sabato 30 luglio 2011

Gravitar - Gravitaativarravitar (1995)


Entità concepita nel Michigan dai chitarristi Jeff Walker e Harold Richardson e dal batterista Eric Cook, Gravitar riuscirono a concentrare in pochi album la brutale quintessenza del noise. 
Gravitaativarravitar consta, di fatto, di nove strumentali. La voce, infatti, preterisce il cantato limitandosi ad angoscianti grida ed invocazioni quasi ad esternare l’immenso orrore che pervade l’uomo quando perde fiducia nel proprio rapporto con la storia e la realtà. Tale disperazione, purtroppo, non conosce né la gioia per l’abbandono dei vincoli quotidiani e l’adesione alla comune origine - la natura - né la redenzione attraverso il godimento della contemplazione oggettiva del bello. Qui siamo a categorie oltreumane, non c’è posto per scorciatoie ottocentesche; ci si avvia alla consapevolezza di una reificazione senza speranze in cui l’umano viene eroso implacabilmente dall’inanimato: non altro significano queste tracce rivelatrici.
In Why is it so hard, Krug calling Retnik, Automation una linea strumentale più possente, sorta di inesausta colata lavica, convive con una linea più mobile, che ordisce distorsioni estreme, risucchi, gorgoglii cosmici; le percussioni sorreggono marziali cotanto sfacelo che in Strained si lancia verso l’ultima Thule dell’udibile. Solo i dieci minuti finali di Dirt burglar consentono di rintracciare una parvenza di canzone hard-rock, peraltro, anche questa, surriscaldata da folate elettriche letali.
In un libro di Valerio Evangelisti pubblicato nel 1998, Metallo urlante*, gli eserciti di un’umanità anaffettiva e schizoide, sorti sulle ceneri di vecchie civiltà e stati, si eliminano con armi ipertecnologiche tra le vestigia post-industriali di un passato irrecuperabile; i loro corpi sono devastati da morbi apocalittici che li trasmutano gradatamente in metallo; le cose (le corazze da guerra) hanno sviluppato forme di autocoscienza; anche la morte si è snaturata e non offre più rifugio: i soldati uccisi vengono rianimati e usati per nuove battaglie insensate.
Se questo incubo possibile avesse le proprie trombe del giudizio esse striderebbero come i metalli dei Gravitar.

* Faccio riferimento all’ultimo racconto del libro, Metallica. Tale futuro possibile si dispiega anche nelle altre opere di Evangelisti.

venerdì 29 luglio 2011

Zoogz Rift - Amputees in limbo (1984)

