarsi all'universo tutto**. 
I have tested the fire inside your mouth è una canzone d’amore ("I have tested the fire inside your mouth/I have turned beneath the touch of your tongue/I am blinded by the radiance of your eyes/I am turned to dust by the heat of your breath, sospirano i quattro versi), ben presto stravolta da vaste distorsioni e da ininterrotte praterie chitarristiche poi sviluppate in un crescendo stordente, che i Nadja intermezzano, tuttavia (come in Now I am become) con accorti rallentamenti.
Anche Radiance of shadows si struttura con flebili accordi di chitarra (una dichiarazione d’amore alla Cronenberg prima maniera***) interrotti ex abrupto da accensioni sonore devastanti; ed anche qui una cacofonia quasi insostenibile occupa la seconda parte del brano per sciogliersi nel tema iniziale. 
Una certa ripetitività compositiva, seppur abile (si alternano momenti di stasi, ritmiche marziali ed amplissime distese elettriche) viene riscattata dalla forza debordante dell’esecuzione che, specialmente nella prima traccia, assurge ad altezze quasi titaniche.

* La frase esatta: “Se la brillantezza di mille soli bruciassero in un istante nel cielo, quello sarebbe come lo splendore dell’Unico … Sono diventato morte, il distruttore di mondi”. Sulla morte dal cielo rimandiamo ancora a Sven Lindqvist, A history of bombing, 1999 (tit.it., Sei morto! Il secolo delle bombe, 2001)
** Lo schema si ripete tre volte nell’arco dei circa ventiquattro minuti
*** Già comparsa in un EP del 2003

**** “Reduced to subatomic particles/Leeching thru your skin/I scrawl my initials/In your DNA and change you/As you change me".



domenica 7 agosto 2011

Louise Brooks (14 Novembre 1906 - 8 Agosto 1985)

 Riproduco la biografia dell'attrice Louise Brooks, scritta dodici anni fa per il sito a lei dedicato. 

Mary Louise Brooks nasce a Cherryvale, nel Kansas, il 14 Novembre 1906. Il padre, Leonard Porter Brooks, è un onesto avvocato di provincia; la madre, Myra Rude, donna colta, amante della musica classica e delle buone letture, avrà una grande influenza sul carattere di Louise spingendola, peraltro, sin da giovanissima, alla danza.     Infatti, a soli quindici anni, Louise abbandona il liceo per recarsi a New York dove entra a far parte della compagnia Denishawn. Da qui allontanata a causa del suo atteggiamento insofferente e anticonformista, lavora dapprima per George White's Scandals, quindi, dopo una breve parentesi al Café de Paris a Londra, viene ingaggiata nelle Follies di Florenz Ziegfeld.
Spirito erratico e mutevole, Louise riesce a distinguersi nella vita mondana per la franchezza disarmante delle battute, inusuale in una giovanissima provinciale, che, in un ambiente di ipocrisie e verità sottaciute, viene presa per snobismo o insolenza: "feci il mio ingresso nel mondo con una radicale abitudine alla verità che ha automaticamente eliminato dalla mia vita quella piatta monotonia che devono provare i bugiardi (...) e così sono rimasta, in una crudele ricerca di verità e perfezione, come il carnefice inumano di ogni ipocrisia , evitata da tutti, tranne da quei pochi che hanno vinto la propria avversione alla verità per poter liberare quanto di buono c'è in loro".
Tuttavia il carattere irriducibile e disinibito fa della Brooks il prototipo perfetto della ragazza flapper, caratteristica che riuscirà a trasferire nelle prime commedie della propria carriera cinematografica. La flapper girl, ispirata da una novella di Francis Scott Fitzgerald, This site of Paradise, si distingue per la gioventù, l'indipendenza, la capricciosa volubilità e fiducia nel futuro nonché per l'assenza delle tradizionali virtù femminili (quali la fedeltà) e, nel tipo fisico, per una figura snella e quasi da ragazzo sottolineata dal corto taglio di capelli acconciati a caschetto.
Dopo l'esordio cinematografico nel 1925 in The street of forgotten men, grazie anche all'amicizia col produttore Walter Wanger, Louise gira A social celebrity con Adolphe Menjou, quindi It's the old Army game con W. C. Fields sino a Love 'em and leave 'em, il miglior film del periodo di New York.
Louise fissa definitivamente il tipo della maschietta anni '20 : il caschetto di capelli neri e lisci, gli occhi vivissimi e una vitalità irrefrenabile; nel film, dove interpreta la pestifera sorella minore della virtuosa Evelyn Brent, semina a ripetizione seduzioni, fatali intrighi, falsi pentimenti e malversazioni con deliziosa amoralità (restando oltretutto impunita): il versante leggero dell'età del jazz si ritrova anche qui.
Nel luglio del 1926 Louise sposa il regista Eddie Sutherland che, come quasi tutti, si era innamorato a prima vista, accettando, come suo solito, con svagata avventatezza: "[lo sposai] perché era un uomo attraente che mi aveva ricoperta d'oro. Apparteneva anima e corpo a Hollywood, e io, là, mi sentivo un'estranea: lui amava le feste, io la solitudine".
La Brooks non credette mai nel matrimonio (nell'ottobre del 1927 aveva intrecciato una relazione con l'uomo d'affari e cinefilo George Marshall) e nell'aprile del 1928 divorzierà, abbastanza tumultuosamente: appare comunque già qui la sua insofferenza per l'impersonale macchina hollywoodiana rispetto ai giorni felici di New York.
Un'insofferenza che si tramuterà poi in ripulsa esistenziale come testimonierà decenni più tardi in una memorabile lettera a Guido Crepax (il personaggio di Valentina è, infatti direttamente ispirato da Louise). Il 1928, comunque, fu un anno di svolta per la carriera cinematografica della Brooks: infatti gira Beggars of life di William Wellman e A girl in every port (Capitan Barbablù) di Howard Hawks. Il primo film rappresenta la migliore prova drammatica dell'attrice in terra americana: Louise interpreta il ruolo di una ragazza che, ucciso il patrigno che voleva abusare di lei, sarà costretta a fuggire, vestita da uomo, assieme ad un altro vagabondo da poco conosciuto. L'avvio, quasi chapliniano per certi toni melanconici e randagi, é pervaso dall'insinuante erotismo dettato dal contrasto tra la morbida e minuziosa bellezza di Louise e il suo dimesso abbigliamento maschile. La seconda parte risente della pervasiva gigioneria di Wallace Beery e, tuttavia, la scena in cui i vagabondi improvvisano una Corte di Giustizia sul treno (tre anni prima di M) e il tono generale del film che anticipa certi temi della Depressione lo impongono come pellicola da scoprire e, negli USA, da riscoprire (c'è da dire che Louise elogiò con enfasi Beery sino a definire la sua caratterizzazione "un piccolo capolavoro"). In A girl in every port, il maggior successo muto di Howard Hawks, torna a vestire i panni della seduttrice seminando discordia tra i due marinai Victor MacLaglen e Robert Armstrong.