  •  

Zoogz Rift (al secolo Robert Pawlikowski), prematuramente scomparso nel marzo scorso, ha visto consolidarsi nel tempo il rango di allievo, misconosciuto, di Captain Beefheart e Frank Zappa.
Zoogz mancava della profondità destrutturante o del genio negli arrangiamenti dei due Maestri: i suoi sono quadri minimi, burleschi e cacofonici, che, a volte, si risolvono nel semplice gusto dello scherzo triviale (vedi il nome dato al complesso d’appoggio, Mr. Rift and His Amazing Shitheads o a certe sue autoproduzioni antecedenti, come Can you smell my genitals); tale leggerezza riposa, tuttavia, su una consapevolezza musicale fuori del comune e rimane incerto se egli si diverta a dissipare la propria sapienza o sia semplicemente affetto da quella malattia goliardica, composta in egual misura da anarchismo ed esibizionismo (fu persino wrestler in una lega minore) - malattia che ha perduto molta gente prima di lui, addirittura lo stesso Frank Zappa ai tempi degli insipidi barzellettieri Kaylan e Volman; non che queste prese per i fondelli non siano altamente godibili: But the picture has a moustache ridicolizza Sunshine of your love*; Buffy and Jody si accanisce contro i protagonisti di una melassosa situation comedy anni Sessanta; la profetica Heart attack viene declamata fra lo strimpello di organetti dementi; Searchin' for clams under the glass bottom boat è un duetto tra sassofono e vibrafono, siparietto strumentale per ripigliare fiato.
Ma il salto di qualità avviene con My daddy works for the secret marines, caracollante e ripetitiva, che il Nostro infioretta di nonsensi sbarazzini e cesellature chitarristiche, e la cui struttura ritroviamo in Moron serenade nonché in Evil eye virata, però, in quest’ultimo caso, su toni reggae; un lungo, bellissimo assolo esorna la jam Secret marines – the sequel, ma le partiture di Zoogz si accartocciano presto: My stuffed animals have rabies si lancia in una torrenziale tirata à la Beefheart, Disintegration waltz presta fede al titolo e presenta chitarre allo sbando con sberleffo finale (un accenno di Pretty woman); in Art band, vera dichiarazione d’intenti, la solita orchestrazione bizzarra con organo, fiati, percussioni e basso, gira in tondo a supportare gli sproloqui del cantante, più esagitato del solito.
Amatoriale (forse per scelta o compiacimento), e sicuramente episodico, l’universo di Zoogz Rift può certamente giudicarsi angusto se paragonato ai due artisti a cui, necessariamente, la sua musica viene ricollegata. Dobbiamo ascrivergli, tuttavia, oltre all’indubbio talento di strumentista, il merito di aver creato un moderno avanspettacolo, in cui canzone, dileggio e improvvisazione convivono serenamente: in questo ambiente peculiare regnò per decenni come un Falstaff impenitente. 

* In realtà But the picture has a moustache era un verso della canzone SWLABR, lato B di Sunshine of your love. SWLABR è acronimo di She was like a bearded rainbow, riferito ad una cornificatrice. 

mercoledì 27 luglio 2011

German Oak - German Oak - German Oak (1972)

 

Nell’anno di grazia 1972 cinque misteriosi individui di Düsseldorf decisero di fuggire la realtà (le Olimpiadi tedesche e l’episodio di Settembre Nero) sotterrandosi in un rifugio antiaereo della Seconda Guerra Mondiale (Luftschutzbunker) per ricreare, si favoleggia, lo stato d’animo dei connazionali durante quel carnaio (il gruppo dedica il disco ai propri familiari che sopportarono traversie immani durante quegli anni: la città fu, infatti, distrutta a più riprese dai bombardamenti angloamericani*).
Il parto si concretò in un un vinile con quattro strumentali: due lunghi brani su ciascuna facciata, dominati da chitarre e percussioni, sommati ad un introduzione e ad un commiato gemelli in cui è un organo ominoso a dettar legge.
Lo schema elementare si presta ad un’interpretazione altrettale: annuncio della discesa agli inferi (Airalert); catabasi vera e propria (Down in the bunker, con percussioni insistenti e basso funebre per accentuare l’entrata in un regno ctonio), inferno (Raid over Düsseldorf, una cavalcata psichedelica a simboleggiare le fiammeggianti incursioni aeree alleate; d’altra parte l’analoga incursione americana di Apocalypse now è scandita dalla tedesca Cavalcata delle Valchirie); anabasi liberatoria (1945 out of the ashes, la ripresa dell’organo di Airalert si scioglie nel suono finale delle campane a distesa e dei rumori della natura. Si torna alla superficie, alla vita).
La riedizione in CD del 1990, con l’introduzione di tre brani, se guasta l’equilibrio strutturale dell’opera**, ci consegna un resoconto ulteriore di quelle registrazioni ipogee. Swastika rising è una processione funerea in cui la chitarra si sostituisce alle tastiere; The Third Reich, preceduto da un discorso di Hitler, è, basicamente, un lungo solo di chitarra dall’andamento funky (un cascame di Echoes dei Pink Floyd?); Shadows of war: Rain of destruction-V1 to London presenta nella fase iniziale un organo martoriato che si spegne, via via, in un collage sonoro composto dal rumore della pioggia, dai cingolati, dalla voce franta del Führer, da rimbombi di basso.
Assolutamente ignorato all’epoca (11 copie smerciate secondo la leggenda), ignorato anche dall’ascoltatore onnivoro Julian Cope nel suo primo Krautrocksampler, il disco rientrò nella generale e disordinata rivalutazione degli anni Settanta continentali. Ad oggi merita un ascolto particolare per l’atmosfera claustrofobica, lo psichedelismo allucinato e l’indiretta testimonianza del mutevole sentire tedesco sul passato recente, fra rimozione, pietà e risentimento.
* Il resoconto cinematografico antinazista di tali vicende belliche è Twelve o’clock high (Henry King, 1949, tit.it. Cielo di fuoco), con un eccellente Gregory Peck; si basa sulla biografia del generale Frank A. Armstrong che introdusse il metodo del bombardamento diurno di precisione ad alta quota (cui il titolo originale Altezza dodici precise fa riferimento)” [Giancarlo Bertolina in Dizionario universale del cinema, I, 1986]. Per un resoconto obiettivo sulle atrocità della ‘morte da lontano’ è, invece, indispensabile Sven Lindqvist, A history of bombing (tit.it. Sei morto! Il secolo delle bombe, 2001) che, anche agli Italiani, riserva una giusta e, ormai secolare, dose d’infamia.
** Un’aggiunta interessante, ma discrasica rispetto al disco del ’72; oltretutto, nella riedizione in CD, tali brani sono anteposti ai quattro originari creando una certa confusione filologica oltre che stilistica.