Lo spettatore più interessato all'interpretazione di Louise sarà però il regista austriaco G. W. Pabst che, con intuizione felicissima, la vorrà per il ruolo di Lulu in Die Büchse der Pandora (Lulu o il vaso di Pandora), trasposizione cinematografica dei due drammi di Frank Wedekind  Il vaso di Pandora e Lo spirito della terra.
Louise sarà la protagonista assoluta del film e regalerà un'interpretazione leggendaria che può anche essere letta come una sintesi della sua vita e delle sue pulsioni più segrete.
Lulu rappresenta davvero lo spirito della terra, un erotismo immediato, elementale, fuori dalla società e dalla storia; in Lulu tutti si perdono poiché il suo istinto non conosce mascheramenti o valori, e gli uomini che si imbattono in lei, che in essi e per essi vivono, riconosceranno in Lulu la falsità della vita normale e la propria perdizione.
Non a caso l'unico personaggio a lei pari sarà il suo assassino Jack lo Squartatore, anche lui un outcast , un reietto: durante il loro incontro fatale Lulu si donerà assolutamente, sino alla morte (tanto che nel prostituirsi a lui non aveva chiesto denaro), mentre Jack non potrà che prenderla nel modo più estremo. Nel film, che procede per quadri descrittivi, per slanci improvvisi, le istituzioni vengono necessariamente svelate nella loro menzogna, dall'arte (il teatro, la rivista) al matrimonio, dal mondo degli affari (rappresentato da Schön) alla Giustizia (nella scena del processo), dalla putrescenza dell'aristocrazia alla ipocrita filantropia dell'Esercito della Salvezza sino al pervertimento del sesso. Se storicamente Lulu decifra il disagio della Germania pre - hitleriana, esso può venir letto come uno scontro tra una civiltà che mente a sè stessa per sopravvivere e la vera ed aspra natura umana.
Nel successivo capolavoro di Pabst il personaggio di Louise Brooks si raffina ed il tono appare più controllato rispetto all'incandescenza del film precedente.  Infatti in Das Tagebuch einer Verlorenen (Diario di una donna perduta) la protagonista Thymian è, al principio, nettamente inserita nella società borghese: solo dopo esserne stata espulsa in nome di una rispettabilità esteriore (viene infatti sedotta e messa incinta) saprà riconoscerne la sostanziale falsità. Non solo, ma ciò che la società addita come male (in questo caso il bordello) appare invece come fondamentalmente sincero e riposante rispetto all'inferno delle istituzioni classiche (la famiglia, la Casa di correzione, le dame di carità...). Appare: il breve attimo in cui Thymian riconosce una piega avida nella bocca della tenutaria del bordello (e Thymian passa dal sorriso alla tristezza), danno il senso del film: non c'è differenza tra bene e male: tutto è involto nella meschinità del male, senza salvezza. Il finale, con la redenzione, conferma paradossalmente le scene che lo precedono. Thymian, insomma, è una Lulu consapevole.
Da notare che il film, censuratissimo, è ancora più radicale nella versione originale dove Thymian, con simmetrico rigore, diviene la tenutaria del bordello ponendosi così in perfetta, bensì apparente, contrapposizione al perbenismo dominante.
Hollywood non attira Louise, così, nel 1930, ella gira, a Parigi,
Prix de beauté (Miss Europa), per la regia del nostro Augusto Genina (su sceneggiatura di Pabst e René Clair). Il film parla di una modesta impiegata che, vinto un concorso di bellezza ed entrata nel mondo dello spettacolo, grazie anche alle lusinghe di un principe, verrà poi uccisa dal marito, incapace di rassegnarsi a perderla.
La sola presenza della Brooks basta a giustificare la pellicola: è il suo semplice esserci a sprigionare una sensualità diffusa e impalpabile fra le eleganti ambientazioni costruite da Genina; e l'indimenticabile sequenza finale illumina retrospettivamente il film accendendolo di toni melodrammatici e simbolici: Lucienne - Louise verrà infatti uccisa mentre assiste ad un filmato dove lei stessa recita. Quando Lucienne giacerà morta la sua immagine sullo schermo continuerà a sorridere ed a cantare.
Il contrasto simbolico tra caducità e grettezza del reale e inalterabilità dell'arte diverrà, in seguito, anche l'involontaria epitome della vita di Louise Brooks la cui icona rifiuta il tempo e sta indifferente di fronte a qualsiasi giudizio di valore.
Interessante ricordare ora la succitata lettera a Guido Crepax: "[...] c'è stato un momento a Parigi nel 1929, quando giravo Prix de beauté e vivevo in pace con me stessa: credo che fosse perché non parlavo il francese. Il fatto di essere perduta era perfettamente naturale tra quelle persone con cui non potevo esprimere né pensieri nè sentimenti [...] Ricorda che quando tornò il figliol prodigo il padre disse : 'era perduto ed è ritrovato'. Fu il padre a trovare il figlio perduto: In certo modo mi è mancato questo esser ritrovata."
Louise Brooks si considerava irrimediabilmente perduta e anelava, senza saperlo, alla propria autodistruzione: i seguenti anni congiureranno velocemente a questo.
Nel 1930 rifiuterà di doppiare un suo precedente film muto, The Canary murder case, (La canarina assassinata), tratto da un romanzo giallo di S. S. Van Dine, e si attirerà la vendetta degli studios hollywoodiani.
La sua parte verrà doppiata (male) da Margaret Livingston e contribuirà a creare la fama che il declino della Brooks fosse dovuto alla sua pessima voce incompatibile con l'avvento del sonoro. Il film rimane comunque memorabile a causa di Louise e del suo costume da canarina ideato dal figurinista Travis Banton.
Da notare che, finita la spensieratezza degli anni '20, il pubblico della Depressione sembra orientarsi su attrici più clamorosamenti fatali. Come ammetterà la stessa Louise in un articolo su Marlene Dietrich: "Le attrici brune, di piccola taglia si eclissarono o si fecero bionde e si ridisegnarono le loro sopracciglie con archi stretti e con false ciglia. Davanti alla macchina da presa lanciavano in primi piani sguardi misteriosi, gettando la testa indietro ad ogni momento e afflosciandosi su letti o divani, prive di difesa". 
Sarà proprio da un tipo d'attrice come quello appena descritto che Louise si vedrà soffiare il posto come protagonista di The public enemy (Nemico pubblico) con James Cagney. Il regista William Wellman si era ricordato di lei, ma la Brooks decise che era meglio correre tra le braccia di George Marshall (o fu forse lui a consigliarla in tal senso) che girare un film che si rivelerà storico. Louise girerà alcuni film anonimi (nel 1935 non si concretizzerà un film con Pabst e la Garbo), si risposerà e divorzierà nel giro di alcuni mesi, e poi scomparirà per tornare, nel 1936, con due western, Empty saddles, e Overland stage raiders, con un giovane John Wayne.
Overland sarà l'ultimo film della Brooks: a soli trentadue anni la divina Louise è un'attrice finita e una donna profondamente sola.
Nel 1940 apre una scuola di danza a Wichita che terrà sino al 1943 quando si trasferirà New York: "[...] mi resi conto che l'unica carriera ben retribuita che mi si offriva era quella della squillo. Cancellai il mio passato, mi rifiutai di vedere i pochi amici che mi legavano ancora al mondo del cinema, e cominciai ad affezionarmi a delle bottigliette piene di piccoli sonniferi gialli".
Louise cerca ancora l'oblio, la dimenticanza, ma sarà la grigia quotidianità a scovarla. E' costretta a lavorare alla radio in alcune soap operas, per la pubblicità e ai grandi magazzini Saks, presso il negozio della Fifth Avenue (lei, che era inetta al lavoro manuale).
Lasciato l'impiego nel 1948 si accontenterà di essere mantenuta da alcuni ricchi amici sino al 1955 quando un doppio avvenimento segnerà il resto della sua vita. Infatti, a Parigi, il direttore della Cineteca Nazionale, Henri Langlois, in occasione della mostra 60 ans de cinéma, non solo riproporrà i suoi film dimenticati, ma userà il suo volto come simbolo della mostra stessa (assieme a quello di Renée Falconetti). Interrogato in merito all'esclusione di attrici come Marlene Dietrich e Greta Garbo, il vulcanico Langlois, fine conoscitore del periodo muto, risponderà:"Ma quale Dietrich, ma quale Garbo, c'é solo Louise Brooks!".
Ma un altro incontro si rivelerà decisivo (e fatale), quello con James Card, il fondatore, nel 1947, della cineteca della George Eastman House e, come Langlois, profondissimo conoscitore e ricercatore del periodo muto. Card, figura affascinante e passionale, non solo le aprì le porte degli archivi  (dove vide per la prima volta le sue pellicole), ma, colpito dalla qualità della sua prosa, la incoraggiò a scrivere.
Louise, che aveva già distrutto una propria autobiografia, Naked on my goat, comincerà a comporre articoli su Bogart, Lillian Gish, Chaplin, Buster Keaton, pubblicati su riviste come Positif e Sight and sound, con uno stile difficilmente definibile e di alto livello letterario.
Viene alla mente un' espressione foscoliana: "calore di fiamma lontana"; in scritti come Marion Davies' niece, ad esempio, dedicato alla morte dell'amica Pepi Lederer, si ritrovano infatti inseparabilmente frammisti autobiografismo e pettegolezzo fintamente svagato, l'ironico distacco (a volte feroce verso se stessa) e la nostalgia per un tempo e una giovinezza ormai perduti per sempre.
Non a caso Louise nutrirà sempre un amore inestinguibile per la Recherche di Marcel Proust: sapeva quindi del conforto e del dolore della memoria.
Nel 1956 Louise si era definitivamente trasferita a Rochester (New York) dove rimarrà sino alla morte conducendo una vita riservatissima (come rarissima eccezione un viaggio a Parigi nel 1958 dove stringerà amicizia con Lotte Eisner). Nel 1979 Kenneth Tynan le dedicò un lungo articolo sul New Yorker che la fece riscoprire presso il grande pubblico; nel 1982 fu pubblicato con successo Lulu in Hollywood, una raccolta di suoi scritti; si rifiutò sempre di pubblicare una sua autobiografia come spiegò coerentemente nel bellissimo Why I'll never write my memoirs. Come confesserà a Lotte Eisner: "scrivere la verità per lettori nutriti dalle sciocchezze della pubblicità è un esercizio senza senso". 
Gravemente malata per un enfisema, non acconsentì a lenire i dolori con i farmaci rimanendo lucida sino alla fine. Muore l'8 Agosto 1985.