Ed Hall - Motherscratcher (1993)

 

Terzetto di canaglie provenienti da Austin, Texas, (Gary Chester, Larry Strub, Lyman Hardy – sostituto di Kevin Whitley passato ai Cherubs – chitarra, basso, batteria), gli Ed Hall pervengono con Motherscratcher alla creazione più compatta ed inquietante, forse il loro capolavoro.
Capolavoro da intendersi come primus inter pares rispetto agli altri quattro, poiché il livello della produzione rimane alto e costante nei loro pochi anni di carriera.
seppur più distesoregli Hall ritrovano un incederese di un a rigidità sardonica. altissimoI Nostri riescono a disciplinare magistralmente l’andamento irruento e distorto dei loro brani; la sezione ritmica controlla a distanza le improvvise rasoiate del chitarrista ed impedisce alle composizioni degli Ed Hall di rovinare da un momento all’altro anche in alcune delle loro scorribande più estreme e sferraglianti (Twenty dollar bills, Urgent message for mankind). Basta confrontare, a questo proposito, Ha Ha Ha dei grandiosi Flipper con White House girls; nel primo caso le sonorità sembrano fuggire in tutte le direzioni come gatti tenuti troppo a lungo in una cesta, nel secondo i tre strumenti formano un blocco potente e compatto da cui si stacca la sei-corde scorticatutto di Chester mentre il basso continua a macinare imperterrito; le risate, più che sbracate e goliardiche, sono fissate in una rigidità sardonica: tutto è sotto controllo. Più che baccanali in verso libero qui abbiamo vetriolo in ottava rima.
Certo, è difficile negare che tale esercizio di disciplina non sia cresciuto a spese di un tono più beffardo e libero nei primi album, specialmente in Love poke here; una vena più pessimista e quasi angosciata si riscontra nello strumentale Afghani harvest period, oppure in Gnomes dove l’urticante chitarra di Chester rallenta, si allarga magnificente, si impenna improvvisa, si formalizza in un assolo hard, e sempre senza soluzioni di continuità, senza requie; anche l’altro strumentale Satori in Manhattan, Kansas, seppur più disteso, risente di questa vena incupita, mentre è solo con Dave the prophet che gli Hall ritrovano l’incedere di un tempo, gradasso ed irridente. E la sorpresa finale lascia spiazzati: una hidden track di ventiquattro minuti composta da una giustapposizione di rumori urbani, imprecazioni, tonfi, dialoghi sopra ad una minacciosa vibrazione di fondo. A dimostrazione che sotto le spoglie di tre eccellenti esecutori hardcore si cela un tratto nichilista notevole e non occasionale.