B.A.L.L. - Hardball (1990)


J
ay Spiegel (batteria), Don Fleming (chitarra) e Mark Kramer (basso)* costituiscono, ad onta dei nomi coinvolti, uno dei gruppi più misconosciuti della fine degli Ottanta.

D
on Fleming era reduce dall’esperienza dei Velvet Monkeys in cui tentava di riesumare bizzarramente certo pop psichedelico dei Sessanta; Mark Kramer, noto come Kramer, hippie e libertario, in attesa di divenire il santone dell’underground di New York, poteva già annoverare collaborazioni disparate: Eugene Chadbourne, John Zorn, Butthole Surfers e, soprattutto, Ann Magnuson con cui, a nome Bongwater, partorì almeno un capolavoro.
I
l disco, il loro quarto, è il trionfo di Don Fleming. Può sommariamente dividersi in due parti: la prima è composta da cinque rock ‘n’ roll scatenati la cui struttura basica è già corrosa dalla sua chitarra acidissima; la seconda da una suite articolata in cinque tracce strumentali in cui Fleming si lancia come un piromane in un fienile. In tutte egli non stacca mai la presa; le attraversa come un fulmine globulare impazzito che ustiona tutto ciò che lambisce. La coda R.I.P., che funge da sesta parte della jam, fu davvero l’epitaffio del gruppo, già scioltosi quando il disco usciva nei negozi.
La versione in CD arricchisce questo campionario con otto brani, sette da Period (1987) e uno da Bird (1988). Di queste solo Caveman, con le sue percussioni selvagge, e l’incedere implacabile di I can never say possono coesistere con i pezzi dell’Hardball LP. Gli altri sono episodi minimi, seppur brillanti (Always, The French), di poco più d’un minuto, incapaci di spingersi oltre lo spunto.