domenica 24 luglio 2011

Vasco Rossi - Vivere o niente (2011)


Il 22 Aprile 1973 Pasolini recensisce una silloge di poesie, in larga parte italiane; oscilla tra noia ed irritazione: “In Italia c’è un numero enorme di poeti che scrivono delle poesie come se svolgessero dei compiti … Le loro esperienze, del resto, non si distinguono dalle esperienze di qualsiasi piccolo borghese italiano: un po’ di malinconia, un grande rispetto per le cose in se stesse, quelle ammodo, qualche viaggio, qualche amoretto reso modicamente metafisico, corretto però da un fare vagamente mondano, in cui si sente il sapore dello stipendio”.

Poi si addolcisce e concede che alcuni autori “vanno bene”; improvvisamente, però, si pente della menzogna e chiude con una esecuzione: “Ho letto questo libro lontano dall’Italia, in paesi in cui l’Italia non è nulla, non conta nulla, è conosciuta appena di nome: è forse a causa di questa ottica che di fronte alla letteratura italiana provo un vago senso di stanchezza, di insofferenza, e anche di vergogna, forse per essere meschinamente coinvolto in qualcosa di meschino”.
Ascoltando il paradigmatico Vasco Rossi, nonché i maggiori della canzone italiana – ascoltandoli e ingurgitandoli, oserei dire, mio malgrado e contro ogni mia volontà, da più di un trentennio, sovvengono con insistenza queste due rapide sparatorie in cui basta sostituire musica a poesia per avere il rendiconto esatto dei nostri tempi.
Ormai non c’è neanche bisogno di spostarsi dalla Madrepatria per accertare lo straniamento pasoliniano di fronte alla piccineria italica; la Rete rende accessibili decine di migliaia di dischi di ogni parte geografica. Tale semplice fenomeno, la fruibilità di cose che, fino a pochi anni fa, avremmo ignorato per tutta la vita, ha schiantato ogni giudizio di valore pregresso e reso decrepito il nostro mainstream.
Solo uno spietato apparato di propaganda, che detiene il monopolio dei vecchi media, riesce a tenere in vita queste appiccicose sopravvivenze.
Il loro universo è un sentimentalismo adolescenziale asfittico o venato di indefinibili nostalgie liceali – in ogni caso di quarta mano e scevro da qualsiasi anelito di gioia e libertà. La ‘protesta’ e ‘l’impegno’ vengono declinati secondo i dettami residuali di una controcultura vicina al mezzo secolo oppure di una goliardia fasulla che possa poi dire, alla fine: “non vi preoccupate, abbiamo scherzato”. Il tono è sempre generico e indiretto, per non offendere nessuno. Si risparmiano le istituzioni tutte; si aborre l’ellisse, l’allusione, il simbolismo; au contraire dilaga la didascalia: se un italiano urla le pene d’amore o il vuoto esistenziale ha un cartello appeso al collo con su scritto: “Sono tanto triste”, se blatera contro il sistema: “Ora son alternativo”. Non si sa mai, qualcuno potrebbe non capire. Ogni tanto si incarica il turnista di schitarrare un poco per alternare al melodico un maledettismo stucchevole. Il look si adegua ai cambi di maschera.
Un’Italia in calzoni corti, sempre più piccola, ormai microscopica, fuori da ogni corrente vitale ed ascendente, costretta a giurare continuamente il falso sui propri giornaletti, a subornare su televisioni e riviste allegate gli ultimi gonzi per spillar loro gli ultimi talleri.