* Nei primi tre album figurava come secondo batterista David Licht, sodale di Kramer.

venerdì 5 agosto 2011

Les Rallizes Dénudés - '77 Live (1977)


Prima dell’avvento della Rete le mappae mundi critiche contemplavano poche terre conosciute, quasi esclusivamente di lingua anglosassone; la periferia di questo mondo felice, su queste cartografie altrettanto felici, andava sbiadendosi a mano a mano che ci si allontanava dal centro. Lande spopolate musicalmente, dove scorrazzavano serpenti bicefali, fenici, chimere e, naturalmente, leoni.
Oggi quelle terre compaiono su tutti i Baedeker di chi ama la buona musica. Semmai è il centro ad aver subito qualche ridimensionamento. A ben guardare, tuttavia, il Giappone ne ospitava almeno uno, di quei mostri leggendari, con tanto di squame e corna. Nome: Mizutani Takashi.
Paludato in nero, aria vagamente blasé, silenzioso e nichilista, ammiratore di Sartre e Derrida (o, azzardo, di Debord), seguace delle istanze rivoluzionarie dei Sessanta, componente dell’Armata Rossa Giapponese, rifiutò di far parte del commando che il 31 Marzo 1970 dirottò il volo 351 verso la Nord Corea*. Moriaki Wakabayashi, il bassista del gruppo, invece, ne fu partecipe entusiasta, spada in pugno. Inseguiti dall’Interpol, i componenti dell’Armata, tra cui il Nostro, si diedero alla clandestinità. Mizutani riemerse alla vita pubblica qualche tempo dopo e riaccese il proprio progetto, Les Rallizes Dénudés**, attivo sin dal 1967. Questa brevissima aneddotica serve, oltre a delineare una individualità altrimenti indefinibile ed esemplarmente antispettacolare, a comprendere il crescente flusso d’interesse verso le sue opere.
I Rallizes realizzarono principalmente dischi live e la loro fama riposa su di essi, nonché su una nutrita e pericolante serie di bootleg, quasi tutti, gli uni e gli altri, registrati in modo infame. Inutile esercitare una filologia; lo sforzo naufraga tra segni Hiragana, anni di pubblicazione contrastanti, omissioni, canzoni ripetute con diversi titoli ... ’77 Live (Tachikawa, 12 Marzo) ha sicuramente il pregio di introdurre a sette classici del loro repertorio come Night of the assassins, Night harvesters o The last one (ventuno minuti in questa versione) – classici che i Rallizes, nel corso di trent’anni di carriera, riaggiorneranno ossessivamente.
Lo schema delle canzoni è riconoscibilissimo. Mesmerica linea di basso, batteria e ritmica nel mucchio, e, sopra tutto, la voce e il torrenziale feedback di Mizutani, irriducibilmente low fidelity: un’ora e mezza di frastuono irriferibile.
L’avventurosità delle loro altre creazioni (edite in maniera brutale e vendute a peso d’oro), gli entusiasmi di Julian Cope nel suo Japrocksampler, la penuria d’informazioni, ne hanno accresciuto ulteriormente il culto***. In attesa di un Max Brod che riordini i suoi taccuini sonori, Mizutani attende impassibile gli eventi con una Gitane d’importazione tra le labbra.

* Il volo, che ospitava alcune personalità di rilievo, tra cui un arcivescovo, fece scalo dapprima in Sud Corea.

** Pare che il nome sia una “storpiatura di "valise denudé" (="valigia vuota"), espressione in finto slang francese adottata dagli studenti membri di Gendai Gekijo (comune artistica di Kyoto attiva fin dai primi anni Sessanta, caratterizzata dall'obiettivo di rivoluzionare il teatro tradizionale giapponese negandone l'estetica esistente fino ad allora) volta a definire una persona vanesia e indegna di considerazione”. Cfr. Mattia Paneroni, http://www.ondarock.it/altrisuoni/rallizes.htm

*** Citiamo, tra le cose eccellenti, almeno Double Heads, Wild trips e Yodo-Go-A-Go-Go.
Yodo-go fu il grido di battaglia dei dirottatori anzidetti

giovedì 4 agosto 2011

Labradford - Prazision LP (1993)


Carter Brown (tastiere) e Mark Nelson (chitarre), da Richmond (Virginia), in questo loro esordio riportarono in voga l’avanguardia tedesca dei Settanta, declinandola secondo i toni cosmici di Klaus Schulze o certe atmosfere pacate ed equoree dei Popol Vuh.
Tale ambiguità può essere colta con chiarezza nei primi due pezzi: in Accelerating on a smoother road una tastiera sommessa sostiene la voce e gli elementari accordi della chitarra ritmica; in Listening in depth, invece, il sintetizzatore di Brown suggerisce le profondità interstellari accompagnato da sequenze ripetute ed ossessive.
Di seguito l’album conferma di strutturarsi su tale visione anfibologica, basata, forse, sulle differenti personalità degli autori. Disremembering, Splash down, Soft return, Everlast appartengono al primo gruppo: in Splash down la voce e la chitarra di Accelerating si sublimano in un crescendo tipico della kosmische musik; in Disremembering il cantato si riduce ad un filo recitativo con la sei corde di Nelson ad assolvere l’onere dell’istanza evocativa; Soft return è una eterea cantilena recitata in un soffio tra campanelli da slitta natalizia; nel brano di chiusura Everlast le soffici onde delle tastiere si sviluppano su di un tappeto chitarristico la cui eco pare espandersi lenta come pulviscolo galattico.
Si entra nei toni del secondo gruppo con Sliding glass, dove una sorta di risucchio stellare in sottofondo intimidisce i basici accordi del duo, adesso giocati con accenti più ansiosi. In Experience the gated oscillator è la chitarra a sferragliare lontana e minacciosa mentre Brown fa borbottare tastiere e droni in primo piano con variazioni minime; l’apice si tocca coi nove minuti di Skyward with motion: i Labradford riescono a suggerire un paesaggio spaziale freddo e indifferente, teatro di una continua morte e rinascita della materia, in cui interi mondi e destini vengono annientati per permettere lo sbocciare di nuove esistenze; un breve tour de force paragonabile alla Stargate sequence di 2001: Odissea nello spazio.
L’arrivo del bassista Robert Donne nel susseguente A stable reference e nell’omonimo del 1996 consentirà al duo di approfondire ancor di più le suggestive risonanze di Prazision, che rimane unico, tuttavia, nella sua splendida ispirazione bifronte.


mercoledì 3 agosto 2011

Lightwave - Mundus subterraneus


         
Il padre gesuita Athanasius Kircher (Geisa, 1602 – Roma, 1680) compose il suo Mundus subterraneus nel 1665, poco più di un secolo dopo la nascita di Galileo Galilei (1564) e presumibilmente nell’anno in cui la seconda mela più famosa della storia colpiva il cranio augusto di Isaac Newton. Eppure egli non fu uomo di scienza e di cimento; la instancabile curiosità lo spinse dallo studio dei geroglifici, del magnetismo, della geologia sin alla sinologia maturando opere erudite da valutare con lo stupore che si riserva ai bestiari e ai lapidari del Medioevo.
La grandezza dei Lightwave* consiste nell’aderire perfettamente a tale considerazione estetica; essi leggono il Mundus come l’inattuale relitto di un mondo storicamente superato, ma, proprio per questo, assolutamente fascinoso**. La opportuna inservibilità scientifica del testo lo derubrica a catalogo di fenomeni***: la topografia di laghi e fiumi, la fisica delle maree, il labirinto dei fuochi ipogei, le eruzioni dei vulcani sulle cui pendici si annidano draghi; di tutto questo i Lightwave si impadroniscono sin dalla prima, magnifica traccia, De motu pendulorum, con cui aprono le porte della propria Wunderkammer, articolata in dieci pezzi.
E come in una camera di curiosità fantastiche (Cabinet de curiosités 1 e 2) passiamo incantati da astrolabi a corpi sotto formalina, da diorami a creazioni tassidermiche, da fossili a mappe nautiche, così, ascoltando il tappeto elettronico dei francesi, sperimentiamo le stazioni di viaggio verso un mondo altro che si sostituisce all’urgenza della vita quotidiana.
Tale processione musicale viene costruita essenzialmente dalle tastiere (a suggerire un mondo sospeso ed avvolgente), in cui intervengono brevi pizzichi di violino, occasionali dissonanze di pianoforte, echi indefinibili; è una discesa in cui avvertiamo il tumulto dei fluidi sotterranei, il pulsare continuo delle vene della Terra (Towards the abyss, Sonnensturme).
Inevitabili, ma appropriati, ci paiono qui i paralleli tra globo terrestre e corpo umano, pianeta vivente solcato da nascoste correnti biologiche; i due corni del paragone convivono, difatti, nella sentenza alchemica del VITRIOL: visita interiora tua ([o]Terrae), rectificando invenies occultum lapidem. 
La pietra filosofale dei Lightwave consiste nel ridonarci il senso perduto della meraviglia.

* Fondati nel 1985, si ricostituirono dopo il 1988. Arrivarono a Mundus subterraneus con tale line-up: il duo Christian Wittman e Christoph Harbonnier con l’aggiunta di Jacques Deregnaucourt, Paul Haslinger, ex Tangerine Dream, e Charlie Campagna.
** A meno che qualcuno non lo prenda per vero, come il personaggio di Salon ne Il pendolo di Foucault di Umberto Eco
*** Meritano una visita i reperti kircheriani a Roma, divisi tra il Museo Pigorini e il Liceo E.Q.Visconti in Piazza del Collegio Romano 


lunedì 1 agosto 2011

Le Stelle di Mario Schifano - Dedicato a (1967)


Nate su impulso del pittore pop Mario Schifano (1934-1998), forse su istigazione di Andy Warhol, a lui vicino, Le Stelle* sono il primo serio tentativo italiano di affrancarsi dalle dande dei tre minuti della forma canzone.
A quasi mezzo secolo dalla comparsa del disco sono numerose le incrostazioni che rendono difficile scorgere se il luccichio dell’opera sia un riflesso aureo o di volgare ottonatura. Gli elogi di certi sostenitori ad oltranza dell’hortus conclusus progressivo italiano, l’indubbia qualità della confezione, firmata da Schifano stesso, ed il conseguente feticismo dell’oggetto disco (uno dei vinili più rari ed ambiti di sempre) fanno velo alla nuda considerazione estetica, la sola che interessa.
A detrimento dell’opera è il chiaro ricalco dal progetto Warhol – Velvet Underground, dell’anno precedente, e un certo sentore di stantio che affligge tutto ciò che, in Italia, è a ricasco di modelli stranieri.
A suo vantaggio l’improvvisazione sincera e i diciassette minuti di Le ultime parole di Brandimante, dall’Orlando Furioso, ospite Peter Hartman e fine (da ascoltarsi con tv accesa, senza volume)**, davvero rivoluzionaria. Una tirata che parte con dialoghi da ritrovo bohémien ed evolve in una sarabanda psichedelica di tutti contro tutti, con la sola chitarra ad additare un sentiero nella giungla sonora in cui spicca l’organo infantile e dissonante di Marini; beffa finale: la sigla di chiusura dei programmi RAI***.
La seconda parte annovera una Susan song à la Nico, la cameratesca Intervallo e Molto alto, con interessante uso delle percussioni: il tono oscilla tra una blanda psichedelia e le sonorità beat del tempo che, discacciate dalla porta, rientrano dalla finestra.
L’opera deve molto, anche musicalmente, al potente impulso di Schifano, e rimane, proprio in virtù della sua estemporaneità, isolata storicamente e senza evidenti epigoni. Neanche l'ondata progressiva dei Settanta saprà lievitare il seme di questa eccitante anteprima free form

* La formazione comprendeva Nello Marini (voce, tastiere); Urbano Orlandi (voce, chitarra); Giandomenico Crescentini (voce, basso); Sergio Cerra (batteria); Francesca Camerana (voce)
** In realtà Brandimarte (Orlando Furioso, XXXXII, 14) che, ferito a morte da Gradasso rivela al paladino principe:
“Orlando, fa che ti raccordi
Di me ne l’orazioni tue grate a Dio;
Ne men ti raccomando la mia Fiordi …
ma dir non poté: - ... ligi -, e qui finio.”
Fiordiligi morirà poco appresso per il dolore.

*** Risentirla dopo molti anni è sconvolgente